Intervista al dirigente mapuche Humberto Manquel

di David Lifodi

Dopo anni ed anni di lotte, lo stato cileno ha cancellato il mega-progetto di Endesa-Enel, che prevedeva la costruzione di cinque dighe nella Patagonia cilena. La bocciatura del progetto Hidroaysén rappresenta una grande vittoria delle organizzazioni popolari cilene, ma restano molte riserve sulle motivazioni che hanno spinto la presidenta Michelle Bachelet a respingere la valutazione d’impatto ambientale che aveva autorizzato l’edificazione di cinque represas sui fiumi Baker e Pascua. La diffidenza dei mapuche verso la coalizione di Nueva Mayorìa rimane intatta, come spiega in questa lunga intervista Humberto Manquel, dirigente mapuche di Panguipulli, a luglio in Italia per un giro di conferenze tra centri sociali e organizzazioni di movimento per raccontare la verità su Hydroaysén e denunciare le contraddizioni del governo Bachelet.

Un ringraziamento particolare a Valentina Fabbri, che ha fatto da tramite per l’intervista a Humberto Manquel e per avermi precisato una serie di aspetti sulla vita dei mapuche che ho inserito tra le note del testo nel corso dell’intervista e, ovviamente, a Humberto per la sua disponibilità.

D. Di recente il governo della presidenta Michelle Bachelet ha votato all’unanimità la revoca della licenza di Hidroaysén ambiental, il megaprogetto idroelettrico che prevedeva la costruzione di cinque dighe sui fiumi Baker e Pasqua, nella Patagonia cilena, ed una linea di trasmissione di 2.500 chilometri per portare l’energia necessaria alle miniere nel nord del paese. Si tratta di un primo passo sulla strada del riconoscimento dei diritti territoriali del popolo mapuche?

R. No, anzi. In seguito alla caduta del megaprogetto Hidroaysén le pressioni delle imprese transnazionali sono cresciute. In una riunione con gli esponenti dell’industria elettrica, Michelle Bachelet ha assicurato che la sua priorità è quella degli emprendimientos hidroeléctricos. La maggior parte di questi progetti si trova nel sud del Cile, in territorio mapuche, ad esempio currarrehue, tolten, neltune, pilmaiken e molti altri che sono ubicati proprio nei “luoghi sacri naturali” dei mapuche.

D. Durante il suo primo mandato alla guida del paese, Michelle Bachelet non ha messo in discussione la Ley Antiterrorista, utilizzata spesso contro il popolo mapuche e qualsiasi altro tipo di protesta sociale. Ritieni che adesso Bachelet sia intenzionata ad abolire questa legge?

R. La Ley Antiterrorista serve principalmente all’elite politica e imprenditoriale di cui la coalizione Nueva Mayoria (la ex Concertación) fa parte. Nel contesto dell’attuale scenario politico sociale (nel quale il controllo sociale, politico ed egemonico si trova in crisi di legittimità), sarà difficile che la Ley Antiterrorista venga revocata: tramite l’utilizzo di questo dispositivo legale e di montaggi giudiziari si controlla e reprime la mobilitazione dei mapuche e dei movimenti sociali cileni non appena mettono in discussione la proprietà privata, il lucro e lo sfruttamento dei lavoratori e degli ecosistemi. La Ley Antiterrorrista ha un chiaro orientamento di classe ed è volta a reprimere le organizzazioni che cercano di dare scacco all’ingiustizia sociale. La disuguaglianza è un prodotto della concentrazione dei mezzi di produzione e delle risorse naturali, nelle mani dell’1% della popolazione, e della privatizzazione di tutte le sfere delle vita, dall’istruzione alla salute e alla previdenza sociale, così come nei diversi settori produttivi: estrazione mineraria, pesca, industria della cellulosa e settore energetico.

D. Ci sono almeno sei progetti idroelettrici di Enel/Endesa e della norvegese SN Power che mettono in pericolo l’ecosistema e la sopravvivenza di oltre 150 comunità mapuche che da almeno 500 anni abitano in questi territori. In concreto, qual è il danno che Endesa ha causato all’ambiente e alle persone?

