Impotenza

Impotenza
di Mauro Antonio Miglieruolo
***
Due metri di marciapiedi separano il portone di casa e la fermata dell’autobus. Due metri di nulla e d’infinito nello stesso tempo. Si frappongono irreparabilmente fra me e il cambiamento. Stanno lì a rimproverarmi con la loro immutabile prestanza e a predicarmi il fatto mio, annoiati porco! E dirmi che non esisto, che sono un effimero di precarietà e scarne speranze.
Inizio la giornata traboccante d’intrepidezza,

convinto dalla premeditazione positiva con cui riapro gli occhi che sarà un giorno di buona volontà, il primo da eroe, in assoluto. Mi lavo, vesto, indugio con me stesso il tempo sufficiente per riconoscermi e ammettermi per quel che sono, sissignore, proprio io, giusto nella mia giustezza, approvabile approvato, e scendo le scale di casa animato dalle migliori intenzioni. Non appena sul portone però mi arresto, travolto da un’ondata di impossibilità che mi involve nei timori pregressi, m’affoca. Tento di rimproverarmi, di considerare la pochezza dell’ostacolo, ma è inutile, sono poco anch’io, i piedi rifiutano di obbedire. Prigioniero di quell’immensità di spazio aperto inossidabile, osservo l’assurdo composto ad anfiteatro, le migliaia di spettatori che si affacciano ai balconi o spiano dietro le finestre cieche (ognuno attore spettatore nel gran teatro cittadino), il degradare dei piani diversi visivi, dalle terrazze ai tetti, alle auto, ai cofani, ai banchetti dei rivenditori, al marciapiedi, fino al boccascena deserto, il quale vorrebbe brutalmente espellermi all’aperto e mi risucchia (invece) nel panico, nella dissolutezza di una prudenza priva di limiti. Non voglio non voglio non voglio… Ma no, voglio voglio voglio… Due, forse tre passi si frappongono fra me e la soluzione della contesa. Rifiuto di compierli e resto sul portone perplesso e pormi domande sull’essere e il non essere, la potenza e l’impotenza, il buco nero della memoria, senza per nulla badare alle risposte. Rimproverandomi. Soffrissi di agarofobia capirei, potrei indulgere in qualche giustificazione, ma il nulla di quel vuoto di motivazioni, sospinto dalla perplessità, diviene il nulla dei miei pensieri. Il nulla per annullarmi, mettermi con le spalle al muro e potermi ergere a giudice severo di me stesso.
Vigliacco! Mi rimprovero. Essere devitalizzato, senza discernimento, Né spina dorsale!
Ma che vale prendersela? Che posso fare se sono vittima, come tanti, del timore irriverente del mare aperto, sebbene sappia non meriti lo si degradi con immagini di esclusivo pericolo? Se non ho rispetto che per le cose piccole e ben circoscritte? Come sarebbe la cameretta nella quale consumo le ore e esorcizzo i travagli che comporta vivere (ogni vivere!). Ben altre impotenze guidano e riducono il destino di tanti, posso agevolmente acconciarmi col mio modesto e complesso! Conosco chi non metterebbe piede su un aereo a pagarlo a peso d’oro. Chi non mangerebbe un fungo, sia pure coltivato, a costo della vita. Chi trema alla prospettiva di una seduta dal dentista e chi sviene alla sola vista di un ago ipodermico. Il mio nemico è differente, è il dilemma dato da quell’incertezza costante sul portone di casa, la barriera invisibile di un ostacolo del quale non so aggiudicarmi le ragioni e di cui ignoro l’essenza. Andare o restare è il vero autentico dei miei giorni, il mezzo con cui li riempio d’emozione e incertezze. Ai più questa antitesi può sembrare una inezia, e ininfluente, eccessivamente esigua la dimensione spaziale con cui la nutro; pur tuttavia nel mio intelletto il lungo indugio nella penombra dell’androne si traduce in un oscura vicenda senza fine, la peripezia interminabile, irta di incognite e pericoli, che fa di me quel che sono, una metafora corrosa dall’autoconsapevolezza e di questo rimuginare il carnefice al quale affido ogni sorta di vendette.
L’autobus arriva, spalanca sbuffando le porte, oppure lascia che scivolino silenziose, con solo uno schiocco finale per segnale; e resta vibrante di aspettative, speranzoso ch’io trovi la chiave per dare quel primo passo che aprirà la strada a tutti gli altri (c’è sempre un primo passo in ogni destino; un primo passo anche nei suoi stravolgimenti; un primo passo per ogni salvezza o perdizione…). Desideroso di me, della mia compagnia, dei guadagni esistenziali che s’anticipa col dolce delle fantasticherie. Possiamo fare molta strada insieme, è convinto. Diventare amici. Affidarci l’un l’altro, lasciare che le nostre reciproche vicende ne compongano una sola, un romanzo a due voci. IO e l’autobus. IO e il coraggio. IO e la danza delle ore. Tale è il motivo per cui se ne resta in