Il Sud a partire da sé

Un intervento di Gisella Modica al convegno «I sud, le mafie: le donne si raccontano» (Casa Internazionale delle donne: Roma, 5-7 aprile 2013) ; a seguire una bibliografia e alcuni link.  

Tema del mio intervento è la relazione che intercorre fra la capacità, o meno, di raccontarsi e raccontare, da donna, il sud, a partire da sé, e dunque tra l’uso dell’immaginazione, e l’individuazione di nuove pratiche politiche che facciano presa sul territorio – prove tecniche di resistenza le abbiamo chiamate – del tipo di forza da mettere in campo (nel significato che ne dà Luisa Muraro in «Dio è violent») di fronte alle trasformazioni delle mafie (mafia/camorra/‘ndrangheta) – di cui, al convegno, parlerà Franca Imbergamo – diventate un“sistema/potere globale onnipervasivo e al contempo invisibile che mette al lavoro la totalitá delle nostre capacità corporee e psichiche”: come le definiscono Tristana Dini e Nadia Nappo, a proposito del rapporto tra corpi e biopotere, sul sito «AdA teoria femminista» fondato da Angela Putino e Lucia Mastrodomenico.

L’esigenza nasce in particolare dalla presa di distanza di alcune amiche siciliane dal tema di questo convegno «I sud, le mafie, le donne si raccontano» motivato dal timore di rimanere intrappolate nello stereotipo donna=sud=mafia=svantaggio, che contiene in sé il rischio cadere nel rivendicazionismo; e dall’altro di riproporre vecchie divisioni tra donne del nord e del sud.

L’argomento, come molte forse ricorderanno, ha animato il dibattito al convegno di ottobre scorso a Paestum, quando le promotrici, parlando di «alcune caratteristiche del sud», si sono riferite alle «operaie che producono i pullover nei sottoscala». Riproponendodi fatto il sud come «luogo esclusivo delle condizioni materiali».

Da qui l’invito da parte delle amiche a spostare l’attenzione sulle relazioni tra donne, del nord e del sud, grazie alla conquista della libertà femminile, che non considera dirimente o prioritaria la differenza di contesto.

«Come donna la mia patria è il mondo».

Invito che ho interpretato come rimozione.

Raccontare, da donna, il sud, e raccontarsi donna del sud, fa ostacolo.

Se poi provi a scriverne, la pagina resta bianca.

Come è rimasta la mia, per molti anni, prima di portare a compimento un lungo racconto autobiografico, politicamente molto scorretto, sugli effetti che, a mia insaputa, hanno avuto su di me, sul mio carattere, sui miei comportamenti, sul mio inconscio, un uomo di mafia conosciuto solo attraverso i racconti appassionati di mia madre; e un luogo, una comunità, quella dell’infanzia, impregnati di codici mafiosi.

Ciò a dimostrare che siamo di fronte ad un potere, quello mafioso, al quale «puoi opporti e fare resistenza ma ha già agito sui comportamenti», si legge sul sito di AdA.

Perché se è pur vero che le mafie sono anche al nord, diverso è il racconto di chi è nata e vissuta in terra dove le mafie hanno radici, ne ha respirato l’aria, nutrendosi, suo malgrado, dei suoi codici e del suo immaginario.

Di questa difficoltà a raccontare/si, che sconfina nella rimozione, ne parla con molta efficacia una giovane donna calabrese, Denise Celentano, che malgrado la sua giovane età, 26 anni, avrà un ruolo importante nell’evoluzione della mia ricerca:«donna e calabrese, dio mio, che colpo. le due cose insieme non mi restituivano libertà, ma un’immagine di oppressione: di passato vischioso, non di futuro … significava disoccupazione, dipendenza economica …. la questione però non mi riguardava, perché io non ero calabrese come le altre, ero diversa … e a 18 anni ho fatto le valigie con l’intenzionedi azzerare per sempre quello che era stato un incidentedi percorso (essere calabrese) per rinascere altrove e altra».

L’effetto che ne deriva è di spaesamento.

Da qui è partita una incursione tra gli scaffali della mia biblioteca, un andare e tornare, alla ricerca di scritti di altre donne che hanno affrontato l’argomento. Convinta che è proprio in presenza di un ostacolo, di un inceppamento che può avere inizio la ricerca verso soluzioni impensate.

La prima in cui mi imbatto è Emma Dante, la quale, in una conversazione con Luisa Cavaliere sulla «identita’ pericolosa del sud» (marginalità, silenzi, complicità) definita «un trabocchetto sotto la sabbia» (ecco tornare il tema della trappola), scrive:

«Forse perché vivere al sud è come stare sempre in scena … non trova completezza, ti conduce alla fonte della tua precarietà esistenziale».

