Intervista con Maajid Nawaz su Islam europeo e radicalismi

di KARIM METREF

E’ uscito di recente, per Carbonio Editore di Milano, un libro dal titolo Radical. Scritto dall’anglo-pakistano Maajid Nawaz, è la testimonianza forte e viva di una persona che è scesa fino alla porta dell’inferno, poi è tornata. Un lavoro prezioso per….

… per entrare nei panni di chi ieri e oggi cede alle tentazioni del radicalismo religioso. Perché Nawaz fa parte della prima generazione di musulmani nati in Europa e che hanno abbracciato l’islam politico. Anche se non nella sua versione «gihadista», ma andandoci molto, ma molto vicino.

Nawaaz era al Salone del Libro di Torino per presentare la versione italiana, appena pubblicata, del suo libro già uscito con successo sia in Inghilterra che negli Stati Uniti, Intervistato dalla giornalista Francesca Paci, ha fatto un brillante intervento. Molto utile per ripercorrere la storia recente e capire la complessità della questione. In questi tempi di oblio e di semplificazioni. Quando i così detti «giovani musulmani radicalizzati» si contano a decine di migliaia potrebbe essere utile ripercorrere il sentiero seguito dai primi. Di quando erano ancora poche decine. Quando non erano ancora i nemici dell’Occidente (se mai lo sono diventati) ma servivano a mandare carne da macello in Afghanistan prima, poi in Bosnia e in Algeria.
Benché alcune questioni, secondo me importanti, sono state affrontate in modo superficiale, quando non evitate proprio – ma la perfezione non è di questo mondo – l’incontro è stato nell’insieme molto ricco e utile.
Radical è un lavoro autobiografico che racconta la vita e le avventure dell’autore fra due mondi, con due modi di vedere le cose e di agire. Quello di una inghilterra formalmente democratica ma piena di esclusione e violenza contro le minoranze e quello del sogno di un ritorno alla grandezza dell’impero musulmano: il califfato. E quindi parlando di lui si parla anche del libro.

Come molti libri di narrativa … comincia dalla fine. Una delle prime scene descrite è un banale barbecue party. Ma un barbecue party che si svolge nel giardino della villa texana della famiglia Bush. L’allarme suona subito nella mia testa. Radical doveva essere una storia di uscita da una via sbagliata. Ma qui, forse, siamo passati da un estremo all’altro. Da uno sbaglio all’altro. Per chi come me rifiuta entrambe le violenze: Baghdadi, Binladen, Bush, Sarkozy, Blair… è tutta la stessa roba. Ma per fortuna il libro, nonostante cose molto discutibili, ha tanto da offrire.
Maajid Nawaz nasce in una famiglia di origine pachistana nell’Essex, alla fine degli anni 70. I migranti in quei tempi, fuori Londra, erano pochissimi. L’Inghilterra era attraversata da movimenti razzisti che, poco a poco, diventavano più violenti. Delle bande di Nazi-skin percorrono le strade in cerca di divertimento. Il loro divertimento preferito è il paki-bashing: pestaggio dei paki.
Il percorso è abbastanza classico. Il gruppetto di ragazzi «di colore» che si chiude a riccio per difendersi. Il Rap Americano dei primi 80’. Parole al vetriolo, potere ai neri, odio dei bianchi e del sistema: « Fuck the police” dei NWA è un passaggio obbligato.
Presto però il vento si mette a soffiare dall’Est. La guerra in Yugoslavia cambia la posta in gioco. Per chi è abituato a ragionare in bianco e nero, vittima e carnefice, la guerra balcanica elimina la teoria dello scontro tra bianchi contro «colorati». I bosniaci sono bianchi, europei. Sono uccisi perché musulmani.
Complici i servizi dell’Europa occidentale, i soldi arrivano dai Paesi del Golfo a palate e le organizzazioni religiose girano l’Europa per convincere i ragazzi come Maajid e i suoi amici che lo scontro è un altro: musulmani contro tutti.
Da lì comincia il percorso di Nawaz con l’organizzazione chiamata Hizb at-Tahrir (Partito della liberazione) nata nel 1953 a Gerusalemme e fondata da Taqiuddin al-Nabhani, un intellettuale islamista palestinese. Hizb at-Tahrir (HT) non è una organizzazione armata ma politica che porta avanti la missione della daawa (proselitismo) per la rinascita della Khilafa, il califfato. Il discorso alla base è quello di ogni organizzazione di tipo nazionalista o comunitaria: ce l’hanno tutti con noi, ci trattano male, siamo le vittime, quindi dobbiamo ricostruire un potente impero musulmano per tornare a regnare sul mondo com’era all’epoca dei califfi. Progressivamente Nawaz comincia una carriera di reclutatore e quadro organico dell’organizzazione internazionale. Una attività che porterà per anni. Tutto fila liscio.
Paradossalmente l’uscita dal tunnel comincia quando le cose precipitano. Le torri gemelle, “la guerra al terrore”. Gli amici che diventano nemici. Il carcere in Egitto e poi la mobilitazione per la sua liberazione, in quanto prigioniero di opinione.
Dopo l’uscita dal carcere, cominciò un percorso che lo portò a diventare quello che è oggi: un intellettuale musulmano europeo impegnato nella lotta contro gli estremismi. (Per più dettagli leggere l’ottimo riassunto di Monica Macchi già pubblicato su La Bottega del Barbieri)

