Il vissuto personale come fonte di conoscenza

A partire da un ricordo di Pier Vittorio Tondelli

di Gianluca Ricciato

Oggi (16 dicembre) sono 25 anni che non c’è più Pier Vittorio Tondelli. Voglio ricordarlo con un piccolo pezzo che fece parte di una mia lunga ricerca e poi diventò la mia tesi di laurea. Giusto per restituire un po’ delle cose di cui sono debitore, in primo luogo perché mi hanno insegnato ad essere libero…o almeno ci hanno provato. Gianluca

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Ciò che risulta discriminante, negli esempi di ingiustizie riportati in Maglia o uncinetto, è l’aver vissuto, sentito e pensato in prima persona la realtà di queste ingiustizie per cui si (altri) reclamano diritti.

I limiti principali di questa mia analisi, in quanto maschio, su questi testi fatti da donne e soprattutto nella misura in cui parlano dell’essere-donna, sono insuperabili: non c’è interpretazione della donna da parte di un uomo che possa restituire l’essere donna, il vissuto-sentito-pensato femminile reale e simbolico. E viceversa. In più c’è la difficoltà di superare il misto di attrazione, repulsione, diffidenza, fascino nei confronti del pensiero e della vita femminili, con cui di solito cresciamo e a cui ci abituiamo nei discorsi tra maschi, forse inconsapevolmente. Non mi sento totalmente fuori da questa abitudine, ma almeno sto tentando di venirci a capo. La possibilità è l’entrata in relazione e l’accettazione di un’autorità mediatrice che, in quanto donna, è diversa dalle autorità principali che mi si presentano di solito. Ancor più difficile affrontare questi discorsi per il fatto di essere maschio in una società patriarcale (o post patriarcale), e quindi essere inserito in una catena simbolica maschile, delle cui forme di potere potrei essere vittima o carnefice, soggetto in senso attivo o passivo.

E’ chiaro che c’è quindi, in una certa misura per me da chiarire, il rifiuto di una parte di me stesso e di una certa generazione simbolica, il rifiuto di un’egemonia patriarcale. Ma c’è anche, in un certo senso, uno “stare all’interno” inevitabile per storia, cultura o natura, che pone delle nuove problematiche, che io credo entrino direttamente in relazione coi problemi di potere e ordine simbolico che hanno posto in Itali i movimenti femministi e la politica del simbolico a partire dal ’66, data di nascita dei primi gruppi (Demau e Rivolta Femminile). Per me soprattutto entrano in relazione con questo, o forse ne sono matrice, le analisi di Luisa Muraro sull’incapacità di esprimersi, sul mutismo e sulla ripetizione a cui sono destinate le creature “deboli”, perché questa difficoltà l’ho incontrata e riconosciuta in tante persone con cui sono cresciuto e anche in me stesso. E anche le descrizioni di quelli che lei chiama corpi sociali selvaggi, che irrompono violentemente nelle maglie della normalità, della vita sociale o privata, dopo periodi lunghi di silenzi e di incapacità di esprimersi.

Eppure, l’importanza di valorizzare le esperienze intime e i tentativi di lasciar parlare un non detto represso e rimosso, per me non iniziano con la conoscenza della politica delle donne. Il rifiuto delle forme in cui si simbolizzavano il potere maschile, la cultura fallocentrica, le norme implicite sui rapporti uomo-donna, mi è stato favorito da un certo tipo di letteratura e forse anche di approccio alla lettura, in cui si poneva al centro dell’attenzione il circolo vita-scrittura-vita in cui essere e senso dell’essere coincidevano, e i romanzi si proponevano di dar voce ad una parte del corpo sociale e dei corpi reali non prevista o poco codificabile. Per le sue forme americane, cioè i romanzi di alcuni giovani autori degli anni ‘80 che si ispiravano soprattutto a John Fante e Raymod Carver, la critica giornalistica ha inventato l’etichetta minimalismo (rifiutata da tutti gli autori in questione) per cercare di descrivere o circoscrivere il venire allo scoperto di cose (quotidiane) proibite come la sessualità preadolescenziale, sfrenata e divoratrice di emozioni (Ellis), o in modo molto più intimo la normale e assurda quotidianità omosessuale delle grandi metropoli (Leavitt); oppure, soprattutto in Mc Inerney, l’intreccio quotidiano vorticoso tra la vita lavorativa alienante e gli sfoghi post-lavorativi, altrettanto alienanti ma meno razionali – droghe ed eccessi di vari tipi. In generale comunque, la cultura underground americana, in tutto il ‘900, ha pian piano introdotto questi “non detti” sotto tante forme espressive e con diversi effetti – uno dei quali è quello di cui si diceva nel secondo capitolo, parlando di Lakoff/Johnson e della coerenza metaforica, cioè l’integrazione e la neutralizzazione.[1] Per me tuttavia, il problema di “partire da sé” in modo diverso dall’identità che mi si stava imponendo e che in tanti periodi vivevo con molta pena (come la maggioranza degli e delle adolescenti mie coetanee, credo) fu svelato tra gli altri soprattutto dalla letteratura di Pier Vittorio Tondelli.