«Forse perché vivere al sud è vivere la contraddizione continua, lacerante, tra l’appartenenza e il bisogno di dichiarare la propria differenza» – risponde Rosella Postorino nella stessa conversazione.

«Sono del sud, ma …». Esigenza del differire che un lombardo non ha.

Continuo a cercare tra gli scaffali.

«Abbiamo paura di parlare di noi come spettatrici perché siamo state abusate nello sguardo».

La frase è di bell hooks, ma la riprende Beatrice Monroy a proposito degli sguardi «oscuri … appiccicosi come colla» sul corpo adolescente di Franca Viola che attraversa di corsa la piazza di Alcamo e per sottrarsi vorrebbe essere invisibile.

«Una rete di sguardi che controllano».

Sono sguardi che conosco bene, gli stessi della mia infanzia. Sguardi di gente «senza nome» o nominati semplicemente iddi cioè “loro”. Come vengono tuttora chiamati i mafiosi, in Sicilia, una terra dove fin dalla prima strage di Stato, quella di Portella, la mafia era «frutto di una allucinazione collettiva … un gioco di specchi con le immagini rovesciate che non sono mai dove ti aspetti che siano» (Maria Rosa Cutrufelli in «I bambini della ginestra»).

Poi la domanda che un’amica,Emma Baeri, storica e scrittrice molto apprezzata, si pone nel suo prezioso libro «Isola Mobile» – una sorta di memorial per le generazioni future «di una donna-nonna femminista e gattara», crea un primo nesso.

«Appartenere al paese delle donne, mi ha spaesato dal paese storia?».

«Ci ha spaesato dal paese/territorio?» mi sono domandata ripercorrendo, insieme ad Emma, il mio passato femminista.

Perché seppure convinta, da femminista, che la libertà femminile accada a prescindere dal contesto e dal periodo storico in cui essa viene al mondo, è pur vero che questa – che non è un contenuto ma un taglio, un «punto di avvistamento» soggettivo sul reale – si modifica e prende forma secondo le necessità dei contesti che attraversa e trasforma, e da questi ne è trasformata.

Mi tornano davanti le immagini dei corpi di donne nelle ultime «Rielaborazioni» fotografiche di Letizia Battaglia, che, da lei stessa innestati «per disgusto, forse per disperazione» nel suo contesto usuale (foto di morti ammazzati, di miseria, di boss, di povertà) lo trasformano, danno un altro taglio alla scena trasformandosi loro stessi in altro.

Ma i due piani restano strettamente collegati. L’uno (i corpi) cambiano prospettiva solo in quel contesto e non in un altro.

Ma c’è dell’altro: costringe chi guarda ad alterare il suo sguardo per immaginare«un’altra scena».

Su questa alterazione del mio sguardo davanti alle foto tornerò più avanti.

Maria Rosa Cutrufelli, che si definisce «donna del sud per scelta», seppure non viva al sud, in «canto al deserto», di cui si parlerà domenica al convegno, mi viene incontro con un’altra immagine:

«Per scrivere, come donna, del sud, bisogna andare e tornare … un’oscillazione perenne».

Avvicinarsi e allontanarsi, fare su e giù.

Stessa modalità, mi viene da pensare, per non perdere di vista e tenere presente il punto d’origine, quello materno. Forse l’unica per non rimanere «intrappolate in una doppia origine»: simbolica e geografica.

Dunque il punto d’origine (simbolico e geografico) va tenuto sempre presente, mi dico.

Di più.

E’ «conditio sine qua non del mio essere» – afferma Maria Attanasio, poeta siciliana, parlando di Caltagirone «pozzo mare della sua infanzia».

«Ogni tanto mi chiedo» – leggo più avanti nel suo poemetto «Della città d’argilla» – «quale sarebbe stata la mia storia se il mio orizzonte esistenziale fosse stato di marmo o di cemento invece che di creta e di dialetto, o del bianco della neve e del nero delle sciare sul vulcano…».

Mi fa venire in mente le scrittrici postcoloniali che, nell’evidenziare i limiti di un femminismo eurocentrico, hanno riposizionato lo sguardo sul punto d’origine luogo di dominio coloniale/patraircale e di interruzione della memoria – riportando al centro ciò che stava ai margini, trasformandolo da luogo di esclusione a luogo di resistenza, e posizionandosi nel punto mediano fra i due spazi.

Paola Zaccaria lo chiama «stare sulla soglia dove posso invitare l’altro ad entrare, ma anche l’altro può invitare me a venire fuori».

Ripenso allora ad una frase della stessa Attanasio durante un’intervista per «Letterate Magazine»: «Per chi guarda dal margine, punto d’intersezione di derive opposte che si mescolano … è più facile gettare uno sguardo più acuto che sottraendosi alla logica della globalizzata omologazione del fare e del pensare … è capace di cogliere punti di contatto e di condivisione tra i due estremi».