R. Il modus operandi di Enel/Endesa, una transnazionale mondiale del settore energetico (italiana e pubblica al 31%) è quello di disarticolare in primo luogo il tessuto sociale, distruggendo l’ecologia del territorio tramite una strategia di responsabilità sociale di impresa che non è altro se non quella di fare pressione sui popoli cercando di comprarli con un pacco di bigliettoni per soddisfare le necessità di cui ha bisogno  lo stato cileno. Dopo aver diviso le comunità, con l’aiuto delle agenzie “ambientali” dello stato, si passa alla tappa di implementazione di un progetto che attenta contro il kume mogen (buen vivir) e il itrofill mogen (biodiversità) e disconosce la placca tettonica-vulcanica Liquiñe Ofqui e il riempimento di un complesso vulcanico attivo come lo è il Mocho Choshuenco, da cui potrebbe derivare una possibile inondazione delle province limitrofe nel caso di un terremoto. (Ndt. Si tratterebbe di un disastro molto peggiore di quello del Vajont. Il Cile è un paese sismico, ma al momento dell’approvazione del progetto non sono stati presi in considerazione studi indipendenti di geologi e vulcanologi). Inoltre si inonderebbe il complesso cerimoniale mapuche della comunità Juan Quintuman e l’humedal Cua cua, un ecosistema acquatico da cui mapuche e campesinos traggono le lawenas, le piante medicinali. Tutti questi beni comuni sono minacciati dalla transnazionale Enel/Endesa, che pure ha firmato il Patto mondiale dell’Onu.

D. Le comunità mapuche sono almeno 2500 in tutto il territorio cileno e richiedono un’autonomia che riconosca i loro diritti sotto tutti gli aspetti, a partire da quello di un territorio definito. Perché lo stato cileno non salda il debito storico che ha contratto con il popolo mapuche usurpando le terre abitate da sempre dalle comunità indigene?

R. Lo stato cileno e la classe politica civile e militare che lo amministra non intendono risolvere la cosiddetta “questione mapuche”, perché ciò significherebbe rinunciare alle risorse naturali di cui è ricco il sud del paese. Non dobbiamo dimenticare che la guerra di occupazione e sterminio (Ndt. del governo cileno, in violazione dei trattati storici con i mapuche), denominata Pacificación de la Araucanìa, al pari della Guerra del Pacifico contro la confederazione peruviano-boliviana, aveva lo scopo geopolitico di impadronirsi della maggior parte del territorio e delle risorse per mettere fine alla fase di ristagno economico che in Cile si è protratta fino alla metà del XIX secolo. (Ndt. Storicamente i mapuche resistettero alla conquista spagnola e furono uno dei pochi popoli originari ad ottenere il riconoscimento di indipendenza dai trattati con la Corona spagnola prima e con il nascente stato del Cile poi). Attualmente il modello di sviluppo capitalista, estrattivista e centrato sullo sfruttamento e la spoliazione delle risorse naturali, cerca soltanto di esportare materie prime quasi senza alcun valore aggiunto o trasformazione e non è molto diverso dal modello di sviluppo del XIX secolo. L’usurpazione e il furto fanno parte del DNA dello stato cileno che, invece di tutelare gli interessi e i diritti dei mapuche e dei cileni, svolge la funzione di un’agenzia coloniale affinché le transnazionali energetiche, minerarie, forestali e del settore dell’agroindustria possano svolgere il proprio lavoro sotto una pace che assomiglia alla pax romana imperiale.

D. Adesso il governo cileno non intende proseguire con il progetto Hidroaysén: potrebbe essere un’opportunità per annunciare anche la revisione del Còdigo de Aguas, la legge promulgata da Pinochet per favorire la privatizzazione del sistema idrico?

R. La risposta dell’attuale governo socialdemocratico di centro destra (nonostante l’inclusione del Partito Comunista nella coalizione Nueva Fechorìa (Ndt. Gioco di parole popolare con cui è stata denominata la coalizione di governo, Nueva Mayorìa, che appoggia Michelle Bachelet) di fronte al Còdigo de Aguas è la seguente: facciamo una commissione che studi il problema e realizzi una diagnosi. Le organizzazioni sociali e comunitarie (cioè delle comunità mapuche) di tutto il paese si sono mobilitate per le strade di Santiago del Cile e hanno indicato che sono proprio le loro mobilitazioni la diagnosi più evidente della crisi idrica esistente nel paese, prodotto della privatizzazione dell’oro blu, un diritto umano fondamentale, malgrado la promulgazione del Còdigo de Aguas da parte della dittatura nel 1981.

