Jackson, un acrobata nel Sahel

Tre articoli del missionario Mauro Armanino che dall’aprile del 2011 si trova a Niamey, capitale del Niger

Jackson, un acrobata nel Sahel

A 13 anni ha vissuto la sua prima acrobazia. La guerra in Liberia del ’92 l’ha fatto fuggire con la famiglia in Costa d’Avorio e poi in Ghana. Durante il soggiorno nel campo profughi di Accra nel Ghana ha scoperto la sua vcazione di artista funambolo che avrebbe poi perfezionato col tempo nelle vicende della sua vita. Lui, pendolare tra la Libia, l’Algeria, la Nigeria, il Ghana, il Togo, il Benin, la Costa d’Avorio e il Niger come terra di transito permanente. Jackson si trova a Niamey da quasi due mesi e non ha ancora trovato lavoro.

Vivere nel Sahel è un’esperienza di quotidiana acrobazia tra le precarietà. Il raccolto dei contadini dipende dalla costanza e dalla fedeltà delle pioggie. La scuola per i bambini e l’università per gli studenti è in funzione del pagamento degli stipendi dei docenti. Il traffico sulle strade della capitale si regola sull’ora dei ritorni dei numerosi viaggi al’estero del presidente. Il lavoro, poi, è l’improbabile lotteria che i pochi fortunati hanno l’opportunità di vincere ma, quanto al salario, quello, è un’acrobazia unica per ottenerlo.

Tra un’acrobazia e l’altra Jackson ha incontrato in Nigeria la madre dei suoi quattro figli. Col passaporto in Costa d’Avorio e gli altri documenti sequestrati dalla polizia in Algeria non ha un’identità da esibire all’improbabile datore di lavoro. E’ giusto tornato dalla stadio dove ha proposto i suoi servizi di preparatore atletico all’allenatore di una squadra di ginnastica inesistente. In Libia e in Algeria lavorava nelle piazze senza dare troppo nell’occhio e lì camminava sulla fune tesa tra due pali di legno a poca altezza dal suolo.

I migranti pure sono acrobati che si esercitano a camminare sui fili spinati e i muri di cinta delle politiche europee di esclusione. Sono funamboli tra permessi di soggiorno temporaneo, documenti di espulsione e passaporti scaduti. I diritti umani fanno acrobazie fra i tribunali, le dichiarazioni universali scritte sulla carta e i poteri costituiti sulla sabbia. I politici, infine, sono funamboli e passano da un partito all’altro e da una coalizione all’altra secondo le convenienza pecuniarie. Fare politica in queste condizioni è temerario.

La vita di Jackson è la storia di un’acrobazia senza fine. Dappertutto dove andava costituiva un piccolo gruppo di artisti che lo accompagnavano negli spettacoli all’aperto. La fune si trovava anche alle frontiere e lui, Jackson, come un funambolo, le traversava passando da un Paese all’altro senza sosta. A quarant’anni cerca un lavoro per mantenere la famiglia nel frattempo cresciuta. Janet, nome ebreo che significa che Dio fa grazia, è la madre che lo ha graziato con quattro figli i cui nomi sono come una commedia dell’arte.

Nel Sahel più che altrove le preghiere fanno acrobazie tra i minareti delle moschee e i campanili assenti delle chiese. Le moto dei cortei dei matrimoni fanno acrobazie tra le auto, i cammelli in sosta e gli asini, i re della strada, che tirano carretti di legna da ardere o fieno per gli ovini di città. Trovare un documento negli uffici è un gioco acrobatico che può occupare giorni o settimane. Attraversare le strade della capitale in assenza di passaggi pedonali è un esercizio che solo i funamboli possono eseguire a loro rischio e pericolo.

Il più grande dei suoi figli, undicenne, si chiama Wisdom, Saggezza. Il secondo è una bimba che la madre ha chiamato Blessing, Benedizione. Il terzo è un’altra bimba che lui stesso, con una certa conoscenza della vita, ha battezzato Patience, Pazienza. L’ultimo arrrivato, con appena un lustro di vita, è stato chiamato David, Davide. Nessuno di loro possiede la garanzia di essere nato davvero perchè i loro documenti, come quelli dei genitori, sono stati sequestrati dalla sabbia del deserto. Anche possedere la cittadinanza è un’acrobazia.

Jackson aveva 13 anni quando la guerra in Liberia lo ha trasformato in acrobata e lui, da quel momento, danza sulla fune della dignità che nessuno gli ha ancora rubato.