Non posso non registrare come luoghi – ex colonie – seppure molto distanti tra loro geograficamente, ma abusati e spossessati in egual modo dei beni materiali, della memoria, e della lingua, producano effetti/visioni simili nei soggetti che li abitano.

Ho citato fino adesso una fotografa, una poeta e tre scrittrici.

Del sud come ribaltamento del punto di vista, e insieme punto di forza hanno infatti sempre raccontato, singolarmente e in modo singolare, artiste e scrittrici attraverso per esempio l’invenzione di personagge eccentriche e ribelli – inventate o realmente esistite – protagoniste di azioni eccedenti. Personagge come Tina, a’ masculidda, soldato di mafia, protagonista di «canto al deserto», con «una smodata capacità d’orgoglio, una incapacità di adattamento che alla fine diventa forza pericolosa, sconosciuta, esorbitante».

Come è la forza di Modesta in «L’arte della gioia»; di Concetta La Ferla in «Di concetta e le sue donne»; di Maria Occhipinti, in «Una donna di Ragusa».

Come fare diventare, mi chiedo, queste personagge d’invenzione, forme di coscienza collettiva?

Come per esempio la mestiza descritta da Gloria Anzaldúa in «Terre di confine/la frontera».

Il fatto che non lo siano credo abbia a che fare con la difficoltà, e dunque con l’assenza di una narrazione che a partire da me, da ciascuna di noi, posizioni lo sguardo sul sud, e sul proprio sentirsi donna del sud, come possibilità di trasformazione politica.

E qui mi è venuta incontro Denise, che scrive:

«Quel che ignoravo era che, comunque, io con questa terra (la Calabria) avevo un legame, la cui negazione era il sintomo più evidente».

«Che effetti aveva questa ingombrante assenza in termini sociali e politici?» si domanda.

Denise troverà una via d’uscita.

L’esperienza della maternità (non a caso un’esperienza che trasforma il corpo), riportandola in Calabria, la porterà inaspettatamente, attraverso la ricerca e il confronto con donne più grandi di lei, reali e simboliche, a verbalizzare il disagio, tracciando al contempo un percorso di riappropriazione di sé:

«Calabria … era esattamente come prima ero io nel bisogno di misurarmi con lei per conoscere me stessa. facendomi largo fra stereotipi e rimozioni, mi collocavo nella storia e nei luoghi … e nell’indagare quello che era un mio disagio, scoprivo un altro sud … una sorta di polo sud del pensiero».

Questo «polo sud del pensiero» dà una svolta alla mia ricerca.

Di questo sud «non confinato ai soli luoghi geografici» o dove luoghi mentali e geografici si sovrappongono, parlò negli anni novanta la rivista «nosside», diretta da Renate Siebert, proponendo l’inizio di una ricerca – credo non proseguita – su il sud nelle donne come metafora del desiderio e insieme spinta verso l’agire sociale e il cambiamento.

Come modalità proponeva quella di «scavare nell’immaginario attraverso i sentieri dell’emozione e dell’esperienza».

Il sud immaginario o immaginato.

Il sud che ogni donna – del nord e del sud – si porta dentro.

Isola mobile.

«Un vasto territorio disseminato di Madonne nere, di Sibille, di Sante e Donne di fuori».

Figure liminali, metà prefiche, metà guaritrici, sul confine tra reale e inventato che «richiamano la cultura delle narratrici».

Donne capaci di entrare in relazione con ciò che è altro da sé e altro di sé.

Senza cadere in mitologie meridional-femministe ho voluto citare «Black Madonnas» di Lucia Chiavola Birnbaum che mi consente di azzardare un paragone fra queste figure e alcune donne di mafia che si sono sottratte al Sistema e per questo hanno pagato un prezzo altissimo.

Mi riferisco alle testimoni e collaboratrici di giustizia che Alessandra Dino definisce appunto «figure di confine sospese tra due mondi. Donne dalla doppia vista che abitano una posizione terza».

Come Carmela Iuculano, la cui storia ascolteremo stasera al convegno.

Capacità che le donne del sud utilizzano nel quotidiano, sostenute dall’intima consapevolezza, tramandata da madre in figlia – che c’è qualcosa di essenziale per la propria esistenza che resta nell’ambito del non dicibile, e del non visibile. E tale deve rimanere.

«Io in ogni stanza della casa tengo un santo» mi racconta una donna di un quartiere molto povero e antico di Palermo, durante un laboratorio di narrazione: «nell’ingresso ho padre Pio, grande così, nella stanza da letto, il cuore di Gesù e sopra il comodino santa Rosalia, che quella nessuno me la deve toccare. Mio marito mi dice perché non li levi, ma a me, quando faccio i lavori di casa, mi piace parlare con loro e guardarli».

