Cile, serpente del Pacifico

Viaggio dall’Atacama allo Stretto di Magellano

di Kumba Diallo (*)

“Antofagasta sta nel Cile”: era un appunto che scrissi nel quaderno di geografia durante una lezione particolarmente noiosa, a 10 o 11 anni. Invece di accendere l’immaginazione infantile evocando terre lontane, la voce monotona dell’insegnante enumerava, citava il libro di testo, era soporifera, per cui trovavo più interessante misurare le distanza sulle cartine dei vari continenti tra una città e l’altra, usando un righello e moltiplicando a seconda della scala, snidando i nomi più evocatori. E “Antofagasta” aveva un suono così esotico che volevo imprimermi nella memoria dove si trovasse. Così forse è nato in me il desiderio di vederla, questa città dal nome affascinante. Due altri elementi hanno più tardi agito come attrattori potenti: la memoria indelebile dell’11 settembre 1973 e di quello che ha significato per chi allora seguiva appassionatamente l’avventura cilena di Allende e per le sinistra tutta, e l’amore per la poesia di Neruda, ucciso dai medici-macellai del golpe di Pinochet.

Il Cile era per me una meta molto speciale e vi sono arrivata carica di aspettative.


Nei tre mesi del viaggio cileno molti altri luoghi mi hanno risarcito della piccola delusione legata ai ricordi d’infanzia, ma devo ammettere che trovo difficoltà a riordinare e coordinare nella scrittura le impressioni complesse e contraddittorie che quella scorribanda di migliaia di chilometri mi ha lasciato. Difficoltà legata a disagio.
Mai avrei immaginato di snobbare quella città dal nome fantastico, molti decenni dopo, evitando di fermarmici: è rimasta un’immagine fuggitiva poco attraente, una città mineraria (e universitaria) brulicante di businessmen con un porto dall’attività febbrile, a detta di tutti tra le più care di un paese che ha prezzi di non molto inferiori a quelli medi europei, circondata da un paesaggio che chiamare brullo è dir poco.

L’oceano, il deserto, la selva, le spiagge, le Ande cui non sono riuscita ad avvicinarmi quanto avrei desiderato, mi hanno catturato l’immaginazione e lo spirito, ma dopo qualche settimana tale fascino ha incrociato sensazioni spiacevoli, suscitate dalla percezione di un’aura militarista che aleggia nelle città e traspare dalla onnipresenza dei carabineros, dalla frequenza di strade intitolate a generali e di piazze con al centro statue di eroi dell’indipendenza e/o conquistadores, dalla constatazione di un nazionalismo serpeggiante che ancora si vanta della vittoria contro Bolivia e Perù nella Guerra del Pacifico (1879/84), e di un potere oligarchico intento ad estrarre e sfruttare intensivamente le molte risorse minerarie, forestali, ittiche, energetiche[1].

E ciò a costo di condurre una vera e propria guerra contro l’unico popolo autoctono che ancora esiste e resiste (da secoli!) al furto di terra e acqua della regione da loro abitata, l’Araucania[2]: i Mapuche, e di danneggiare irrimediabilmente risorse non rinnovabili come spiegherò più avanti.

Mentre preparavo il materiale per questo articolo ricercando anche in rete, mi è capitato di leggere la testimonianza di un professore espatriato, che dopo un soggiorno di qualche anno addirittura parla di un “Cile truffa”[3]. Si sentiva deluso come se fosse caduto in una trappola accettando l’incarico d’insegnamento universitario e confessava “questo paese mi rende triste” … affermando che “è il profitto che controlla ogni cosa”.

Quanto a me, che vi sono rimasta non quattro anni ma tre mesi, ogni viaggio mi arricchisce e mi nutre lo spirito, apre nuovi orizzonti mettendomi di fronte a problematiche impreviste ma, ahimè spesso, a nuovi oltraggi all’umano. Così in Cile il piacere del viaggiare, scoprire, camminare su spiagge a perdita d’occhio, chiacchierare in autobus o al mercato trovando frutta o piante (o alghe!) sconosciute, fare escursioni nell’Atacama o salire erte ripide nella selva valdiviana, unica al mondo, è stato adombrato da quanto venivo conoscendo sul tessuto economico-sociale del paese e sul tallone di ferro inestricabilmente connessi a tale bellezza, sugli assassinî che per preservarli venivano commessi quasi in contemporanea – Camilo Catrillanca, militante contadino mapuche, 24 anni, un nome che leggevo nei graffiti di molte città, era stato ucciso poche settimane prima del mio arrivo, a fine novembre 2018, ultimo di una lunga lista di nomi.

Questo valga come introduzione, questa l’ambivalenza che è stata la cifra del mio viaggio cileno; ancor più lo percepisco ora mentre cerco di narrarlo. E i due piani, il fascino natura-cultura e la constatazione della predazione capitalista e del suo prezzo umano si intersecheranno in queste pagine.

Amministrativamente il paese, lunghissimo e sottile, è suddiviso in sedici Regioni [4] (per seguire la narrazione d’ora in poi temo sia imprescindibile tenere presente la carta geografica), una delle quali, la sedicesima, è quella metropolitana di Santiago, la capitale. Le ho toccate tutte e ne parlerò in successione dal nord al sud, a partire dal centro, Santiago. Da qui ho preferito dirigermi a nord fino ad Arica, per poi scendere, in parte ripercorrendo alcune tappe, fino a Punta Arenas: mezzo di trasporto principale gli autobus a lunga percorrenza, poi in Patagonia essenziali i traghetti, e infine l’aereo da Punta Arenas a Santiago. Ma comincerò il resoconto dalla prima tappa, dove l’aereo ti deposita se arrivi dall’Europa.