Sicuramente in questo fatto sono coinvolti due fattori: la difficoltà di essere in troppe occasioni fruitore passivo di sapere, nella scuola prima e nell’università di massa poi (per responsabilità da cui io stesso non sono affrancato); la difficoltà di stabilire relazioni profonde nei contesti sociali in cui sono cresciuto – quello meridionale e quello settentrionale, con affinità e divergenze – che ritengo ancora fortemente patriarcali e condizionati da quello che Muraro chiama nichilismo della finzione[2] – e io mi sono abituato a chiamare “doppia vita”, arte della simulazione nella società, incapacità di parlare di sé soprattutto tra maschi e conseguente alienazione nei “discorsi da bar” tra i maschi e nel mutismo tra le donne. Mentre leggevo le descrizioni che Maglia o uncinetto dà dei corpi relegati al mutismo o alla ripetizione, attenagliati tra non detto e già detto, mi si presentificava verbalmente qualcosa di anticamente conosciuto:

I giovani si trovarono schiacciati tra lo yuppismo da un lato, la cinica assunzione delle regole di mercato contro qualunque forma di moralità di cui i soggetti erano portatori, e le armi e le droga dall’altro, cioè l’autodistruzione come unica possibile espressione del rifiuto.[3]

Questa constatazione della divisione tra corpi omologati/ordinati e selvaggi, riguarda gli anni ’80 e la letteratura di Tondelli. A farla è un altro scrittore della sua generazione, Enrico Palandri, nella raccolta di scritti critici dedicati a Tondelli dopo la sua morte. “Alle piramidi del potere”, continua Palandri, “si opponeva non un’altra piramide ma un essere senza potere, fuori dai meccanismi della promozione sociale”[4]. Di fronte all’incapacità del potere di ascoltare o rispettare in qualche modo l’esistenza giovanile, quello che si propone non è un’alternativa di potere, nemmeno una critica o una parola contro il potere, né il sogno mitico di un futuro senza potere: vi si oppone semplicemente un essere senza potere, cioè il proprio corpo e tutto ciò che esso riesce a significare, poiché è l’unica cosa che si ha e che si è. La giovinezza è diventata un ideale e un obbligo, è stata idealizzata sotto forma di muscoli o jogging esibiti da dittatori o capi di democrazie, da cui quell’effetto di incatenamento allo stereotipo della giovinezza che ne svuota il senso vero, quello della vita dei e delle giovani, rendendo di fatto la società incapace a dare loro voce, ad offrire mediazioni che li aiutino ad essere liberi, nonostante e a causa dei continui tentativi di rappresentarla (ma gli interpreti, sappiamo da Jakobson, soffrono di qualcosa di simile al disturbo della contiguità: la rarefazione dell’esperienza). “E’ proprio da quei territori spuri e marginali frequentati da Tondelli, da quegli uomini e quelle donne per cui la difficoltà di servire un padrone (anche quando travestito da idea) e il senso della dignità e dell’autogiustificazione di quel che si fa quando lo si fa con impegno hanno prevalso sulle scorciatoie offerte dai partiti”[5]: per questo motivo le ragioni della letteratura hanno prevalso su quelle dell’ideologia, come ebbe più volte a sottolineare Tondelli riguardo alla sua epoca. Simili atteggiamenti furono adottati dalla politica delle donne, che negli anni ’70 si presentava anche come “politica del desiderio”, e hanno percorso nei decenni le maglie del nostro tessuto sociale. Ne troviamo una sintesi esplicativa nel numero del gennaio ’96 della rivista Sottosopra, interna alla Libreria delle donne di Milano:

la politica non è riducibile alla ‘lotta legittima per la conquista del potere’ perché, se fosse solo questo, i politici si ridurrebbero a giocare agli indiani fra loro. E’ politica anche il volontariato, l’associazionismo, la rete di solidarietà tra vicine di casa, le librerie che fanno incontrare le persone e le idee, l’editoria indipendente…Abbiamo nominato alcune realtà, fra quelle che un nome ce l’hanno, non per l’elenco, ma per rendere l’idea che la pratica delle relazioni e della contrattazione che sottende queste realtà, è politica. A questa pratica, svolta capillarmente da donne e uomini, si deve se il cosiddetto corpo sociale non si sfascia[6]

