Il Venezuela bolivariano non arretra

Maduro confermato presidente grazie ad una base chavista ancora solida. Il boicottaggio elettorale di gran parte dell’opposizione non ha pagato
di David Lifodi (*)

Maduro confermato presidente grazie ad una base chavista ancora solida Il Venezuela bolivariano non arretra Il boicottaggio elettorale di gran parte dell’opposizione non ha pagato Il Venezuela bolivariano resiste: è questo il dato principale che emerge a seguito delle presidenziali del 20 maggio. Si tratta di una notizia incoraggiante, in una congiuntura politica che resta comunque molto difficile per ciò che resta dell’Alba e dell’integrazionismo latinoamericano.Certo, l’alta astensione (al 54%) dovrebbe far riflettere il Psuv (Partido Socialista Unido de Venezuela) e più in generale il chavismo, per quanto in un contesto caratterizzato da un vero e proprio assedio mediatico, politico ed economico, ma la strategia di gran parte dell’opposizione, che da tempo aveva dichiarato il boicottaggio del voto, non ha pagato. Anche il tentativo di Henri Falcón (ex governatore dello stato di Lara), che ha cercato di attrarre l’elettorato presentandosi come chavista dissidente, ma con un programma apertamente liberista, non si è rivelato particolarmente utile alla sua causa.

Come sempre, in occasione di ogni appuntamento elettorale venezuelano, si sono già alzate le accuse di brogli, ma anche i tg Rai, per quanto univoci nel dichiarare la loro avversione a Maduro, non hanno potuto fare a meno, nei loro servizi, di prendere atto della fiducia nel presidente bolivariano dichiarata da gran parte dei venezuelani per le strade di Caracas e in fila ai seggi.

L’offensiva delle destre latinoamericane e dell’Unione europea

La crisi del Venezuela è innegabile, ma come ha evidenziato il gesuita venezuelano Numa Molina in un’intervista rilasciata alla giornalista Geraldina Colotti pochi giorni prima del voto e pubblicata dal sito web L’Antidiplomatico, al paese “sono stati bloccati 7 milioni di dollari che servivano per pagare medicine ai 15.000 pazienti con dialisi. Chi permette questo è responsabile di genocidio. Nel diritto internazionale questo si chiama crimine di lesa umanità”. Questo episodio, che rappresenta bene la guerra scatenata dagli Stati uniti e non solo contro Caracas, non ha scalfito la volontà dei venezuelani di recarsi alle urne e, in pace, scegliere ancora una volta Maduro, rifiutando così quel neoliberismo e quelle provocazioni provenienti da Washington e da paesi del continente latinoamericano una volta alleati.

Senza il dialogo tra la maggioranza e un’opposizione rappresentata da molteplici facce, il paese rischia di sprofondare nel baratro, sostengono in molti, indipendentemente dall’affermazione di Maduro che in tanti si auguravano di veder delegittimato, seppur vincitore, dopo le presidenziali. A non volere la pace, però, sembra essere proprio quell’opposizione così ambigua da chiedere a giorni alterni le presidenziali anticipate per poi boicottarle (non appena ha capito di andare incontro ad una sicura sconfitta), e al tempo stesso fortemente diffidente verso il dialogo convocato da Maduro sotto l’egida di Unasur e con la benedizione di ex presidenti come il panamense Martín Torrijos, Leonel Fernández (Repubblica dominicana) e lo spagnolo Zapatero. Del resto, sono stati anche alcuni sfidanti di Maduro, a partire dall’imprenditore e pastore evangelico Javier Bertucci e dallo stesso Henri Falcón, a chiedere la fine delle sanzioni internazionali contro il paese. Bertucci ha anche accusato la ormai quasi disciolta Mud (Mesa de la Unidad Democrática) di aver scelto irresponsabilmente il boicottaggio elettorale.

Eppure, gran parte di quell’opposizione che preferisce abdicare alla sovranità territoriale del proprio paese, invoca l’intervento militare esterno e chiede il sostegno ad alcuni dei principali responsabili della crisi umanitaria (a partire dagli Stati uniti), continua ad essere un interlocutore credibile anche di fronte a stati che a loro volta non avrebbero alcuna autorità morale per dire la loro nel rompicapo venezuelano, dal Messico dove giornalisti e lottatori sociali sono uccisi quasi quotidianamente nella più totale indifferenza alla Colombia del presidente uscente Santos, che passerà alla storia come il Premio Nobel per la Pace sotto al quale si stanno ripetendo le condizioni che portarono allo sterminio dei militanti di Unión Patriótica alla metà degli anni Ottanta, per tacere sulle violazioni dei diritti umani e della persecuzione contro gli attivisti dei movimenti sociali in Brasile e in Argentina. Anche l’Unione europea, e in particolare la Spagna, hanno deciso di non riconoscere a prescindere l’esito delle presidenziali, sebbene il voto elettronico, adottato da anni in Venezuela, non sia mai stato messo sotto accusa dagli osservatori internazionali.