Quello di Santiago mi è parso un bel centro urbano, l’unica parte che ho visitato pur assai parzialmente: quartieri monumentali e facciate ottocentesche convivono con enclaves art- nouveau e con grattacieli ultimo grido, creando insiemi visivi che a volte rammentano certi scorci di Chicago, con campanili affusolati disegnati contro pareti di vetro e acciaio. Il fiume Mapocho era un rivolo fangosissimo in piena estate, con un lungofiume molto piacevole, ombreggiato da enormi platani e punteggiato di panchine. Ma a disturbare la placida passeggiata ecco comparire ai lati dell’alveo quasi asciutto scritte e murales: “Han matado a la negra”, allusione all’uccisione di Macarena Valdés, militante ambientale “suicidata” per la sua battaglia contro un’impresa idroelettrica che avrebbe sottratto acqua e terra al territorio mapuche[5]. Leggo oggi che dopo due anni ancora il marito si batte per far riconoscere la perizia che attesta l’omicidio, istruire il processo e smascherare la montatura poliziesca del suicidio per impiccagione.

I panorami urbani dal Cerro S. Lucia, una bella macchia di verde nel traffico e, dall’altro lato del fiume, dal Cerro S. Cristóbal, sono molto scenografici: quel lunedì di novembre la funicolare del Cerro S. Cristóbal era bloccata da uno sciopero, ma solo fino alle 5 di sera, per cui ho pazientato leggendo all’ombra e osservando operai e operaie che dietro a cartelli che proclamavano la chiusura si intrattenevano ascoltando musica e ballando. Vedendomi interessata alla protesta mi hanno invitato ad entrare oltre la rete e spiegato che la ragione principale del “paro” era la stagionalità dei contratti, sempre precari, con conseguente mancanza di diritti. Tutto il mondo è paese.

La visita al Museo Nacional de Bellas Artes, grandiosa costruzione che ricorda il Museo d’Orsay a Parigi, mi ha fatto scoprire un artista cileno che sin da giovanissimo è vissuto all’estero e dopo il golpe di Pinochet fino alla fine della dittatura ha risieduto a lungo in Italia, dove è morto novantenne (a Civitavecchia): Roberto Sebastian Matta, l’ultimo surrealista.

Molto interessante il centro Culturale Gabriela Mistral (GAM); aperto al pubblico giornalmente, contiene un Auditorium, offre workshops della più varia natura, organizza mostre, ha un ufficio informazioni anche rivolto ai turisti e soprattutto dà a molti giovani la possibilità di utilizzarlo giornalmente come vogliono: quando ci sono passata, nel vasto atrio vari gruppi danzavano, facevano ginnastica, c’erano capannelli, regnava una piacevole animazione.

Ma ciò che più mi ha affascinato è stato il Museo di arte precolombiana: visitato il giorno stesso del mio arrivo in Cile, mi è servito da introduzione ad alcune delle più belle espressioni artistiche del paese e alle culture principali delle molte popolazioni native. In particolare, stupefacente l’esposizione di mummie Chinchorros, che hanno costituito una delle scoperte più entusiasmanti (e toccanti) di questo viaggio. Sono le più antiche del mondo in quanto le prime, dette momias negras, risalgono a 7000 anni fa, ben prima di quelle egiziane.

I Chinchorro vissero nel periodo arcaico (a partire da circa 8000 anni fa) in una vasta zona che comprendeva il sud del Perù a partire da Ilo, l’altipiano boliviano e il nord del Cile fino ad Antofagasta[6]. Addossati alla costa, erano abilissimi pescatori, raccoglitori di molluschi, raccoglitrici di frutti selvatici, artigiani/e, ma si distinguevano da altre popolazioni coeve in quanto unici nello sviluppare tecniche sofisticate di imbalsamazione come espressione di amore e rispetto per i morti che concepivano come ancora parte del loro presente. Ma le più belle e numerose mummie Chinchorro sono conservate nel Museo dell’Università di Tarapacà, a San Miguel de Azapa, nella XV regione al confine con il Perù, e quindi ne parlerò più diffusamente nella prossima puntata che descriverà il viaggio vero e proprio a partire dal nord.

NOTE:

[1] Si veda, in uno spagnolo facilmente comprensibile, l’articolo sul giornale online El Mostrador “Chile la Oligarquia Familiar”, 18 de mayo 2015.

[2] E’ il nome spagnolo (che i Mapuche non usano mai) del Wallmapu cileno, il territorio ancestrale dei Mapuche a sud del fiume Biobio che si estende fino alla Patagonia, di qua e di là della Cordigliera delle Ande.

[3] https://www.edizionisur.it/sotto-il-vulcano/24-07-2014/il-cile-un-paese-truffa/

[4] https://www.amazon.it/Chile-mappa-fisica-Carta-plastificata/dp/B0187DU1WS

[5] https://radio.uchile.cl/2018/07/29/macarena-valdes-una-victima-de-la-defensa-ambiental-en-chile/

[6] La cultura Chinchorro, di Bernardo Arriaza y Vicki Cassman, Università del Nevada, https://www.uta.cl/masma/patri_edu/chinchorro.htm

(*) da http://croceorsa.blogspot.com/

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