Il mito patriarcale dell’universalità del pensiero e del linguaggio, sostengono le autrici del testo, finisce per credere che l’esigenza delle donne – la loro differenza naturale – sia quella di occupare gli stessi posti da cui tanti uomini stanno tentando di evadere. E’ un paradosso, anche perché questi posti, materialmente edificati nell’opposizione logica tra natura e cultura, sono per lo più “non luoghi” (per riprendere un termine nato dell’urbanistica postmoderna): luoghi di incontro forzato nel tempo libero, periferie delle nostre città, caserme, istituzioni asettiche, centri di potere… Il noi delle società patriarcali “avanzate” spesso è fittizio, è un insieme di individualità che non sanno comunicare, ma che si ritrovano sotto uno stesso totem sociale che dà loro protezione: gruppo di amici, chiesa, partito, squadra, campanile, bar, setta, etc. Questa tendenza rivela però un bisogno di aggregazione non corrisposto dalla società, o corrisposto all’interno di schemi precostituiti, dove difficilmente si concede la reale relazione tra corpi individuali e sociali, più spesso li si antepone in modi che finiscono per divenire distruttivi (si prenda come esempio l’incitamento mediatico attuale alle divisioni etniche e religiose per coprire interessi di ben altra natura).

Il movimento delle donne […] non si è mai posto come un grande ‘noi’: il ‘noi’ tipico del femminismo è stato quello del gruppo. Ma negli anni Ottanta alcune hanno avviato la critica del ‘noi’ gruppale ed è stato grazie a questa critica che la relazione, già al primo posto nel femminismo come pratica di relazione fra donne, ha trovato quella radicalità che dicevamo all’inizio. La critica prese avvio dalla scoperta della disparità all’interno del gruppo. Non abbiamo scoperto che non siamo tutte (tutti) uguali, questo è risaputo (sebbene non si dica). Abbiamo scoperto che nell’agire effettivo, quello che muove le cose è il più e il meno, non il pari. E’ lo squilibrio che mette in movimento il desiderio. Fu la scoperta di quello che poi abbiamo chiamato materialismo simbolico”[7]

Squilibrio, disparità, differenza, relazione tra diverse/i, mediazione con un’autorità non gerarchica costituiscono l’impossibilità di un’eguaglianza fittizia, così come la pretendono lo stato di diritto e le analisi superficiali della condizione femminile: il materialismo simbolico, cioè la capacità di mettere in atto e dare parola a tali disparità, è la pratica liberatoria che si oppone al materialismo economico (di destra e di sinistra).

Appare in questa analisi come nelle precedenti sulla letteratura giovanile degli anni ’80, il bisogno di un’espressione, di un linguaggio, di valori simbolici che non contribuiscano a sottomettere ciò che si è, la ricerca della verità e dell’autentico senso dell’essere, la parola dei sensi e quella dello spirito. E’ un rifiuto affine a quello sperimentato in filosofia da molte e molti, compresa Muraro che scrive spesso di non voler costruire anticipatamente l’oggetto del suo discorso, ma di cercare una risonanza tra linguaggio ed esperienza; ma anche al concetto di libro-esperienza in Foucault, dove il libro si intende semplicemente come un’esperienza reale la cui verità consiste nella sua stessa esistenza, e non come un oggetto portatore di una verità esterna da sè, una verità che aspetta solo il giudizio della verosimiglianza, della credibilità, delle “regole di una ‘polizia discorsiva’ che si deve riattivare in ciascuno dei suoi discorsi”.[8] Queste idee, figlie di Vico e di Nietzsche, ma anche della cultura novecentesca che si è opposta ai linguaggi settoriali e di quella che ha scoperto l’inconscio, trovano risonanza anche in una delle teoriche principali del pensiero della differenza sessuale, la francese Luce Irigaray:

Un approccio decisivo alla storia della cultura si segna tuttavia nel testo o nella formula – il grafismo di un pensiero o di una equazione non si separano dal loro enunciato. Ogni creazione confonde l’opposizione filosofia, scienza / letteratura. Essa è tanto scrittura quanto prodotto di un praticabile di obiettività, di verità, di pensiero. Entrambe le cose. E’ proprio dei commentatori, dei metalinguisti, dissociare, differenziare, credere che questo modo di procedere sia possibile… Ma per chi crea, questa opposizione ha solo un senso fittizio, e paralizzante.[9]

E’ l’affermazione, come dice Irigaray subito dopo, della necessaria posta in gioco della scrittura come tale in opposizione ad una concezione di una scrittura (e di un linguaggio) separata dal mondo.