Donne che trascorrono le loro giornate nel cortile o sul pianerottolo di casa, luogo deputato agli scambi, la cui sopravvivenza, in situazione di grande precarietà e povertà, è resa sopportabile, oltre che dalla capacità di raccontare, da quella di di entrare ed uscire, senza perdersi, fra due mondi: il vero e l’inventato.

Tra realtà e immaginazione.

Immaginazione non è «fantasia arbitraria» – mi dicono le autrici di «Immaginazione e politica» della comunità Diotima di Verona che vado a consultare – E’ «rischiosa vicinanza tra reale e immaginario … un andirivieni … un passaggio attraverso cui smuovere il reale da una fissità mortifera».

Del resto anch’io,davanti alle foto di Letizia Battaglia, solo ponendomi in una dimensione di confine, dislocando lo sguardo, ho potuto immaginare un’altra scena, smuovendola dalla sua fissità mortifera.

Proviamo allora, mi sono detta, a ripartire da questo polo sud del pensiero – sud immaginario e immaginato o ancora da immaginare – che ogni donna, del sud e del nord, si porta dentro, e a raccontarlo, riattraversando, come i corpi di Letizia, la scena, e chissà che non ci aiuti a dislocare lo sguardo su un altrove «percepibile nella sua esistenza solo con una trasformazione della mente», smuovendo la realtà dalla fissità mortifera imposta dalle Mafie.

Bibliografia

Luisa Cavaliere «Anticorpi», Liguori, 2010

Diotima, «Immaginazione e politica», Liguori, 2009

Beatrice Monroy, «Niente ci fu», Meridiana, 2012

Beatrice Monroy, «Noi, i palermitani», Marietti, 1991

Angela Putino, «I corpi di mezzo», ombre corte, 2011

aa. vv. «Genealogie», Sabbiarossa edizione, 2013

Gisella Modica, «Mi dispiace don Fifi», villaggio maori edizioni, 2013

Gisella Modica, «Parole di terra», Stampa alternativa, 2004

bell hooks, «Elogio del margine», Feltrinelli, 1998

aa. vv. «Donne di mafia», Meridiana, 2005

Renate Siebert, «Le donne, la mafia», Il saggiatore, 1994

Ombretta Ingrascì, «Donne d’onore», Mondadori, 2007

Anna Puglisi, «Sole contro la mafia», La luna, 1990

Felicia Bartolotta Impastato, «La mafia in casa mia», La luna, 1987

Roberto Alajmo, «Un lenzuolo contro la mafia», Gelka

«Ho fame di giustizia, la rivolta delle donne a Palermo contro la mafia», Navarra, 2011

Lucia Chiavola Birnbaum, «Black madonnas», Palomar, 1993

Maria Occhipinti, «Una donna libera», Sellerio, 2004

Maria Occhipinti, «Una donna di Ragusa», Feltrinelli, 1976

Maria Attanasio, «Di Concetta e le sue donne», Sellerio

Maria Attanasio, «Della città d‘argilla», Mesogea 2012

Gloria Anzaldua, «La frontera», Palomar, 2000

Goliarda Sapienza, «L’arte della gioia», Einaudi, 2008

Evelina Santangelo, «Cose da pazzi», Einaudi, 2012

Giuliana Saladino, «Terra di rapina», Sellerio, 2001

Giuliana Saladino, «Chissà come chiameremo questi anni», sellerio, 2010

Daniela Carmosino, «Uccidiamo la luna a marechiaro», Donzelli, 2009

«Donne del sud», a cura di Nella Ginatempo, gelka, 1993

Associazione per una libera università delle donne, «Donne del nord, donne del sud», Franco Angeli, 1993

Centro studi ricerca e documentazione donna, «Nosside», Rubettino, 1990

Maria Rosa Cutrufelli, «I bambini della ginestra», Frassinelli, 2012

Maria Rosa Cutrufelli, «Canto al deserto», Tea, 1997

Emma Baeri, «Isola mobile», Giuseppe Maimone editore, 2012 (fuori commercio)

Carla Cerati, «La vera storia di Carmela Iuculano», Marsilio, 2009

Alessandra Dino, «Liberi di esistere», Mimesis, 2011

LINK (per il convegno)

intervista Alessandra Cerreti

http://www.noidonne.org/articolo.php?ID=04231

intervista Tripodi

http://www.noidonne.org/blog.php?ID=03758

intervista Lanzetta

http://www.noidonne.org/blog.php?ID=02941

intervista a Maria Teresa Morano (presidente antiracket)

http://www.noidonne.org/blog.php?ID=03940

articolo su Lea Garofalo

http://www.noidonne.org/blog.php?ID=03706

articolo sul processo di Giusy Pesce e su due libri sulla ndrangheta

http://www.noidonne.org/blog.php?ID=03098

 

Redazione
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