In memoria di Somayeh

di Maria G. Di Rienzo

«Giustizia per l’Iran» è l’associazione pro diritti umani delle donne fondata dall’avvocata Shadi Sadr (nell’immagine) nel 2010.

Il mese prossimo (dicembre 2012) rilascerà il primo rapporto completo sulle violenze sessuali e le torture nelle carceri femminili iraniane, «Crimini e Impunità». Il rapporto è basato sulle testimonianze delle vittime, delle sopravvissute e delle testimoni. Una delle storie è quella di Somayeh Taghvaei.

Somayeh aveva nove anni quando l’arrestarono nel 1981. Era in casa e stava facendo i compiti quando le forze di sicurezza irruppero e inscenarono una sparatoria in cui un uomo appartenente alla stessa organizzazione dissidente dei suoi genitori venne ucciso. Per la piccola Somayeh era uno “zio” e vederlo cadere davanti ai suoi occhi la terrorizzò al punto che andò a incastrarsi fra il muro e il frigorifero continuando ad urlare senza riuscire a frenarsi. La bimba fu trasferita alla prigione di Evin e interrogata sui suoi genitori, Mehdi Taghvaei e Nahid Taheri, che erano fuggiti dal Paese. Questi interrogatori si sarebbero ripetuti per cinque anni, mentre Somayeh era costretta a testimoniare ogni violenza subita dalle altre donne nella sua cella. In prigione non le fu offerta alcuna possibilità di studiare: fu messa al lavoro nel laboratorio di sartoria.

Inizialmente stabiliva relazioni più strette con le donne che avevano figli o che avevano l’età di sua madre ma quando una di essa fu giustiziata Somayeh non mangiò per tre giorni e sembrò vicina lei stessa alla morte. Era una bimba assai minuta: di fronte alla grossa macchina per cucire quasi scompariva. Le compagne di cella nel tentativo di prevenire ulteriori danni psicologici alla piccola (Somayeh bagnò il letto di notte durante tutti i suoi cinque anni di detenzione) decisero all’unanimità che nessuna di loro si sarebbe legata a lei in modo particolare. Così dopo il lavoro, i pasti, la preghiera, gli scambi occasionali di parole, la bambina sedeva in silenzio in un angolo fissando il vuoto. Sembrava risvegliarsi alla vita solo quando qualcuno parlava di notizie provenienti dall’esterno e ascoltava tutto con molta attenzione, sperando di venire a sapere qualcosa di suo padre e sua madre.

Somayeh non era l’unico membro della sua famiglia a essere tenuta in ostaggio. Il suo vero zio, Hassan Taghvaei, fu pure tradotto in prigione nello stesso periodo. Potè vedere la nipote dopo che entrambi avevano passato due anni di detenzione illegale e ingiustificata: «Ero completamente confuso, non riuscivo a fare un passo avanti. Fu mia nipote ad abbracciarmi, ripetendo il mio nome. Avevo la gola chiusa, non riuscivo a parlare. Infine mi inginocchiai, la strinsi, aspirai il suo odore, la baciai. Ero fuori di me per quel che le stavano facendo. Per costringere i suoi genitori a consegnarsi tenevano in prigione una bambina».

Nel 1986, quando aveva 14 anni, Somayeh fu rilasciata e affidata alla custodia degli zii paterni. In una lettera del 16 aprile di quello stesso anno, scrive: «Caro padre, se non fosse accaduto quel che è accaduto io sarei in terza media. Per riguadagnare il tempo perduto sto studiando. Vorrei recuperare le classi che ho perso in questi tre mesi estivi, mentre la scuola è chiusa». Alcuni anni dopo, una donna si presentò a suo zio, chiedendo che Somayeh fosse data in moglie a suo figlio. L’uomo rifiutò, sulla base del fatto che i genitori della ragazza non erano presenti. Dopo qualche giorno, zio e nipote furono convocati alla prigione di Evin – all’Ufficio rivoluzionario per i procedimenti penali – e informati che se la proposta non veniva accettata Somayeh sarebbe tornata in galera. Così, a 18 anni, Somayeh Taghvaei fu data come premio a un uomo che aveva entrature in ambienti governativi e aveva combattuto nella guerra Iran-Iraq: il matrimonio forzato ebbe come risultato due figlie.

A Somayeh furono diagnosticati diversi tumori quando aveva passato da poco i vent’anni. I trattamenti medici ricevuti in Iran sembravano non produrre miglioramenti effettivi e così le fu infine permesso uscire dal Paese e ricongiungersi ai suoi genitori, a Londra. Un anno più tardi, il 15 maggio 1998, Somayeh perse la sua lotta contro il cancro.

P.S. Avete ragione, è una storia tristissima e non ha migliorato la vostra giornata. Ma c’è più di una ragione per raccontarla: 1) Somayeh merita di non essere dimenticata; 2) per contrastare efficacemente la violenza bisogna purtroppo guardarla in faccia; 3) un noto politicomico italiano con moglie iraniana impellicciata ritiene che chi si indigna per le clamorose violazioni dei diritti umani in Iran sia un ignorante – suo suocero gli ha detto che il “labiale” nei video è diverso dalla traduzione…

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