A questo punto del racconto, la giornalista Francesca Paci ha riportato il dibattito verso l’oggi: gli attentati, le questioni delle periferie, le migrazioni, i giovani che si radicalizzano. Nella sua domanda si cela tutta la linea della stampa di sinistra europea «per bene». Si tratta di capire se l’Inghilterra nel lasciare crescere i «muslimland», le periferie a maggioranza musulmana, non ha peccato di eccesso di tolleranza, portando questi luoghi a diventare veri e propri vivai per le organizzazioni estremiste. Quindi in un senso: noi siamo i buoni, facciamo venire tutti da noi, diamo loro da mangiare, case popolari, scuole e ospedali e guarda come ci ringraziano. La famosa ingenuità delle democrazie occidentali.
La risposta di Nawaz si è concentrata soprattutto sul ruolo negativo che hanno giocato questi ghetti nell’isolamento e la vittimizzazione dei giovani figli di migranti in genere e di quelli di religione musulmana in particolare.

Invece sui movimenti di lotta democratica nel mondo musulmano, Nawaz – pur ritenendo legittime e giuste le spinte che hanno portato i popoli del mondo arabo a uscire per le strade – considera la strategia delle lotte di piazza sbagliata, visti i risultati in Libia, Siria, Egitto, Yemen. Con l’eccezione della Tunisia, tutti sono ricaduti in situazioni peggiori di prima. La via, dice Nawaz, forse è quella imboccata dall’Arabia Saudita con il nuovo re Salman Bin Abdelaziz, salito sul trono nel 2015 e che sembra avere in programma una democratizzazione progressiva del Paese. Cominciando da piccole cose, come il diritto di partecipazione delle donne alle elezioni locali sia come elettrici che come candidate. Una visione a dir poco discutibile. Anche perchè non considera altri elementi come la continuità dei massacri nello Yemen e della politica dello scontro: Sunniti contro Sciiti.

Alla fine dell’incontro pubblico, mi sono avvicinato e ho fatto un paio di domande a Maajid Nawaz.

D: Nella discussione precedente è stato accennato al fatto che la creazione dei ghetti “muslimland” era dovuta alla troppa tolleranza del sistema inglese. E’ proprio così? O c’è altro?

R: In realtà è una impostazione ereditata dal colonialismo britannico. La gestione dei quartieri popolari era fatta sul sistema dell’impero britannico: la ripartizione per «etnie» e il disinteresse «fin che stanno tra di loro, non ci importa».

D: Come viene accolto dai giovani musulmani europei il suo impegno e il suo discorso diventato laico e liberale?

R: Credo che c’è un momento storico che ha svegliato molti giovani euro-musulmani, e forse anche di altre parti del mondo. Questo momento è l’insorgenza dell’ISIS. E’ stata una specie di choc, che ha fatto capire quanto sia sbagliata quella via. Ci sono ancora ambienti dove il mio discorso è tacciato di collaborazionismo, di tradimento. Ma molti giovani cominciano a riflettere e a porsi delle domande.

D: Non è la prima volta che gruppi integralisti armati commettono orrori. Cos’è cambiato?

