Il virus che poteva uccidere il Sessantotto

di Ilya Kuriakhin

Parigi, 1968

 

“Se il Sessantotto fosse avvenuto nel 2020 non ci sarebbe stato”. Questa frase apparentemente incomprensibile è un tentativo di spiegazione ucronica degli avvenimenti che stiamo vivendo. L’ucronia non è la storia come si è sviluppata nella realtà e come la conosciamo, ma è una storia alterata, grazie a una variazione nella catena causa-effetto: è il racconto dei mondi possibili, perché evidenzia che nella storia non c’è un’unica possibilità.

Parigi, 1968.

Nel 1968 il mondo fu colpito da una pandemia che, a tutt’oggi, ha fatto più morti del covid-19. Durò per circa due anni provocando (secondo le stime dell’epoca, certamente meno precise di quelle odierne) oltre 100.000 morti negli Stati Uniti, oltre 20.000 in Italia. Complessivamente, nel mondo, secondo il sito web dell’Encycopaedia Britannica “si stima che la pandemia influenzale del 1968 abbia portato tra un milione e quattro milioni di morti” (articolo di Kara Rogers: last updated: Mar 25, 2020). Alla data attuale, i morti di coronavirus, per l’osservatorio della Johns Hopkins University, in tutto il mondo sono 240.000, negli Usa circa 60.000, mentre al primo posto per vittime (quasi 30.000) c’è il caso straordinario e non ancora chiarito dell’Italia.

L’influenza di Hong Kong, come venne chiamata (poi definita “spaziale” dato che erano gli anni delle missioni lunari), iniziò nel 1968 e si spense due anni dopo. Era il periodo delle grandi manifestazioni di protesta, in varie parti del mondo, che mettevano a stretto contatto milioni di persone, senza alcuna “distanza sociale”, come si direbbe oggi. In Cina, dove anche in quel caso si avviò il virus, si era al picco della Rivouzione culturale, con le “guardie rosse” di Mao impegnate in continue e oceaniche manifestazioni di piazza. In occidente, dagli Usa all’Europa, si moltiplicavano i nutriti cortei contro la guerra nel Vietnam e dei movimenti studenteschi (e poi anche operai, nel 1969). Assemblee affollatissime, in luoghi chiusi, erano all’ordine del giorno. Se nel 1968 fosse scattato lo stesso allarme di oggi di fronte alla pandemia, con il lock-down quasi globale, nessuna di quelle manifestazioni e di quelle assemblee sarebbe stata possibile. E il Sessantotto non ci sarebbe mai stato, con soddisfazione di chi, ad esempio, da decenni addebita al Sessantotto mille mali italiani.

Il gioco dell’ucronia ci potrebbe spingere a immaginare il mondo di oggi senza il Sessantotto e senza i movimenti di quel biennio pandemico: niente Statuto dei lavoratori, niente conquiste del femminismo, le università dominate esclusivamente dalla vecchia cultura accademica, i manicomi ancora aperti, eccetera. E, continuando con i “se”, forse gli Usa avrebbero vinto la guerra del Vietnam, la Primavera di Praga non ci sarebbe mai stata (o avrebbe trionfato) e gli equilibri internazionali sarebbero cambiati radicalmente. Oppure niente di tutto questo.

Il mondo, comunque, non si fermò per la pandemia del 1968 e il Sessantotto ci fu. I governi presero le loro blande misure di sicurezza (in molte parti della Cina si chiusero le scuole, le fabbriche e si girava con la mascherina, in occidente nemmeno questo) e dopo milioni di vittime il virus divenne solo un ricordo. Anzi, nemmeno un ricordo: quante sono le persone già nate nel 1968 che rammentano con terrore i mesi di quell’influenza letale? Molti non se li ricordano affatto, pochissimi ricordano di aver preso il virus e di essersela vista brutta, nient’altro. Il mondo in cinquant’anni è cambiato molto. Continueremo da questo blog a riflettere sulla pandemia del 1968. E sul mondo del 2020.

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4 commenti

  • Giorgio Chelidonio

    Riflessione davvero intrigante, specie per “casi della vita” come il mio: nel 1968-1969 non mi accorsi neppure dell’onda lunga del Maggio francese (nè di quella del 1964 di Berkeley) perché ero ostaggio del mio nuovo impiego bancario che mi obbligava a fare spesso “straordinari non pagati” (lo Statuto dei Lavoratori sarebbe “entrato in banca” con un certo ritardo), ma neppure della “spaziale”. Per qualche connessione socio-percettiva non ricordo di essermi neppure accorto dell’influenza “di Hong Kong”.
    “The beat goes on” funzionò da antidoto? Mah….

  • Gian Marco Martignoni

    Concordo con Giorgio sull’intrigante a proposito di questa riflessione sul virus influenzale A2 Hong Kong. Nella mostra sul cinquantenario 1969-70 e 2019-2020 ,che grazie al direttore dell’Archivio di Stato di Varese – il dottor Claudio Critelli – come Cgil provinciale abbiamo promosso l’anno scorso a Varese e quest’anno a Busto Arsizio , spicca un foglio informativo dell’Inam, che abbiamo scelto sul piano dell’analogia storica, perchè evidenziava perfettamente la notizia di questo virus ” sessantottino ” derivante da un ceppo A del 1947 e successivamente riapparso in un altra forma nel 1957.Inoltre, a proposito del caso straordinario dell’Italia sul piano della mortalità, bisognerà tornare l’anno prossimo con i dati Istat alla mano, riflettendo sul fatto che più della metà delle morti sono avvenute nella ricca Lombardia.

  • Andrea ET Bernagozzi

    Segnalo per info questo articolo pubblicato pochi giorni fa:

    Mark Honigsbaum, “Revisiting the 1957 and 1968 influenza pandemics”, The Lancet, May 25, 2020

    https://doi.org/10.1016/S0140-6736(20)31201-0

  • Andrea ET Bernagozzi

    Da appassionato di fantascienza, trovo l’aspetto ucronico descritto in questo articolo davvero affascinante. Ringrazio per averlo proposto. Aggiungo alcune considerazioni spicciole sul confronto tra la pandemia del 1968 e quella attuale, da non esperto in materia, quindi da prendere davvero con le pinze: qualsiasi commento chiarificatore al riguardo è gradito.

    Con l’attuale pandemia abbiamo a che fare con un “novel coronavirus”, dove l’accento fin dall’inizio è stato messo dalle autorità sanitarie sulla novità, cioè sul fatto che sappiamo poco o nulla della natura del virus e della patologia che provoca; invece mi pare di capire che quello del 1968 fosse una variazione sul tema di un ceppo già noto, ma potrei sbagliare. Le cifre citate sulle morti credo siano quelle complessive su un periodo di circa due anni, mentre adesso abbiamo già raggiunto cifre paragonabili su un periodo di cinque mesi; ribadendo che non sono esperto, questo sembra suggerire che si tratti di un germe più pericoloso. Peraltro che oggi si compiano scelte differenti da allora è comprensibile, proprio perché le vittime furono comunque così tante: si dovrebbe tentare di imparare delle lezioni dal passato. Le politiche sanitarie dell’epoca erano assai diverse e i reparti di terapia intensiva praticamente inesistenti, leggo nel’articolo che ho condiviso sopra; oggi invece li abbiamo, insieme ad altri strumenti sviluppati anche in risposta agli eventi passati, e uno degli obiettivi delle misure adottate è impedirne il sovraccarico per preservarne l’operatività. Perché poi così non è stato, in certi casi drammatici, ce lo spiegheranno dati, analisi e indagini, scientifiche e non.

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