In Nagorno Karabakh è in corso un tentativo di pulizia etnica?

Un’intervista al giornalista Simone Zoppellaro (autore dei libri Armenia oggi e Il genocidio degli yazidi) sull’evolversi della guerra in Nagorno Karabakh.

a cura di Frontiere News

A ventisei anni dal temporaneo accordo di Biškek, la regione caucasica del Nagorno Karabakh è tornata nel caos. Lo scorso 27 settembre l’artiglieria azera ha effettuato degli attacchi missilistici e aerei diretti verso centri a maggioranza armena, tra cui la capitale Stepanakert. Da allora sono migliaia le vittime denunciate da entrambi gli schieramenti, di cui almeno un centinaio di civili, e ogni tentativo di attuare tregue naufraga poche ore dopo il cessate il fuoco.

Abitato da una maggioranza armena ma riconosciuto internazionalmente come parte dell’Azerbaijan, il territorio è conteso tra Baku ed Erevan. Dal primo conflitto del 1988, terminato nel 1994 con un cessate il fuoco privo di una concreta risoluzione della controversia, sono state diverse le recrudescenze degli scontri armati tra forze azere e armene (il cui apice si è raggiunto nella guerra dei quattro giorni in Nagorno Karabakh del 2014).

Gli interventi armati delle truppe azere possono configurarsi come atti di pulizia etnica? Quali scenari si stanno delineando nell’immediato futuro? Qual è la posizione dell’Unione europea? Quali strategie geopolitiche e interessi hanno Turchia e Russia? A queste e altre domande risponde il giornalista Simone Zoppellaro, con cui abbiamo analizzato la situazione. Autore dei libri Armenia oggi (2016) e Il genocidio degli yazidi (2017), Zoppellaro scrive per diversi media italiani, tra cui Frontiere News (qui i suoi articoli).


Quali sono le prospettive più verosimili nell’immediato?

Gli armeni hanno una posizione di debolezza evidente – in questo l’intervento turco è stato determinante a mutare gli equilibri. Una debolezza che si riflette in una perdita di posizioni, sia a Nord che al Sud del Karabakh, come ammesso anche dagli armeni. Ma anche e soprattutto nel fatto che la capitale Stepanakert e gli altri centri del Karabakh sono giorno e notte sotto i bombardamenti azeri, che hanno già provocato la fuga dei due terzi della popolazione, rifugiatasi in Armenia.

Se il conflitto dovesse continuare, difficile immaginare che gli armeni possano resistere e tenere la linea del fronte per molto tempo. La Russia, dati gli accordi militari con Yerevan, non è tenuta a intervenire fino a che non venga invaso il territorio armeno. E il Karabakh, da un punto di vista legale, non lo è. La teoria della guerra per procura fra Mosca e Ankara, a cui non ho mai creduto, trova assai poco terreno fertile in questa guerra. La realtà è assai più complessa. E la realtà è che l’Armenia, al momento, è sola a fronteggiare avversari assai più potenti.

Il rischio concreto è che si passi presto a un’invasione via terra. A una strage di dimensioni immani, nutrita da uno spirito di vendetta determinato dalla sconfitta azera degli anni Novanta e dal nazionalismo del regime, che vede negli armeni l’essenza stessa del male assoluto. Sono in tanti a fare finta di non vederlo, oggi.

Come giudichi l’approccio dell’Unione europea?

Qualcosa inizia a muoversi, anche perché è evidente ormai che l’intento di Erdogan e Aliyev è quello di cercare di ridimensionare, tutto a loro favore, il peso diplomatico dell’Europa e degli USA nella regione, facendo leva su una Russia che al momento, però, è in posizione attendista.

Ma quanto finora fatto è poco: sembra quasi che le democrazie, ancora una volta, non abbiamo né la volontà né gli strumenti per fronteggiare stati assai più spregiudicati, che si fanno beffe dell’immobilismo, delle contraddizioni interne e delle retoriche accomodanti e non incisive dei nostri governi e delle istituzioni europee. Segni assai incoraggianti anche per gli aspiranti dittatori di domani; che non mancano, anche qui da noi.

Si parla di genocidio, termine spesso abusato. Lemkin, nel coniare questo termine, si riferiva allo sterminio di gruppi razziali e nazionali, contro le popolazioni civili di determinati territori occupati al fine di distruggere particolari razze e classi di persone e gruppi nazionali, razziali o religiosi. Secondo te l’offensiva azera è inquadrabile in questa prospettiva?

Presto per dirlo, ma gli indizi non mancano, e non vanno sottovalutati. I genocidi vanno prevenuti, non commemorati quando ormai sono storia. Questa è la lezione più grande che ci ha lasciato Lemkin. Al momento, direi senza esitazioni che è in atto un tentativo di pulizia etnica. Se poi la linea del fronte da parte armena non reggesse, dobbiamo essere pronti al peggio. Erdogan stesso, che ha affermato pubblicamente di voler portare a termine la missione degli antenati ottomani rispetto alla questione armena, ha contribuito a fare della minaccia presente di genocidio un’arma. Che è anche un’arma psicologica, chiaramente, per seminare terrore fra gli armeni. Ma ve l’immaginate che succederebbe se la Merkel affermasse una cosa simile contro Israele?

