Insuperabile no, però insuperato finora

Un elogio del fumetto «Ken Parker», che torna in edicola a ritmo settimanale, scritto da un Daniele Barbieri – che qui si firma d. b. – con la complicità di un altro, ben più autorevole, Daniele Barbieri che sarebbe l’omonim(i)o …ma se preferite io sono l’omoni-suo

«Avete tanta abbondanza di carne da darla ai cani?» chiede Ken Parker mentre entra nell’accampamento cheyenne. «E’ marcia, come le parole del Grande Padre bianco» gli viene risposto.
Siamo nel primo numero – «Lungo Fucile» – della serie intitolata «Ken Parker» scritta da Giancarlo Berardi e disegnata da Ivo Milazzo: secondo me il miglior fumetto italiano di sempre. Ed è dunque con grande gioia che vi annuncio l’ennesima ristampa: stavolta sarà Mondadori Comics a portarlo in edicola (a ritmo settimanale) con due episodi alla volta. Il primo numero è uscito venerdì 11 aprile al prezzo stracciato di 1,90 euri per 208 pagine; non so quanto costeranno i successivi, spero un prezzo accessibile.
Il primo episodio ha un intreccio piuttosto complesso che nella parte finale è vagamente ispirato a una storia vera già romanzata da Howard Fast (nel 1968) e che pochi mesi fa è stata ripubblicata da Odoya con il titolo «L’ultima frontiera: la lunga marcia dei Cheyenne» (conto presto di recensirlo in blog). Ed è proprio Ken Parker che spiega alle incredule giacche blu la filosofia dei pellerossa: «avevano due possibilità, morire di fame o in combattimento e hanno scelto la seconda». Ma molte sorprese ci sono anche nel secondo numero e c’è chi – tra fans della prima serie – ricorda ancora, 35 anni dopo, lo scambio di battute fra Tina e Ken in una delle molte storie d’amore (mai stereotipate né volgari) che Berardi e Milazzo hanno saputo inventare in una tradizione di “nuvolette”che oscillava fra il machismo e il peggior moralismo.
Cosa hanno di speciale il personaggio e la serie? Tutto. Mai si erano lette in Italia storie così vere e i disegni (presi uno per uno e nel loro insieme, come ritmo) mai erano stati tanto cinematografici. Se lo seguirete ne vedrete l’evoluzione: è esagerato dire che almeno 10 numeri di «Ken Parker» vanno messi accanto ai capolavori della letteratura novecentesca? Forse esagero ma io lo penso.

Cedo ora la parola all’omonim(i)o, ovvero il Daniele Barbieri autore – fra l’altro – del volume «Maestri del fumetto: 41 grandi autori fra serialità e graphic novel» (pubblicato da Tunuè nel 2012 e già recensito qui in blog) dal quale riprendo stralci del capitolo intitolato « Ken Parker, o dell’umana avventura» che si riferisce in particolare a due storie di Berardi e Milazzo, ovvero «Casa dolce casa» e «Il respiro e il sogno».