Il coordinamento di reti sociali e ambientaliste di cui le nostre comunità fanno parte chiede:

  •  la fine del lucro. L’acqua è un bene comune e come tale è stato riconosciuto dal Cile di fronte alle Nazioni Unite. Si tratta di un diritto umano basico e deve essere consacrato come tale nella nostra Costituzione, facendo in modo che non si tratti più di una merce regolata dal mercato.
  • la proprietà collettiva. L’acqua fa parte della vita e di tutti gli esseri che da lei dipendono, dunque il ruolo dello stato non deve essere quello di assegnarne la proprietà, ma di garantire, sulla base di una logica territoriale, una gestione democratica, razionale ed equa dell’acqua. Per questo è fondamentale inserire tra le priorità l’utilizzo dell’acqua per poter bere, per i servizi sanitari e di carattere igienico, per la produzione degli alimenti e il mantenimento degli ecosistemi. Tutto ciò deve avere la priorità sulle altre attività produttive. Allo stesso modo, è necessario recuperare il controllo pubblico sul rifornimento e la bonifica dell’acqua potabile per la popolazione.
  • la gestione comunitaria. Il popolo mapuche ha diritto a vivere nel modo che desidera, (Ndt. Nel caso dei popoli originari ci si riferisce al diritto all’autodeterminazione, al rispetto del loro modo di vivere e alla consulta previa libre e informada secondo quanto sancito dalle leggi del diritto internazionale, ad esempio la OIT/ILO 169) e decidere collettivamente sull’utilizzo dell’acqua. Per questo è necessario stabilire urgentemente una moratoria al modello centralista dello sviluppo minerario, forestale, energetico e agroalimentare che è stato imposto sui nostri territori in modo tale da valutare, secondo un criterio serio e rigoroso, i costi e benefici per le regioni, il paese e il pianeta.
  • l’abrogazione della privatizzazione. L’acqua e la terra sono indivisibili e come tali comprendono le cosmovisioni indigene e contadine, dunque devono essere abrogati tutti gli strumenti giuridici che vanno contro questo principio elementare come il Código de Aguas e il Tratado Binacional Minero, affinché l’acqua cessi di essere un diritto imprenditoriale inalienabile, contro la vita e il sostentamento delle comunità e dell’ecosistema.
  • le leggi per la vita. Dobbiamo varare con urgenza una legge che protegga gli ambienti più fragili, in special modo gli ecosistemi glaciari e periglaciari, per preservare così le nostre cuencas e la sostenibilità dei flussi idrici.
  • la ristrutturazione istituzionale. È imprescindibile che le istituzioni, in particolare la Dirección General de Aguas, cessi la sua condotta criminale risolvendo i problemi tecnici in virtù di criteri politico-economici. Le istituzioni che regolano il servizio idrico non possono rappresentare lo schermo democratico del saccheggio, devono “deburocratizzarsi” , porsi al servizio delle comunità e dotarsi di facoltà e competenze per garantire il buon uso delle risorse idriche.
  • la fine della criminalizzazione della protesta sociale. Le comunità mapuche e le organizzazioni che hanno evidenziato le conseguenze derivanti dall’estrattivismo si sono mobilitate per fermare la crisi idrica prima che divenisse irrecuperabile, ma sono state dipinte come caricature dal punto di vista mediatico, assediate sotto quello giuridico, incarcerate senza capi d’accusa e criminalizzate nelle forme più diverse per nascondere i veri colpevoli dell’impresentabile precarietà in cui viviamo. Tra queste pratiche sono incluse la Ley Hinzpeter, la Ley antiterrorista e la discrezionalità con cui operano le autorità a favore delle imprese: tutto ciò deve finire adesso.