Le difficoltà del processo bolivariano

Con il 67% dei voti conquistato rispetto al 19% di Falcón e al 10% di Bertucci, Maduro ha comunque ottenuto circa tre milioni di voti in meno rispetto al 2013, quando salì per la prima volta a Miraflores. Come ha evidenziato Pablo Siris Seade in un articolo pubblicato su Rebelión, il Psuv, che all’epoca di Hugo Chávez era un partito in grado di guidare il paese sotto l’aspetto sociale, economico e politico oggi ha finito per trasformarsi in una mera macchina elettorale, ma soprattutto è divenuto una sorta di terra di nessuno dove si confrontano numerose bande e schieramenti rivali che finiscono per far passare in secondo piano gli ideali del chavismo.La corruzione, il proliferare degli speculatori e dei bachaqueros (coloro che sono dediti al contrabbando), verso i quali il governo ha agito in maniera blanda, insieme ai problemi cronici e irrisolti nell’ambito della sanità, del trasporto pubblico e della sicurezza non depongono a favore di un partito che, agli occhi di molti, rischia di essere visto, almeno nei suoi vertici, come una sorta di casta. Anche i passi indietro del governo a proposito del diritto alla terra e della tutela delle risorse naturali hanno influito sulla diminuzione della partecipazione elettorale.

Sono questi i motivi che hanno favorito un alto tasso di astensione in un paese dove comunque nell’ottobre 2017, in occasione delle elezioni dei governatori dei 23 stati del Venezuela il chavismo aveva vinto in 20 di questi. Se il Psuv tornerà ad essere un vero partito di massa, probabilmente torneranno anche quegli alti livelli di partecipazione politica in occasione delle competizioni elettorali che fin qui hanno contraddistinto il Venezuela, fino a raggiungere percentuali di votanti ben superiori a quelle di paesi occidentali che si fregiano di essere democratici. Inoltre, va ricordato, come ha fatto l’argentino Atilio Boron, che il presidente cileno Piñera è stato eletto al ballottaggio con poco più del 26% dei voti, il presidente colombiano uscente Santos con il 23,7% e l’argentino Macri con il 26,8%, quindi tutti hanno preso meno del 31,7% conquistato da Maduro. Al tempo stesso, la bassa affluenza alle urne ha rappresentato un messaggio chiaro per un governo che pure può contare su una base sociale solida e, a questo proposito, anche sui quotidiani e sui siti web di controinformazione sono molte le analisi assai differenti tra loro.

Il ruolo del latifondo mediatico

Durante e dopo le elezioni Come ampiamente previsto, la grande stampa anti-Maduro ha cercato di giocare tutte le sue carte pur di contribuire, se non alla salida del presidente, almeno ad una campagna di delegittimazione. Quasi tutti hanno parlato di elezioni farsa, eppure la giornata elettorale è trascorsa tranquillamente e non è stata registrata alcuna irregolarità, come invece accaduto in occasione delle votazioni per scegliere il presidente in Honduras e Paraguay.

Un episodio è particolarmente significativo per spiegare quanto l’informazione sia manipolata quando si parla del Venezuela. A pochi giorni dal voto, nel carcere venezuelano El Helicoide si è verificata una ribellione condotta da detenuti comuni a cui, in un secondo momento, si sono uniti i cosiddetti “prigionieri politici”. In breve, la responsabilità di quanto accaduto è stata attribuita al governo bolivariano, che invece nel corso degli anni si è semplicemente limitato a mettere in carcere i responsabili delle guarimbas e delle attività anti-bolivariane condotte da vere e proprie bande paramilitari.

I “prigionieri politici” avrebbero assunto in un secondo tempo la guida della rivolta, ma il fatto paradossale è che all’interno questi ultimi hanno avuto la possibilità di parlare senza alcun problema con giornalisti della Cnn e di altre tv, tirando inoltre in ballo il cittadino statunitense Joshua Holt, agente Usa giunto sotto copertura in Venezuela a metà del 2016 e arrestato dalle autorità venezuelane mentre stava gettando le basi per la nascita delle Bcp, le bandas criminales paramilitarizadas. Se i detenuti hanno la possibilità di parlare liberamente con i giornalisti risulta quanto meno paradossale parlare di dittatura in Venezuela, come peraltro ha fatto anche l’inviato di Repubblica, che ha coperto le elezioni presidenziali scrivendo da Rio de Janeiro, secondo quanto scritto sull’edizione on line.

Le elezioni del 20 maggio hanno segnato un piccolo punto a vantaggio dell’Alba, ma la sovranità del Venezuela dovrà necessariamente continuare ad essere difesa, mentre già incombono altre presidenziali critiche in Colombia (27 maggio) e Messico (1° luglio).

(*) articolo tratto da Peacelink – 23 maggio

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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