Tornando a Tondelli, nella raccolta di saggi a lui dedicata si trova un’analisi della sua letteratura che evidenzia la ricerca di affrancamento dalle interpretazioni seconde che accompagnano la sua letteratura:“i ‘ragazzi di vita’ – destinati ahimè a diventare nel giro di pochi lustri ‘ragazzi di scena’ – s’erano stufati di essere raccontati, e cominciavano a provvedervi in proprio”[10]. Non è priva di problemi quest’analisi, e il critico lo riconosce subito dopo, sia per il riferimento che lo oppone a Pasolini (a cui Tondelli ha dedicato molta attenzione[11]), sia per quanto in realtà Tondelli faccia parte del mondo che descrive e per quanto invece la sua letteratura sembri trarsene fuori. La sua scrittura infatti, pur adoperando molte forme retoriche, non è mimesi né descrizione verosimile, è essa stessa realtà che entra ed esce continuamente dal gioco della vita vissuta. Mettendo in discussione le categorie letterarie per il fatto stesso di presentarsi come romanzo o racconto, il testo di Tondelli mostra, restando all’interno della letteratura, quanto la scrittura stessa sia sempre qualcosa di più e qualcosa di meno della realtà, quanto cioè in essa le mancanze e gli errori siano essi stessi modi di una simbolizzazione non costretta dalle regole linguistiche:“non è possibile”, dice l’autore stesso,“voler imbrigliare la scrittura, la letteratura, l’idea anche della vita di un autore, all’interno di un cammino prestabilito. Ognuno cresce, parte da un sociale e poi arriva a se stesso. E questa dovrebbe essere una colpa?”[12]

Al di là della mimesi, di una scrittura che si vuole fedele interprete del parlato, imitatrice, la predominanza del tema del corpo rivela invece che non si tratta di riproduzione: il corpo è l’espressione simbolica dell’essere nel mondo, e del corpo fanno parte anche la parola e la scrittura. Questo sembra ovvio, ma non lo è perché troppo spesso non si è riconosciuta la portata di questo modo simbolico, metonimico secondo Maglia o Uncinetto, comunque poco selettivo della realtà e poco metaforico (i metalinguisti non riescono a vedere la sinergia tra scrittura, grafia, prodotto che è invece naturale per chi crea, sia “letteratura” che “scienza”, dice Irigaray nel passo citato). L’esperienza corporea rivissuta nella scrittura afferma la ricerca e il bisogno di spiritualità, e lo confermano i princìpi a cui Tondelli si ispira e che enuclea parlando del “mestiere” di scrittore:

1) La scrittura come espressione del proprio vissuto

2) la riscrittura come esercizio stilistico

3) la lettura quale base per l’arricchimento espressivo” [13]

Queste tre idee di fondo del progetto editoriale Giovani Blues, potrebbero apparire a qualche commentatore letterariamente tautologiche: potrebbero essere punti-chiave impliciti di ogni scrittore; non è così, e lo si capisce meglio però se le si inserisce nel contesto della vita di Tondelli e soprattutto dei suoi romanzi, cioè nell’ostinata ricerca di un legame esistenziale che alcune generazioni tra gli Ottanta e i Novanta hanno vissuto nei suoi libri, anche dopo la sua morte, come uno spazio di espressione di un senso collettivo, anche se non esplicitamente politico, sicuramente “non detto” (ne è espressione la raccolta Caro Pier. I lettori di Tondelli: ritratto di una generazione [14]). Questo apparentemente semplice rapporto intimo/individuale tra scrittore e lettore, Tondelli lo ha cercato spesso durante la sua vita, pur col timore dell’invadenza mediatica: occorre guardare sotto quest’ottica soprattutto la terza idea di fondo, quella sulla lettura, che si concretizzò nel percorso di letture che realizzava materialmente negli incontri che mettevano in relazione se stesso, i suoi lettori e le sue letture (che si possono in parte ritrovare nelle due raccolte di scritti vari Un Week-end postmoderno. Cronache dagli anni ’80 e L’abbandono [15]).

