Intervista a un … chi?

Chiacchierata con Brhan Tesfay su «Specchi sbagliati», gli italiani e le identità invisibili (*)

Mi sbilancio: ho deciso di intervistare Brhan Tesfay perché credo che il suo libro sia importante. Per la prima volta in Italia un … E mi interrompo subito, incerto: un…. chi? Un «G2»? Concordo con Tesfay che la definizione è assurda. Uno straniero? Neanche per idea. Un afro-italiano? Mi pare la pigra scopiazzatura di un termine che negli Usa ha una storia dietro le spalle. Un «nuovo italiano» allora? Sì: ma è pomposo, retorico. E allora? Dire «uno scrittore nel mondo che migra» è preciso da una parte quanto vago dall’altra. Rimando dunque di precisare il «chi» e vado alle altre quattro «w» del celebre schema inglese: cosa, dove, quando e perché.
Il «cosa» è un libro straordinario nel raccontare rabbie e amori, con punte di ironia e coltellate di dolore. Il «dove» è l’Italia che si muove fra paure, etichette fasulle e scarse certezze. Il «quando» è un Paese che ha una ministra «nera» per l’integrazione (era ora) ma che sembra non avere un progetto di convivenza, in coerenza con il deserto di idee che regna anche sul resto. Il perché (dell’intervista) è la convinzione che sarebbe un peccato se non ascoltassimo ciò che – in forma letteraria ma sotterraneamente politica – Tesfay ci getta in faccia sull’Italia che appunto non sa scegliere fra apartheid e serenità, fra razzismi e meticciato.

Conosco da anni Brhan, anche se ci frequentiamo pochissimo; dunque nell’intervista non userò la finzione del «lei».
Il romanzo inizia su Selam, un maschio, poi si centra su Jasmin: una scelta o la storia, come spesso accade, ti ha preso la mano?
«Entrambe. Perché nel seguito, che sto scrivendo, Selam ritrova la centralità narrativa perduta, insieme alla sua band. Però è vero che Jasmine mi ha preso per mano. Anni fa mentre stavo sviluppando l’idea di “Specchi sbagliati” sono rimasto sconvolto ma anche avvinto dalla storia di un matrimonio forzato che mi venne raccontata dalla moglie di un amico. Ha continuato a ronzarmi in testa finché ho trovato la chiave per collegare Jasmine con l’Italia attraverso il personaggio di Vittoria, che ha vissuto la stessa oppressione e analoghi dolori ma in tempi diversi. Non è dunque la buona samaritana che aiuta l’immigrata ma invece una donna, ormai anziana, che si identifica con la ragazza giovane: anche lei fu vittima e vuole aiutarla. Ben sapendo che, come dice proprio Vittoria, “l’esperienza si può raccontare, non insegnare”. Una lotta comune dunque».

I razzisti non leggono, i “buonisti” forse sì. Il tuo libro dovrebbe mandare in confusione, se lo capiranno, soprattutto gli insegnanti buonisti. Sei d’accordo?
«E’ così, si arrabbieranno. Il buonismo, cioè confondere la carità con i diritti, non mi piace. Da questa crisi usciamo tutti con meno garanzie o con più diritti? Questo è il punto. Non offendere la sensibilità degli immigrati, è una gran balla, ipocrita: lo ripeto, bisogna ragionare su diritti eguali per tutti. Per i buonisti, quelli che si sentono un po’ superiori e vorrebbero aiutare gli altri, è tremendo sentirsi dire che il padre di Jasmine, cioè dell’immigrata, è uguale al papà di Vittoria, che è italiana. Mi immagino l’insegnante che pensa: «nonostante quello che io faccio per aiutare gli stranieri questo libro, fin dalle prime pagine, mi ridicolizza…”. E’ così, io li attacco: la buona fede non basta. Del resto anche la rabbia di Selam verso i suoi genitori è politicamente scorretta ma questa è la verità. Ho deciso che bisogna mettere sul tavolo i problemi veri non le ipocrisie».

Tu scrivi: «Io non sono il Paese dove sono nati i miei genitori, io sono io»; da parte mia aggiungo: è così difficile da capire? E completiamo il discorso: «io non sono neppure il Paese dove sono nato»; anche questo è così difficile da capire?

