Intervista a Margaret Owens

di Kathryn Hovington (traduzione e adattamento di Maria G. Di Rienzo) per «The International Criminal Law Bureau».

http://www.internationallawbureau.com

Margaret ha lavorato nell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati in Uganda e in India, è stata consigliera per l’immigrazione per i ministeri degli Esteri e degli Interni britannici, e direttrice dell’ufficio legale dell’International Planned Parenthood Federation.

Come direttrice di «Vedove per la Pace tramite la Democrazia» qual è il tuo scopo principale?

Mi sento davvero privilegiata in modo straordinario, perché il mio lavoro riguarda una delle aree più neglette del genere e dei diritti umani. Lavoro sulle istanze della vedovanza: in special modo nei Paesi in via di sviluppo e in quelli dove vi sono scenari di conflitto o post conflitto, dove vi sono milioni di vedove e di “mezze vedove” (le vedove degli scomparsi) totalmente ignorate. C’è ancora così tanto da fare. Cambiare le politiche governative, suscitare consapevolezza nelle comunità nazionali, alle Nazioni Unite e in tutti i meccanismi legali internazionali. Non si tratta di una “questione di donne”: è una questione per la società nel suo insieme.

Un aspetto importante della vedovanza è il suo irrevocabile impatto negativo sulle vite dei bambini. Ciò che i bambini delle vedove sperimentano è terribile, a causa della povertà delle loro madri, che non hanno diritti ereditari o sulla terra, e non hanno accesso alla giustizia legale. Questi bimbi sono tolti da scuola o non avranno mai la possibilità di frequentarne una. Le femmine possono essere forzate a prostituirsi o date in mogli in tenera età, il che farà di loro stesse giovani vedove. Per cui questa non è una faccenda che riguarda la morale o la compassione, è in effetti una grossa questione economica e politica. Dopo tutto, la risorsa più importante di ogni nazione è la sua gioventù, la generazione futura.

Com’è cominciata la tua carriera e cosa ti ha spinto ad occuparti di diritti umani?

Ho ottant’anni ora, e sessanta anni fa, quando frequentavo l’Università di Cambridge, non c’era nulla che somigliasse a un corso sui diritti umani. Nessuno ne parlava molto, tra l’altro. Studiavo legge ma non sono mai stata intenzionata a seguire il sentiero convenzionale del divenire poi un pubblico ministero, un’avvocata o una giudice. Quello che mi interessava era l’interfaccia tra legge e società, legge e sociologia, legge e antropologia, e l’impatto della legge sulle persone più svantaggiate, in particolare il loro accesso alla giustizia.

Ho praticato come avvocata negli anni ’50, ma era un momento difficilissimo per le donne. C’erano così tanti pregiudizi sulle avvocate, persino fra i colleghi, che lavorare era quasi impossibile. Io volevo essere indipendente e vivere da sola, così ho cambiato professione e sono andata a lavorare come produttrice per la televisione. Mentre producevo programmi sulle istanze sociali ho cominciato a studiare antropologia e dopo essermi sposata ho anche preso un diploma in amministrazione e politiche sociali.

Cos’ha acceso il tuo interesse per i diritti delle vedove?

Ho incontrato la cosa accidentalmente, mentre nessuno la stava considerando, dopo la morte di mio marito avvenuta vent’anni fa. All’epoca dirigevo i corsi del Royal Institute of Public Administration, e cioè insegnavo diritto amministrativo ai magistrati del Commonwealth. Uno di essi, del Malawi, venne da me un giorno chiedendo aiuto per un bimbo molto malato. Riuscii a convincere un pediatra dell’ospedale di Salisbury a prendersene cura, e invitai la madre a risiedere da me mentre il piccolo veniva curato. Lei funse da catalizzatore. Aveva appena messo piede in casa mia, non si era neppure seduta e dato uno sguardo al soggiorno mi chiese: «Vuoi dire che i fratelli di tuo marito ti permettono di stare qui e di tenere tutte queste cose?». Un campanello d’allarme cominciò a suonare nella mia testa.

Alcune settimane più tardi ero all’Ucla in California, dove ero stata invitata a tenere dei corsi su donne, diritto, sviluppo e salute. Cominciai a cercare informazioni sulle vedove nell’enorme biblioteca di questa università: e non c’era assolutamente nulla. All’epoca ci stavamo muovendo verso la Quarta conferenza mondiale sulle donne che si sarebbe tenuta a Pechino nel 1995. Là tenni il primo seminario internazionale sulla vedovanza, e ciò diede inizio al processo.

Hai una visione di quello che vorresti raggiungere? Qual è la missione?

All’inizio era un caso tipico di «cosa possiamo fare?». Le vedove devono essere rappresentate a livello nazionale, regionale ed internazionale. I bambini hanno l’Unicef e “Save the Children”, i rifugiati hanno l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite, i detenuti hanno “Prisoners of Conscience” e Amnesty International. Ma cosa avevano le vedove? Per cui abbiamo fondato un’organizzazione internazionale, che ha attraversato stadi diversi. L’organizzazione che ora io dirigo si chiama “Vedove per la pace tramite la democrazia” (Widows for Peace through Democracy – http://www.widowsforpeace.org).

Lo scopo ultimo è avere un mondo in cui non vi siano Paesi dove le vedove soffrono per stigmatizzazione e marginalizzazione, dove vengono loro negati i diritti umani di base, dove sono le più miserabili fra i poveri, dove le loro voci non sono mai ascoltate e sono vittime di pratiche tradizionali dannose e degradanti. In alcuni Paesi tali pratiche sono torture vere e proprie.