R: Sì, è vero. Ma la differenza tra quello che hanno commesso i GIA in Algeria negli anni 90 ad esempio e quello che ha fatto l’ISIS negli ultimi anni è internet. La guerra d’Algeria si è svolta nel buio totale. Con internet la gente è stata messa a confronto direttamente con ciò che l’ISIS intende fare e che fa effettivamente. Quindi, se molti fratelli più grandi sono ancora legati a quella visione, invece ci sono molti giovanissimi, tra i 15 e i 18 anni, che si voltano verso la cultura politica laica e liberale come reazione a quello che hanno visto.
Per la prima volta, da molti anni, ultimamente, i giovani mi fermano per strada e dicono: per favore vai avanti, continua ciò che stai facendo. Io in Gran Bretagna partecipo a molti show televisivi e ho una trasmissione radiofonica in cui parlo un po’ di tutto, politica, società, sanità… e questo fa arrivare il mio discorso a molti ragazzi. E se non tutti sono d’accordo con me riguardo alle questioni della laicità e delle libertà individuali, magari lo sono invece sulle politiche sanitarie o sull’economia e questa è una ottima base per cominciare un dialogo. Quindi sono molto ottimista.

D: Crede quindi che il vento sta cambiando senso?

R: Sì. Assolutamente. Ma non dimenticare che il tempo cambia in continuazione. Soprattutto nel clima inglese. Quindi bisogna stare molto attenti.

D: Un’altra domanda che volevo farti riguarda il rapporto ambiguo tra i Servizi dei Paesi occidentali – Uk e USA in testa- e i gruppi terroristici con i loro principali sponsor, le petromonarchie del Golfo. Crede veramente che la strategia dell’uso dei gruppi radicali come arma sia finita con l’undici settembre?

R: Credo che i Servizi siano una istituzione molto grossa e molto complessa e serve molto tempo per cambiare. Non funzionano sempre in modo omogeneo. Dentro ci stanno varie anime. E sicuramente l’anima che ha messo in atto quella strategia è ancora in vita e attiva. Ma ci sono forte spinte interne all’amministrazione che spingono ad abbandonare quella strategia. Quello che vado dicendo in giro non piace molto a quei reparti dei Servizi, ma loro sono tenuti al silenzio, non possono parlare. Mentre io parlo con la politica. E la politica dà istruzioni ai Servizi. Quindi almeno il dibattito è iniziato. Qualcosa cambia anche a questo livello.

D: Fin dall’esperienza algerina, si sa che spesso gruppuscoli gihadisti erano in realtà usati direttamente dai Servizi. Anche se i singoli militanti erano convinti di combattere il regime. Io mi sono sempre chiesto, come fanno a non accorgersi di fare esattamente quello che il loro nemico vuole da loro? E questo vale anche per i gruppi terroristici internazionali.

R: Questo è uno degli argomenti che usa HT per convincere i giovani a rimanere nella sua sfera islamista e non passare alla sfera detta «takfiriya» che è quella ancora più estremista. Il discorso è: guardate in Algeria, come i Takfiri sono stati usati. Il governo li ha spinti a commettere atrocità, così si sono rovinati da soli. Il governo algerino è riuscito a distruggerli dall’interno, creando una guerra intestina. I gruppi hanno cominciato a tacciarsi a vicenda di apostasia e uccidersi… etc.
Oggi, tutti i servizi del mondo sanno usare un gruppo radicale religioso e non. Ma questo discorso vale principalmente per i gruppi più estremisti. Il movimento islamista nel suo insieme è molto complesso e se alcuni “reparti” possono essere usati, altri sono molto organizzati, furbi e sono loro che usano il sistema.

Karim Metref
Sono nato sul fianco nord della catena del Giurgiura, nel nord dell’Algeria.

30 anni di vita spesi a cercare di affermare una identità culturale (quella della maggioranza minorizzata dei berberi in Nord Africa) mi ha portato a non capire più chi sono. E mi va benissimo.

A 30 anni ho mollato le mie montagne per sbarcare a Rapallo in Liguria. Passare dalla montagna al mare fu un grande spaesamento. Attraversare il mediterraneo da sud verso nord invece no.

Lavoro (quando ci riesco), passeggio tanto, leggo tanto, cerco di scrivere. Mi impiccio di tutto. Sopra tutto di ciò che non mi riguarda e/o che non capisco bene.

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