Il tempo dell’impotenza

Foto di Ambra Pastore

di Paolo Mottana (ripreso da Comune-info)

Questo è il tempo dell’impotenza. Diciamocelo. C’è un gran frastuono di parole, di invettive, di battibecchi ma la sostanza è evidente. Siamo nel buio. Sono nel buio i cosiddetti scienziati, sono nel buio i governi (e non solo il nostro), siamo nel buio tutti. E continuare a pretendere chiarezza, informazioni e dati limpidi, discipline rigorose è abbastanza ridicolo. Finiamola.

La nostra estraneità all’ombra e al buio ci rende ciechi e impauriti ma occorre invece abituarsi a muoversi nell’ombra, ad accettare di esplorare con prudenza e lentezza il tempo dell’oscurità e del dolore.

Mentre si starnazza da una parte contro le restrizioni e dall’altra se ne pretendono di più severe, abbiamo l’occasione di aprire un tempo di riflessività, di depressione, di introversione e di frenare la spinta maniacale del mondo. Abbiamo l’occasione di essere solidali con chi è più colpito e di non cercare soluzioni immediate, quanto di lasciar maturare questo specifico Zeitgeist, quello dell’impotenza, del non venirne a capo, della “capacità negativa” di cui parlava un grande poeta inglese (Keats) dell’800. E di cui si appropriò Wilfred Bion per indicarci la capacità di stare nel dubbio, nell’ansia di non capire e di arrivare, “senza memoria né desiderio” forse a una qualche nuova rivelazione.

Io non giudico la rabbia che circola, nemmeno la mia, è sacrosanta, non si può non essere arrabbiati nell’impotenza, nella perdita di libertà e nel vedere ridursi il nostro spazio vitale, i nostri sogni o le certezze su cui abbiamo fondato le nostre vite fino a quel momento, economiche o affettive che fossero.

Stiamo vedendo un mondo sprofondare, un mondo per molti versi brutto, sbagliato, diseguale, corrotto, avvelenato e avvelenatore. E non possiamo fare nulla. E non possiamo guardare alla Cina o alla Corea portandole ad esempio perché tra noi e loro ci sono abissi culturali e religiosi invalicabili. Restiamo nel nostro pantano, con i nostri “compiti a casa” da fare, quelli di chi per secoli si è lanciato in una corsa sfrenata per fottere la natura, fuori e dentro di noi. Per fottere gli altri, per fottere sé stesso.

Chiedere il silenzio sarebbe troppo, per natura noi siamo chiassosi, chiacchieroni, partigiani.

Ma un poco di astensione dal giudizio, un poco di cautela nel prendere parte ogni giorno su qualsiasi cosa, un poco di compassione per le nostre incapacità, per la nostra impotenza, per la nostra debolezza. Nostra, dei governi, degli scienziati, dei complottisti, tutti portatori di verità parziali e insufficienti di fronte a quello che appare come una grande frana del sistema di civiltà capitalistica arrivata allo stremo dello sfruttamento del suo mondo, delle persone, della natura.

Se proprio dovessi immaginare un futuro, non sono certo di volere quello che c’era prima di questa catastrofe e certo, come per molti, non sono affatto convinto di un mondo più tecnocratico di quanto già non sia questo.

Per ora non so, e credo sia giusto non sapere, dobbiamo imparare a stare nel buio, nel non capire, nel non avere certezze, nel dialogo con la malattia e la morte che si è aperto nostro malgrado, con una malattia che ha sbaragliato tutte le nostre consuetudini ma soprattutto tutta la nostra fiducia in quella scienza che tanto è stata contrabbandata come la panacea di tutti i mali.

Occorre recuperare misura e senso del limite umano, occorre ricordare che la natura è sempre più forte di noi, anche quella interna e che scagliarsi contro un governo fatto di uomini deboli, contro i comitati composti da altri uomini impreparati al buio, o contro la rabbia sociale di altri uomini feriti, è solo incredibilmente presuntuoso.

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