Uno dei nostri impegni più importanti è dar sostegno alle vedove in nazioni in cui la vedovanza equivale alla morte sociale, essere in grado di fornire loro conoscenze utili, non solo quelle relative ai loro diritti, perché far fronte alle necessità di base è la loro prima priorità. Il sostegno e i training sono mirati a dar loro la fiducia e la conoscenza utili ad articolare i loro bisogni e a partecipare ai livelli decisionali. Le aiutiamo a essere coinvolte, in particolare nelle situazioni di transizione post-conflitto, quando si danno attività come riforme legali e costituzionali, commissioni per la verità e la riconciliazione, costruzione di pace e democrazia.

La gente mi dice che abbiamo fatto molto, ma io sento che la strada da percorrere è ancora lunga. Vorrei avere trent’anni di meno, così potrei lavorare molto di più. Per dirla con una metafora, noi abbiamo piazzato la scala, ma la questione è ancora ai gradini più bassi e io voglio vederla salire.

Quali ostacoli vedi lungo la via?

Principalmente due. In primo luogo, non ci sono abbastanza dati o statistiche affidabili: sappiamo ancora troppo poco. Questo è un grosso ostacolo. Tuttavia, abbiamo un’incredibile organizzazione partner in Nepal, le cui socie vedove stanno riempiendo i vuoti nei dati, registrando e mappando. L’altro grande ostacolo, a parte l’ovvia mancanza di fondi, è che chiunque – nei governi e nelle agenzie per lo sviluppo, nei gruppi umanitari e alle Nazioni Unite – parla delle donne come di un gruppo omogeneo, ma non lo sono. Una delle più povere e più ignorate “sotto-sezioni” del gruppo donne sono le vedove e le mogli delle persone scomparse.

Cosa c’è nella tua vita, privata o professionale, che ti dà ispirazione per questo lavoro?

Le persone spesso mi chiedono della mia vedovanza, ma io non posso parlarne allo stesso modo, perché non ho sofferto nulla di quel che ho detto prima. Ovviamente c’è il dolore, c’è qualche volta la solitudine, ma io ho un tetto sulla testa e un’istruzione, perciò posso continuare a lavorare e non sono stigmatizzata perché vedova: nessuno a esempio dice che sono una strega.

Ci sono numerose donne che mi ispirano – Nawal El Saadawi in Egitto, Noeleen Kaleeba in Uganda, Graca Machal, Aung San Suu Kyi – ma ce n’è anche una molto particolare. Il suo nome è Lily Thapa. L’ho incontrata dieci anni fa a un incontro di vedove a Delhi, e l’ho invitata a Londra a parlare durante il ventennale della Cedaw (Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne). E’ la fondatrice e la presidente della straordinaria organizzazione nepalese che ho citato: Women for Human Rights, Single Women Group (“Donne per i diritti umani, gruppo donne single”) – http://www.whr.org.np

La ragione per cui ha chiamato il gruppo “donne single” invece che vedove è che nella maggioranza dei dialetti parlati nella regione la traduzione della parola “vedova” è puttana o strega. Lily è rimasta vedova quando era una giovane madre con tre figli maschi molto piccoli. Suo marito è morto durante la guerra del Golfo e lei ha dovuto sottoporsi a tutti i rituali del lutto: i capelli le sono stati rasati dalla sua stessa madre, l’anellino alla sua narice è stato strappato via con le pinze e qualsiasi gioiello possedesse è stato rotto. Immediatamente dopo ha fondato il gruppo assieme ad altre cinque vedove e ha cominciato a lavorare attraversando l’intero Paese, inclusi i villaggi maoisti, il che non l’ha resa molto popolare presso il suo governo. L’organizzazione ha stabilito rifugi e programmi educativi per le vedove che fuggono dalla povertà, dalla violenza e dall’abuso sessuale.

Oggi Lily è assai conosciuta, alle Nazioni Unite e nei circoli delle ong. Ha mappato e registrato 84.000 vedove in 57 delle 76 regioni del Nepal. La sua organizzazione ha persuaso il governo nepalese a includere il trattamento delle vedove negli indicatori che monitorano l’implementazione della Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza delle Onu e a redigere un Piano nazionale d’azione relativo alla 1325. Ha aiutato 11 vedove a sedere al Parlamento nepalese; ha lavorato per cambiare le leggi sui diritti pensionistici… Lily ha fronteggiato così tanta discriminazione e ora è una figura internazionale. Sono davvero ispirata da lei e dai risultati del suo lavoro.

Da dove prendi la tua invidiabile energia?

Beh, penso che la passione sia essenziale come carburante. Fa sì che tu ti guardi in giro ed esplori, sino a trovare persone che ti danno consapevolezza e ti aiutano. Le vedove non sono semplicemente vittime, non sono solo povere, vulnerabile e bisognose: rivestono ruoli chiave come uniche provveditrici per le loro famiglie. In numerosi Paesi vedi nonne che si prendono cura di orfani e di persone traumatizzate e ferite dalla guerra. Le vedove possono essere agenti del cambiamento assai efficaci se le si consulta e le si sostiene. Devono essere informate e devono influenzare le politiche dei loro Paesi. Ecco, le vogliamo vedere in prima fila.

BREVE NOTA

Le traduzioni di Maria G. Di Rienzo sono riprese – come i suoi articoli – dal bellissimo blog lunanuvola.wordpress.com/  – Il suo ultimo libro è “Voci dalla rete: come le donne stanno cambiando il mondo”: una mia recensione è qui Voci dalla rete alla data 2 luglio 2011. (db)

Redazione
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