 

L’amministrazione Bachelet cerca di dare governabilità ad un modello di sviluppo estrattivista neoliberale che si trova in crisi a causa della voracità dei gruppi capitalisti cileni e transnazionali, giocando al gattopardismo del “tutto cambia affinché niente cambi” e mantenendo un discorso populista che non si addice all’immagine secondo la quale alcuni ladrones del agua sarebbero puniti e si costituirebbe una commissione per risolvere il problema mentre il capitale specula sui diritti dell’acqua e prosegue privando del diritto all’oro blu ampi settori della nostra popolazione contadina e delle comunità dei popoli originari (Ndt. Si tratta della maniera più corretta di denominare i popoli ancestrali, “originari” di terre conquistate, più conosciuti come indigeni per errore e per mancanza di rispetto, perché non si trattata né di indigentes, né di persone provenienti dall’India, e nemmeno di selvaggi incivili, dato che hanno la loro lingua, cultura e cosmovisione). Rispetto all’acqua potabile a domicilio, non dimentichiamo che tutte le sanitarias vennero privatizzate e consegnate alle transnazionali spagnole sotto i presidenti Eduardo Frei e Ricardo Lagos (entrambi della Concertación) con la scusa di dover raggranellare risorse necessarie per il superamento della povertà.

 

D. Pensi che si possa aprire una nuova fase nelle relazioni tra lo stato cileno e i mapuche sulla base del riconoscimento dei loro diritti, o credi che, in ogni caso, dovrete continuare a lottare?

R. Crediamo che i diritti del nostro popolo esistano prima della creazione dello stato nazionale denominato Cile che, rimarchiamo, si è trasformato in un’agenzia coloniale di distribuzione di sfruttamento, commodities o risorse naturali. Questo dispositivo statale è recente in termini storici e non può essere paragonato all’orizzonte culturale e storico di più di 14mila anni. Noi siamo un popolo che è stato capace di risollevarsi di fronte al genocidio statale di sterminio compiuto da Argentina e Cile, paragonabile a quello della Germania nazista e messo in atto in condizioni molto simili a quelle degli Stati Uniti e del Canada con le nazioni originarie o i popoli del Nordamerica. I termini di reducción e reserva,  che si vedono e si ascoltano nei film western, sono gli stessi che furono utilizzati politicamente per rinchiudere i nostri antenati. Nel caso del Cile, dei dieci milioni di ettari del popolo mapuche ne rimase una superficie di circa 500mila ettari a seguito della guerra di sterminio, la cosiddetta Pacificación de la Araucanía, fino ai 350mila del 1960 a causa dell’ulteriore riduzione imposta dai coloni cileni ed europei. Nonostante la realizzazione della riforma agraria, le comunità continuarono a subire il processo di spoliazione sotto la dittatura militare, compresa la negazione dell’esistenza delle comunità nell’ambito del cosiddetto proceso de hijuelizaciòn, che divise le terre comunitarie mapuche (collettive) trasferendole ad un titolo individuale e per questo vendibili a terzi. Il recupero delle terre e il riarmo culturale del nostro popolo è stato fondamentale in un processo di lotta costante e permanente contro lo stato e i coloni cileni ed europei durante buona parte dei secoli XX e XXI. Niente sarebbe stato raggiunto senza la mobilitazione e l’organizzazione del nostro popolo, dove le nostre autorità tradizionali (lonko, autorità politica, machi, autorità spirituale e guaritrice) e i weichafes (guerrieri) sono state vittime di montaggi politici e giudiziari, hanno sofferto la militarizzazione, la repressione e l’assassinio di peñis come Alex Lemun, Matias Catrileo, Jaime Mendoza Collio e José Melinao (Ndt. Si tratta solo di alcuni dei giovani mapuche uccisi dai carabineros cileni dal ritorno in democrazia, rimasti tuttora impuniti). Attualmente, le imprese transnazionali pretendono di sviluppare progetti che attentano agli aspetti fondamentali della nostra cultura ancestrale, a partire dal rispetto della biodiversità, di tutte le vite esistenti sul territorio  (itrofill mogen) e la nostra forma di vivere o Kume mogen (il buen vivir), la nostra spiritualità e la nostra presenza sulla nostra terra, nella nostra Mapu.

 

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L’immagine del luogo sacro mapuche che verrebbe inondato.

 

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