Il pensiero vissuto di István Mészáros

di Giorgio Riolo

La statura intellettuale e la statura morale, l’integrità umana, spesso non vanno assieme. Tuttavia abbiamo molti esempi di questa possibile integrità attorno a noi, nel passato e nel presente, che ci confortano e che ci spronano a non essere pessimisti, soprattutto riguardo alla nostra desolante realtà italiana. La sinistra realmente esistente avrebbe molto da imparare…

István Mészáros è uno di questi esempi. Allievo e collaboratore di Lukács, gli assomigliò molto. Grande capacità teorica e grandi qualità umane, grande modestia. Un “uomo buono”, come Cases definì il maestro. Così l’allievo.

Nelle tragiche vicende dell’ottobre 1956 in Ungheria, Lukács fu internato per due mesi e poi liberato. Era intellettuale e comunista troppo conosciuto e stimato nel mondo, non lo si poteva uccidere come accade a Imre Nagy. Mészáros invece dovette abbandonare il Paese e trovò proprio in Italia un primo rifugio dove poter lavorare e continuare l’attività di studioso. In seguito ottenne una cattedra universitaria in Inghilterra e qui vivrà fino alla morte, avvenuta il 1 ottobre scorso.

Il lavoro intrapreso dal filosofo ungherese correva parallelo a quello del maestro. Il marxismo non poteva essere ridotto a mera teoria di legittimazione di un socialismo sfigurato, ferocemente gerarchico, dispotico. Occorreva ritrovare l’anima genuina di Marx e proseguire la sua opera. Il nesso di sempre – di Marx e di Lukács – tra filosofia, economia e politica. In Mészáros la progressione di processo storico, forme di coscienza, azione sociale e politica. Lukacs creerà – dal 1956 alla morte, avvenuta nel 1971 – due monumenti del pensiero, non semplicemente opere marxiste. L’Estetica e la non conclusa Ontologia dell’essere sociale, nella sua visione potevano contribuire a riprendere la causa del socialismo, così minato dalle contraddizioni interne. Meszaros svilupperà il suo contributo dapprima con La teoria dell’alienazione in Marx del 1970 e poi con Oltre il capitale. Verso una teoria della transizione, apparso nell’originale inglese nel 1995 (*). Già nel 1971 egli richiamava l’attenzione sulla “distruzione ecologica” operata dal capitalismo, ancor prima dell’uscita del famoso rapporto I limiti dello sviluppo del Club di Roma (nel 1972).

«Il sistema principale non è il capitalismo, ma il capitale. La sfida consiste nell’estromettere il capitale fuori dal metabolismo sociale. Questo è ciò che deve essere sradicato. E questo non è un ideale o una fantasia, ma un obiettivo. E non è impossibile». La distinzione fra capitalismo e capitale per il teorico ungherese è cruciale.

La rivoluzione d’ottobre ha semplicemente rovesciato le forme istituzionali del capitalismo, non la logica fondamentale del sistema del capitale. Malgrado il cambiamento delle forme di proprietà. Non la collettivizzazione dei mezzi di produzione, bensì la “statalizzazione” con tutto quello che segue.

Il capitale, come diceva Marx, non è una “cosa”, non è quantità materiale, ma è “qualità”, è un “rapporto sociale” e pertanto è un rapporto di potere, è la gerarchia capitale-lavoro. È la netta separazione tra chi dirige e chi esegue, è dominio e comando sul “lavoro”.

Qui risiede la fondamentale, sempre presente, “alienazione del lavoro”, nelle formazioni sociali capitalistiche e nelle sedicenti, supposte società socialiste. Da qui una delle cause del rovinoso crollo del socialismo reale e il ritorno al luogo d’origine, al capitalismo, non realmente superato.

Si tratta quindi di creare la «alternativa alla società del capitale». Egli era ottimista, al pari del maestro, nel solco dell’«ottimismo storico» della lunga storia del movimento operaio, socialista e comunista. Confidava in una ripresa della «offensiva socialista». Anche e soprattutto in presenza della «crisi strutturale del capitalismo», dal 2008 in avanti. Confidava nella autorganizzazione e nella autodeterminazione sociale, dei soggetti, delle classi subalterne e dei popoli, non sul parlamentarismo. Confidava su forme di democrazia sostanziale e sull’eguaglianza sostanziale, non sulla esangue democrazia rappresentativa.

A partire dagli anni novanta Mészáros rivolse l’attenzione all’America Latina e ai promettenti processi sociali e politici che vi si svolgevano. Hugo Chavez lo lesse e lo definì «precursore del socialismo del XXI secolo», favorendo la pubblicazione della traduzione spagnola di Oltre il capitale. Contemporaneamente divenne uno degli interlocutori privilegiati, oltre che del Venezuela del processo bolivariano, dei movimenti sociali e della sinistra in Brasile dove molte sue opere vennero e sono tuttora pubblicate, diffuse e discusse.

Mészáros ha parlato anche di «limiti assoluti» del capitalismo, nella sua riproducibilità come sistema. Il problema rimane sempre quello. Capire quanto la capacità plastica di questa formazione sociale, mostrata nella sua lunga storia e soprattutto nel concepire e utilizzare le sue crisi ricorrenti come passaggi necessari e come sprone a riavviare altri cicli, altre riorganizzazioni e altri stadi di sviluppo. “Uscire a sinistra dalla crisi” rimane solo uno slogan. Importante, ma problematico. Oltre alle molte evidenze storiche per le quali si è piuttosto “uscito a destra”.

Il problema consiste nel vedere quanta sia la forza o la debolezza del sistema e delle sue classi dominanti, ma risiede anche e soprattutto nel capire la forza o la debolezza di chi contesta questo sistema. Sviluppo oggettivo e “forme di coscienza”, soprattutto nei Paesi dei centri capitalistici, presentano divaricazioni importanti. Ma qui il discorso si fa lungo e complesso.

Mészáros ha cercato di sviluppare questi complessi problematici dapprima con Struttura sociale e forme di coscienza del 2010 (in inglese) e poi con il lavoro teorico in cui era impegnato negli ultimi anni sullo Stato e sulla politica, rimasto purtroppo incompiuto.

(*) cfr «Oltre il Capitale» (recensione di Gian Marco Martignoni al saggio di Istvan Meszaros, tradotto in italiano)

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