Eppure, al regime di Ankara si abbona questo ed altro. Nel timore di fare il gioco delle destre e degli xenofobi, molti governi europei preferiscono nascondere la testa sotto la sabbia. Spianando la strada peraltro, come detto, ai negazionisti e agli estremisti che – in Italia, in Germania, e in tanti altri paesi – sognano un ritorno della dittatura in Europa.

Cosa vuole portarsi a casa da questa situazione la Turchia?

La Turchia rientra di prepotenza nel Caucaso, rafforza la sua componente nazionalista interna, che si nutre di un odio viscerale contro gli armeni. È ingenuo considerare la Turchia di oggi uno stato su sola base religiosa. La formula vincente di Erdogan è un mix tossico, ma molto ben calibrato, di religiosità popolare e nazionalismo. Ankara sogna di scalzare l’Europa e gli USA nel Caucaso, e di fare una bella spartizione con la Russia, con la quale ha già in corso una contrattazione sia sulla Siria che sulla Libia. Ma Putin, al momento, non sembra dargli corda.

E la Russia?

La Russia ha ben altri interessi che gli premono rispetto al Karabakh. A Putin interessa semmai l’Armenia, ed interessa che sia sempre più dipendente da Mosca. Che non ha mai digerito del tutto la rivoluzione di velluto del 2018. Un’anomalia nello spazio post-sovietico. Ora, la nuova Armenia di Pashinyan è costretta ad andare in ginocchio Putin di aver salva la vita. Per non parlare dei milioni di dollari in armamenti che la Russia esporta, con un doppio gioco evidentissimo, sia a Baku che a Yerevan. Cosa sarà mai un fazzoletto di terra come il Karabakh, privo di risorse peraltro, per Mosca? Poco o nulla, credo.

Amnesty International ha dichiarato il 5 ottobre di aver identificato “munizioni a grappolo M095 DPICM di fabbricazione israeliana che sembrano essere state sparate dalle forze azere”. Che idea ti sei fatto a tal proposito? Del resto anche l’Azerbaijan ha accusato l’Armenia di usare munizioni a grappolo.

Un’idea assai precisa, dato che sono armi che ho visto con i miei occhi nel 2016 in Karabakh. Non è la prima volta che vengono usate in questo contesto. Sono anni, appunto. L’ospedale di Stepanakert, mi raccontano due e colleghi e amici che l’hanno visitato nei giorni scorsi, Daniele Bellocchio e Roberto Travan, è pieno di feriti con frammenti di bombe a grappolo nel corpo e nel cervello.

Non sono però in grado di valutare se anche gli armeni le abbiano utilizzate nei loro attacchi contro le città azere. Amnesty stessa, se si legge il loro comunicato, ammette di non aver le prove per affermarlo, mentre afferma, al contempo, il loro utilizzo contro la popolazione del Karabakh.

Da Salvini a una certa cerchia ultra-cattolica, sembra che il conflitto in Nagorno Karabakh venga usato in funzione anti-islamica. Del resto, da gran parte del mondo politico e culturale c’è un assordante silenzio. Sei d’accordo?

Ai leghisti ricorderei che, da diversi anni, a capo della lobby pro-azera nel parlamento italiano ci sono membri del loro partito. Al Vaticano, che hanno ricevuto finanziamenti assai ingenti, ufficialmente per scopi culturali, dal regime di Baku. Non scherziamo. Non bastano un paio di selfie e una frasetta pronunciata all’Angelus per modificare la nostra politica estera; che, fra quelle europee, è fra le più asservite ad Ankara e a Baku.

Giusto per essere ecumenico, ricorderei il silenzio assordante della sinistra italiana in queste settimane. Un silenzio che parte dai media, passa per il mondo dell’associazionismo e del pacifismo e arriva dritto al governo. Per non parlare di Renzi, grande sostenitore del regime di Baku, di cui ha tessuto panegirici degni di un poeta medievale.

Tornando alla domanda, è in atto un tentativo goffo e improprio (soprattutto in Italia) di far passare questa guerra come un conflitto di religione. Basta andare a leggersi la lista dei prigionieri politici in Azerbaijan per rendersi conto come il gruppo più nutrito sia proprio quello di matrice religiosa. Parliamo piuttosto del gas e del petrolio che importiamo da Baku, uno dei nostri principali fornitori. Si toccasse quel punto, e questa guerra cadrebbe come un bel castello di carte.

Come raccontare in maniera equilibrata questo conflitto senza cadere nelle trappole del fanatismo o del tifo da stadio?

Per raccontare in modo equilibrato questa guerra, infine, basta conoscerla. Si deve uscire dalla logica feroce e ludica della geopolitica per guardare al dramma delle popolazioni civile coinvolte. Gli armeni che vivono da venti giorni stipati in rifugi aerei, nel Karabakh, o in fuga per l’impossibilità a resistere a questo inferno. Gli azeri, anch’essi colpiti in alcune città, e sottomessi da una dittatura feroce, quella della famiglia Aliyev, al potere quasi ininterrottamente dal 1969. Una dittatura che trae il suo primo sostentamento proprio da questo conflitto, che rappresenta la leva fondamentale con cui si soffoca ogni opposizione interna.