«Difficile lo è davvero, ti tirano da tutte le parti. La domanda ossessiva (“da dove vieni?”) che gli viene fatta ogni volta butta Selam fuori dalla classe, dal quartiere, verso il passato dei genitori e non verso il futuro. I gesti “buonisti” non dialogano con i ragazzi nati qui e soprattutto negano la loro identità, definendoli immigrati. Ignoranza, paura, non capire che tutte le nostre identità sono complesse. Allo stesso modo definire una persona soltanto musulmano o cristiano – o G2 appunto – che senso ha se non conservare le nostre certezze a prescindere? G2, cioè seconda generazione di immigrati, non va bene: se siamo nati qui, che senso ha chiamarci così?».

Se dovessi fare il pignolo e cercare una critica a un libro bellissimo probabilmente ti direi: «ci sono alcune ripetizioni e lungaggini». In effetti l’ho pensato ma poi mi sono detto: e se fosse voluto? Se Brhan pensasse che siamo così indietro a capire che… sente il bisogno di ribadire, ripetere?

«Sì, è così. Mi spiego con un esempio: una persona ha letto il libro ma poi parlandone con me si è sorpresa: “come? Jasmine non è …”. E ha detto la religione sbagliata. Pensa come sono forti gli stereotipi se ci si rifiuta di capire quello che si è appena letto. Vale anche per Jasmine e le ragazze come lei: potrebbero ripetere alcuni concetti 100 volte e i loro padri continuerebbe a non capire».
Il finale è volutamente sospeso?
«Non credo al lieto fine improvviso. Il capitolo finale si intitola “Il tradimento”. Ma di chi? Parlando di Adamo, Eva e della mela Erich Fromm lo definisce il primo atto di libertà. Jasmine tradisce chi? E il papà di Jasmin per cambiare, per capire la figlia deve a sua volta tradire simbolicamente suo padre? Non lo sappiamo, ma desiderarlo è possibile. Chi rifiuta la realtà non deve chiedere perdono, se lo fa allora una piccola speranza esiste».
Metà della tua vita è nella scrittura. Nell’altra mezza, per campare, sei impiegato in uno sportello-lavoro, per l’orientamento dei disoccupati…

«Non so dove voglia arrivare la tua domanda ma ci tengo a dirti questo: per scrivere è necessario intuizione, ricerca e soprattutto lavoro, lavoro, lavoro».

Visto che mi hai subito stoppato, passo alla domanda successiva. Per evidenti ragioni non voglio chiederti «da dove vieni?» (come tutti domandano a Selam) perciò dimmi magari… «dove vai».

«Vado a collaborare con chiunque, a costruire una storia comune. Non voglio amici o nemici obbligatori. Ogni crisi è anche una opportunità, per esempio per riscoprire i valori universali».

Chiudiamo con le edizioni Sui (Sviluppi Umani Immaginati), la casa editrice che hai fatto nascere: una necessità, una passione o entrambe?

«Le due ragioni che hai detto. Dopo anni di lavoro volevo un editore che curasse bene il mio libro ma ho anche il desiderio di pubblicare testi non miei, a esempio una collana davvero interculturale per bambini, penso sia il momento giusto: Sui si avvale della disponibilità di alcuni collaboratori, in modo particolare di quattro esperti del settore. Riusciamo a distribuire, cercando rapporti diretti con le librerie. Faticoso ma è l’unico modo. Se non si creano piccoli eventi i libri non si vendono. E non si discutono che è ancora più importante».
Brhan mi prega di ricordare che «Specchi sbagliati» si trova nelle principali Feltrinelli e in qualche altra libreria (l’elenco completo è su www.edizionisui.com). Lo faccio volentieri perché la distribuzione penalizza empre più i piccoli editori come i libri coraggiosi; solo in parte il passaparola e il tempo ridanno visibilità a testi importanti sacrificati dal best seller “obbligatorio” di turno ma anche dalla pigrizia (e spesso persino dalla logica di scuderia) dei grandi media. Secondo me sarebbe un peccato se non provassimo a guardarci in questi specchi “sbagliati” che Brhan Tesfay ha saputo magicamente metterci sotto il naso, senza neppure il garbo di urlare «attenti ai vetri rotti».
(*) Questa mia intervista appare anche su «Corriere dell’immigrazione» (db)

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