attesa, suadente, per suggerire la necessità di favorire l’evoluzione delle circostanze, o piuttosto per esortarmi, coraggio, amico, muoviti, FAI QUALCOSA, non mi lasceranno attendere l’intero del giorno. Spiacerebbe a lui, all’autobus doversene ripartire incompiuto, senza di me, un ennesimo passeggero che lo giustifichi. Sarebbe obbligato a aprire gli occhi sul proprio carico di anni, un vecchio arnese da rottamare, di cui molti diffidano e nessuno vuole. Uguale a me, un vecchio arnese da rottamare, di cui tutti diffidano e nessuno vuole. Me ne sto lì, tormentato dal dubbio, tremando nel medesimo stile dell’autobus, non per impazienza, ma per eccesso di pazienza, una pazienza singolare, frutto d’una alternativa dilaniata dalla smania di lasciarsi risucchiare dentro fascinosi avvenimenti che pure paventa.
Che si tratti di un vero dilemma poi e non piuttosto d’una menzogna ripetuta per mezzo della quale mi guardo dall’irrequietezza che, nonostante gli anni, è tuttora viva in me, ho sufficiente buon senso per dubitarlo. Troppi rimorsi produce in me il tradimento dello stato d’animo mattutino affinché possa attraversare indenne le strettoie delle riflessioni. Troppe le incognite che riguardano l’ostacolo impalpabile che mi tiene recluso. Occorrerebbe anzitutto determinare la natura dello spazio che unisce, ho detto prima separa, sbagliando, fermata e portone. È per tale spazio che i due poli possono confrontarsi e opporsi e identificarsi reciprocamente. È per esso che posso prendere atto delle mie albe e dei miei tramonti. Il banale di un corroso, tumefatto impiancito, dimenticato da Dio e dagli uomini, quaggiù in quest’estrema periferia dell’anima, dove non giungono che gli echi di tutti gli affanni e le macchinazioni della civile convivenza, produce il sorprendente di un duplice effetto: accostare l’inaccostabile e svelare me a me stesso.
Tuttavia, benché cerchi di evitare di prendere di petto la questione, l’incognita di quei due impercorribili metri mi assilla con un continuo di interrogativi, il più importante dei quali attiene al come farsene un concetto. Che il mio sia uno spazio corto, eppure infinito, intransitabile, posso darlo per accertato. Non perché lo voglia, perché lo vuole la mera pervicacia del reale, la durezza pressoché infinita delle circostanze, sia di quelle avverse che di quelle favorevoli: l’elementare evidenza che non lo attraverso quello spazio, non mi ci avventuro, non azzardo… non tanto per prudenza nei confronti dei possibili pericoli, salire su un mezzo di trasporto e lasciarmi trascinare verso un chissà dove, forse fino un qualsiasi capolinea, per sparire nel sovraccarico di trappole, inconvenienti e convincimenti che alimenta e stabilisce il mondo. È l’intrinseca terribilità dell’impresa, consumare uno spazio che non mi appartiene, e non riesco a motivare, a fermarmi. Il mistero irrisolto di quella disponibilità apparente, quelle sfida silenziosa al mio corpo infiacchito dalla lunga permanenza nella prigione dei pensieri (luogo dove non esiste spazio, ma esiste bene il tempo per scontare le conseguenze che dimorano in essi) mi disgusta e mi respinge. Mi atterrisce. La fermata, i pochi palmi di pavimento invitano, osa, attenta, tuffati, hai tutta una vita da guadagnare, sembrano suggerire, insinuante, infide, affabilmente torve; le mille novità, le diecimila meraviglie, provai, sono tutte tue… Sordo e imperturbabile io non ascolto, incapace di sottrarmi al caldo abbraccio dell’avvedutezza. Diffidente.
Sospeso tra cielo e terra la sfera opaca di un lampione s’accende di luce propria. Mi rammenta lo scorrere inesorabile del tempo, la stanchezza crescente e la prossima metamorfosi del giorno. Un annuncio sommesso e micidiale. Mortifero. Non cadrò in quella trappola, in quella vertigine, nella conclusione inevitabile del buio, nelle lusinghe infide di uno spazio che nonostante cinquant’anni di interrogazioni tuttora non risponde.
Preferisco tornare su a ritrovarmi negli spazi certi ed espliciti della mia cameretta, rassicurato dalla profondità del suo perspicuo silenzio, i paletti alla porta, nessun arcano sul quale meditare, io contro me stesso, il conosciuto conoscibile contro di me… mi sdraio sul letto e placidamente rasserenato mi dedico ai pensieri, concentrato sulla vita che scorre, il sangue che scorre, la volontà che scorre… mi riconosco, mi accetto. Posso definirmi. Ritrovarmi in una dimensione. Essere quel che sono, un camminatore instancabili dei paesi incantati della fantasia, attraverso la quale consumo le distanze che filosoficamente e materialmente non mi è dato di percorrere.

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