I contrapposti nazionalismi, sempre più accesi in questi giorni, minacciano di avvelenare le future generazioni di armeni e di azeri, con danni che rischiano di estendersi ben oltre la conclusione di questa guerra. Lo stato di eccezione e la legge marziale rischiano inoltre di mandare in cenere i progressi democratici dell’Armenia del post-2018.

Hai vissuto per molto tempo in Armenia e per qualche mese in Karabakh. Che aria si respirava? Le persone si aspettavano questo conflitto?

Questo conflitto, che è rimasto congelato per oltre un quarto di secolo, aveva subito una prima scossa violente nell’aprile del 2016, quando in quattro giorni c’erano state centinaia di morti. Il timore di un ritorno alla guerra aperta c’è sempre stato, ma la violenza e la velocità con cui si sono svolti gli eventi di queste tre settimane di guerra – nessuna donna o uomo, non solo in Karabakh, può essere preparato a questo. Ricevo tutti i giorni messaggi e chiamate da armeni, spesso in lacrime, che sono distrutti, demoralizzati e arrabbiati. Arrabbiati soprattutto perché pensano, non a torto, che il mondo li abbia abbandonati.

Perché l’Armenia non riconosce l’Artsakh?

Perché, dopo il cessate il fuoco del 1994, non si è mai arrivati a un accordo di pace. Un accordo sul quale, allora, le speranze erano assai più concrete di oggi. Il punto non è solo il riconoscimento dell’Artsakh, come gli armeni chiamano il Karabakh. Un altro punto importante sono i sette distretti adiacenti che non sono parte del Karabakh, nonostante siano occupati dagli armeni sin dalla guerra. Un compromesso territoriale non sarebbe impossibile da raggiungere. Eppure, dopo oltre un quarto di secolo, siamo ancora qui.

In che modo lo scioglimento dell’URSS ha influito sul riemergere della questione?

La questione del Karabakh, la cui attribuzione all’Azerbaijan (allora repubblica socialista parte dell’Unione) fu determinata agli inizi dell’esperienza sovietica, riesplode durante la Perestrojka, proprio in ragione della maggior libertà di espressione che si afferma. Se i confini attuali di Armenia e Azerbaijan, e non solo, furono determinati da un processo non troppo dissimile, mutatis mutandis, da quello portato avanti in Africa da potenze coloniali quali Inghilterra e Francia, non fu mai offerto alle popolazioni coinvolte la possibilità di esprimersi in proposito. Questo ha provocato tante guerre, non solo in Karabakh.

Chi seguire, in Italia e a livello internazionale, per avere notizie accurate sul conflitto?

Uno dei problemi che si trova a dover fronteggiare chi cerchi di fare informazione sulla guerra in Karabakh è il problema di trovare fonti attendibili. È una richiesta che mi viene fatta spesso, e denota da un lato l’incapacità tutta italiana di comprendere e raccontare una guerra di cui non si è mai occupato nessuno per anni.

L’Azerbaijan, secondo il World Press Freedom Index di RSF (lo studio più accreditato al mondo in materia) è al 168 posto su 180 paesi per la libertà di stampa e dei media. 14 posti dietro alla Turchia, per intenderci. Non solo: il sito del Ministero degli Esteri azero pubblica e aggiorna periodicamente sul suo sito una lista di persone non gradite (1.020, nell’ultima versione) a cui è impedito di viaggiare sul suo territorio. Include soprattutto giornalisti, scrittori, donne e uomini di cultura.

A molti di loro (o meglio, di noi, perché anch’io sono in quella lista) arrivano periodicamente minacce e intimidazioni da troll anonimi o anche da figure governative. Purtroppo, fra le vittime di questo sistema, ci sono anche le vittime (reali) di questo conflitto che sta colpendo, in questi giorni, anche Ganja e altri centri dell’Azerbaijan, non solo gli armeni. Vittime su cui grava il buio di un sistema di disinformazione fra i più malati al mondo. Da parte armena, dove normalmente la situazione è assai migliore, la legge marziale introdotta all’inizio della guerra impone un controllo capillare sui media.

Ci sono giornalisti italiani che hanno fatto lavori splendidi in questi giorni, come i già ricordati Daniele Bellocchio e Roberto Travan, oltre ad analisti come Aldo Ferrari, che ha scritto libri fondamentali sul Caucaso. E ci sono siti di informazione, come East Journal e Osservatorio Balcani e Caucaso, che sono di ottima qualità. Da un punto di vista internazionale, raccomando OC Media, oltre ad analisti come Thomas de Waal, autore di uno splendido libro sul Karabakh. Raccomando infine di usare Twitter che nel Caucaso è da sempre il riferimento fondamentale per raccogliere voci fuori dal coro (e dalla censura).


Foto: Martakert, Nagorno-Karabakh. L’elmetto di un soldato giace divelto di fronte a un ospedale bombardato dall’artiglieria azera. [Ottobre 15, 2020 — AP Photo]
Redazione
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