Quello del West è forse l’unico vero mito moderno. L’ha costruito il cinema, riempiendolo, stagione dopo stagione, di tutte le sue figure: il cow-boy, i pellerossa sanguinari, il pistolero, il giustiziere, il giocatore di professione, la bella puttana resa cinica dalla vita, e poi il Settimo Cavalleggeri, il generale Custer, Billy the Kid, Jessie James, Buffalo Bill… Figure che sono esistite davvero in quel mondo, ma di cui il cinema ha creato una caratterizzazione specifica, colonizzando con quella il nostro immaginario. Solo in un secondo momento sono arrivati gli indiani buoni, i Piccoli Grandi Uomini, i Soldati Blu cattivi, le donne bianche cresciute tra i pellerossa, il problema razziale…
Come ogni mito che si rispetti, il West ha un suo canone, ma anche una stupefacente capacità di integrarsi e modificarsi. […] Nello scrivere storie western, dunque, qualsiasi sceneggiatore dovrà affrontare questo problema: se rispetterà pienamente le figure del mito mediatico, realizzerà una storia che ogni lettore riconoscerà come classicamente western, però, alla lunga, correrà il rischio di annoiare il suo pubblico e anche se stesso; se invece vorrà introdurre delle novità, starà già correndo il rischio di non essere accettato da un pubblico che non riconosce il Western in quello che legge, salvo essere stati capaci di giustificare così bene le novità da renderle accettabili. Nel 1970, i film che riabilitano gli indiani (come «Soldato blu» di Ralph Nelson, «Un uomo chiamato cavallo» di Elliot Silverstein e «Il piccolo grande uomo» di Arthur Penn) rinnovano il genere western facendo leva su una coscienza politica sensibile ai diritti dei popoli oppressi, e richiamando fatti davvero storici, oppure fatti immaginari molto simili ad altri fatti storicamente documentati. […]
Quando Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo propongono all’editore Bonelli, nel 1974, di realizzare una serie western a fumetti, hanno in mente un modo come questo di affrontare il West: usare il mito, cioè, per parlare di noi – senza fargli perdere con questo le sue caratteristiche di mito. Si rivolgono a Bonelli perché è un editore popolare, anzi l’editore popolare per eccellenza in Italia; e perché a suo tempo anche il suo personaggio più conosciuto, Tex, aveva anticipato in qualche misura questa trasformazione. All’inizio della sua storia, Tex era infatti un fuorilegge, e lo era per ingiustizia sociale; aveva amici tra i pellerossa e sposava una ragazza indiana, da cui aveva un figlio. Certo, in seguito la serie si normalizzerà, diventando un western classico, ma senza mai venir meno ai suoi presupposti originari.
Nel ’74 Berardi ha 25 anni e Milazzo ne ha 27. Bonelli li coinvolge da subito in diverse storie di genere western, ma soprattutto apprezza talmente il personaggio che gli viene proposto da loro, da decidere di farne una serie autonoma: «Ken Parker», in edicola dal 1977.
[…] Non si tratta solo di riabilitare gli indiani. In «Ken Parker» la posta in gioco è ben più alta. Tutti gli stereotipi del genere western vengono rivisitati e presentati nel racconto sotto una luce differente: l’imbroglione professionista, per esempio, quello che vive la vita vagabonda del baro, del piccolo truffatore, del seduttore allegro, può essere anche qualcuno che ha un passato, qualcuno che è quello che è per delle ragioni che hanno un senso. […] Questa è, in generale, la “ricetta” di Berardi e Milazzo: per ogni figura, per ogni tipologia di personaggio o di situazione, si prova a prenderlo come se fosse qualcosa di vero e reale, e ci si domanda che cosa potrebbe accadere se fosse davvero reale, e perché, e che cosa possa essere successo prima per arrivare a questo punto.
Senza uscire dal mito del West, dunque, i suoi personaggi e le sue situazioni incominciano ad assomigliare molto di più ai personaggi e alle situazioni della vita reale – oppure, se vogliamo, dei generi narrativi più realistici. E il West, così, quasi d’improvviso, sembra animarsi di una vita che prima non aveva. Certo, ci sono pur sempre – come devono esserci – le sparatorie, le scazzottate, gli inseguimenti: ma qui esse sembrano avere dei motivi molto più veri. Berardi e Milazzo ci portano al perché degli eventi, mostrandoci un West che appare incredibilmente somigliante, negli affetti e nelle passioni, alla nostra vita di oggi, mentre resta comunque un West quanto ad ambientazione e personaggi.
[…] Per arrivare a questo risultato l’invenzione narrativa è cruciale, ma da sola ancora non è sufficiente. Questo bell’effetto di vividezza non dipende solo dall’approfondimento psicologico dei personaggi, dallo studio sociale e politico delle situazioni. Berardi e Milazzo si rendono infatti conto fin da subito che il mito del West è un mito cinematografico, e che per realizzare delle storie western che ne rendano a fumetti il profumo bisogna costruire un fumetto che sia a sua volta il più possibile cinematografico. Non a caso il protagonista delle loro storie ha il profilo del Robert Redford che recita in un grande film western del 1972, «Corvo rosso non avrai il mio scalpo» di Sydney Pollack.
Per questo il disegno di Milazzo, dopo i primi episodi dallo stile un po’ più incerto, è così schizzato e dinamico. E pazienza per i dettagli che vengono trascurati! È molto più importante che il disegno renda l’idea del movimento, della dinamicità, della fluidità: da questo punto di vista Milazzo ha imparato moltissimo da Pratt. Bisogna individuare la posizione dei corpi che renda al meglio il movimento, e ridurre i dettagli in modo che la velocità della lettura faciliti la percezione della velocità dell’azione!
Però bisogna anche lavorare sul montaggio. «Ken Parker» è sistematicamente privo di didascalie, ma mancano spesso anche i rumori; eppure non se ne sente la mancanza. Il modo in cui sono costruite e messe in sequenza le vignette ci fa capire quando ci troviamo di fronte a un salto spaziale e/o temporale, senza bisogno di descriverlo a parole; e attraverso le inquadrature si possono ottenere immagini così espressive da evocare il suono che le dovrebbe accompagnare, senza alcun bisogno di renderlo graficamente. Certo, questo funziona perché il lettore di «Ken Parker» è abituato al linguaggio cinematografico, e sa, per competenza naturale di spettatore, come supplire quello che manca, quello che non viene detto esplicitamente.
[…] Insomma, un’arte difficile, ma che può dare i suoi frutti. E non ci sono testi a fumetti migliori di questi per vedere quest’arte utilizzata al massimo delle sue potenzialità.

Redazione
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