E tra gli artifici che Tondelli ha variamente usato, ci sono gli accostamenti metonimici, cioè le parole che prendono senso dalla posizione in cui si trovano nel testo, le alterazioni ironiche dei nomi e delle definizioni, gli elenchi, o meglio la “degenerazione in senso comico degli elenchi e delle enumerazioni” [16]: una nutrita schiera di queste forme si trova nel passo finale di Altri libertini, il monologo del giovane “cinematografaro” che, dopo essere stato scambiato per un autostoppista dal protagonista (mentre invece stava filmando le luci dell’autostrada per il suo primo film), gli spiega a modo suo il senso della sua ricerca di “movimenti della vita da registrare”. Ne riporto di seguito una parte:

senti amico mio bisogna gettarsi nelle strade senza tante scene o riflettori, bisogna cercare soltanto una frontiera e un limite da scavalcare, bisogna gettare le nostalgie e i retrò, anco riflussi e regressioni, via gli interni i teatri e gli stabilimenti. Si dovranno invece ricercare periferie, ghetti e marciapiedi, viali lampioni e cantinette, anco però sottoscale soffitte e sottotetti […] L’occhiocaldo mio s’innamorerà di tutti, dei freak dei beatnik e degli hippy, delle lesbiche e dei sadomaso, degli autonomi, dei cani sciolti, dei froci, delle superchecche e dei filosofi, dei pubblicitari ed eroinomani e poi marchette trojette ruffiani e spacciatori, precari assistenti e supplenti, suicidi anco ed eterosessuali, cantautori et beoni, imbriachi sballati scannati bucati e forati. E femministe, autocoscienti, nuova psichiatria, antipsichiatria, mito e astrologia, istintivi della morte e della conoscenza, psicoanalisi e semiotica, lacaniani junghiani e profondi. Eppoi tutti quanti gli addetti di Krishna, di Geova, del Guru, del Brahamino, dello Yogi. Indi ogni discendenza, bambini di Dio, figli di Dioniso Zagreo, nipotini di Marx, illegittimi di Nietzsche, pronipoti del marchese, figlioletti delle stelle, sorelline di Lilith luna nera e fratellini di prometeo incatenato […] tutti quanti i transessuali, i perversi, i differanti, i situazionali, gli edipici, i preedipici e i fissati…[17]

NOTE

[1] cfr. pagine 35-37 di questo testo. Per quanto riguarda i romanzi americani a cui mi riferisco, i più rappresentativi credo che siano: Bret Easton Ellis, Meno di zero, Einaudi, 1996 (New York 1985), David Leavitt, La lingua perduta delle gru, Mondadori, 1987 (New York 1986) e Jay McInerney, Le mille luci di New York, Bompiani, 1986 (New York 1984).

[2] L. Muraro, L’ordine…, cit., pp. 29-30. Muraro usa questa espressione (“nichilismo dell’esser-finzione”) per descrivere un atteggiamento mentale diffuso che nasconde “il senso autentico dell’essere”, cioè la ricerca del vero e della sua dicibilità, attraverso una continua finzione che sostituisce la verità con le esigenze della verosimiglianza e della credibilità: “questa credibilità la si ottiene andando a coincidenza con un già detto o un dicibile da parte di altri. Così la mente pensa un già pensato, cioè non pensa veramente perché pensare, che è attività allo stato puro, vuol dire pensare l’impensato, per definizione” (p. 30).

[3] E. Palandri, Altra Italia, in “Panta”, n. 9, 1992, p. 20.

[4] ivi, p. 20.

[5] ivi, p. 23.

[6] AA. VV., E’ accaduto non per caso, in “Sottosopra”, gennaio ’96, p. 7 (questo numero viene anche chiamato Sottosopra Rosso).

[7] ivi, p. 6.

[8] M. Foucault, op. cit., p. 23.

[9] Luce Irigaray, Parlare non è mai neutro, Editori Riuniti, 1991 (Parigi 1985), p. XV dell’Introduzione.

[10] Giuliano Gramigna, Dentro la scrittura, in “Panta”, cit., p. 28.

[11] si vedano soprattutto le pagine dedicate a Pasolini in P. V. Tondelli, Un week.end postmoderno. Cronache dagli anni ’80, Bompiani, 1990, p. 124 e pp. 506-507.

[12] F. Panzeri e G. Picone, Pier Vittorio Tondelli. Il mestiere di scrittore. Un libro intervista, Theoria, 1997, p.82.

[13] ivi, pp. 138-139.

[14] curata da Enos Rota e edita da Nuova Tempi Stretti, 1995.

[15] P. V. Tondelli, L’abbandono, Bompiani, 1993.

[16] Andrea Canobbio, Piccolo Abbecedario delle Occasioni (Per Arginare l’Oblìo), in “Panta”, cit., p. 38.

[17] Pier Vittorio Tondelli, Altri libertini, Feltrinelli, 1980, pp.189-190.

     RIPRESO da fiabeatroci.wordpress.com

 

Gianluca Ricciato

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