Mauro Armanino, Niamey, marzo 2019

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La foto di famiglia della ministra Trenta. Ultime notizie dal Sahel

Adesso va di moda. Anche in Francia il ministero della difesa è al femminile. L’Italia non è da meno e dopo la Roberta Pinotti è il turno di Elisabetta Trenta. Spiace davvero che il femminismo si sia poi tradotto in termini di pari opportunità militari. Magari, per la salvaguardia della differenza di genere, introdurranno una fascia rosa ai militari e alle armi che dovrebbero aumentare di numero e in qualità con buona pace dell’Italia costituzionale. L’approccio, lui, è in piena contininuità coi governi precedenti, da Paolo Gentiloni in poi la musica nel Sahel non cambia. Sfacciatamente militaristi all’estero come in patria, in entrambi i casi, si afferma, per legittima difesa. Così infatti, per stravolgimento colpevole della realtà, colei che presiede alle scelte miltari della penisola, ha legittimato l’impegno crescente dell’Italia in Niger. I due Paesi, secondo la Trenta, sono entrambi confrontati a sfide comuni: il terrorismo e la migrazione clandestina. Appare dunque del tutto giustificato, per la ministra, che l’Italia si coinvolga al fianco di un alleato strategico come il Niger, primo paese al mondo per gli aiuti ricevuti. Tutto questo e altro appaiono evidenti nella foto di famiglia pubblicata dal quotidiano governativo ‘Il Sahel’. Nella foto la ministra si trova, in abito civile, tra il Presidente Mahamadou Issoufou, il direttore delle cerimonie e, naturalmente, l’ambasciatore italiano.

Nello stesso giornale, il giorno prima, la ministra Trenta appare nella foto in tenuta militare, mentre porge un pacco- dono al ministro della difesa del Niger, Kalla Moutari. Si tratta dell’ultimo, per ora, della serie che, come ha ricordato la signora Trenta, ha visto l’Italia offrire ben otto regali al governo del Niger in un tempo relativamente breve. Quest’ultimo, del valore di 167. 167 euro, è costituito da materiale medico per le forze armate nigerine. Pacchi e regali in cambio della presenza accettata e financo gradita di militari italiani nel Paese. Due foto per due Italie, copie sbiadite eppure reali dell’attuale Paese, entrambe false. Falsa quella in tenuta militare tra i militari, inutile e oltraggiosa nel contesto di un Sahel che di tutto ha bisogno meno che di armi e militari. Uniformi ridicole e inutili come quelle indossate da uno dei vice primi-ministri della Republica italiana. Pompiere, guardia mascherata, vigile o arlecchino di una politica da strapazzo in un paese che galleggia sulle ceneri della democrazia, eppure portante, della sua costituzione. Militari col pacco dono che suona come un offesa al buon costume delle tradizioni del Sahel. L’immagine rituale di un sistema che da un lato bastona e dall’altro carezza col mondo umanitario da tempo ostaggio delle politiche espansioniste del neoliberalismo selvaggio.

L’altra foto, invece, è quella di famiglia, con il vestito che conviene al palazzo. E’ falsa anche quest’ultima. Non si tratta di una foto di famiglia perchè Elisabetta Trenta non conosce la famiglia del popolo nigerino. Non sospetta che ciò che ci accumuna non è la lotta al terrorismo o alla migrazione clandestina. Ciò che ci unisce è quanto lei non ha notato perchè non le interessava immaginarlo. La sabbia è quanto abbiamo in comune noi e lei, arrivata giusto alla fine del mese più corto per non perdere tempo. Non ha visto il dolore che solo la sabbia sa custodire per chi viene con le mani vuote per ricevere e non per fingere di dare. Nella foto di famiglia mancavano i grandi protagonisti del Sahel, gli invisibili che nel silenzio gridano il parto di un mondo differente. Nella foto non apparivano i bambini, le madri, i contadini e i migranti irregolari che lei è venuta per combattere. Questi e altri sono coloro che alla ministra della difesa non interessava incontrare. Avrebbero potuto scompaginare le cerimonie protocollari di una visita finalizzata ad imbrogliare la vita dei poveri. La sua non era una foto di famiglia ma l’inutile ricordo di una visita che la sabbia ha provveduto a seppellire il giorno dopo, senza rimpianto.

Mauro Armanino, Niamey, marzo 2019

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Compatibili, incompatibili e scartati. Il muro numero 78 è nel Sahel

Quando quello di Berlino cadeva a pezzi per i collezionisti erano giusto 15. Alla fine della seconda guerra mondiale i muri recensiti erano appena sette. Dal 1989 ai nostri giorni i muri ufficiali sono, secondo la geografa Elisabeth Vallet, almeno 77. Un numero già surclassato in conseguenza dei prossimi avvenimenti nelle geopolitiche mondiali. Quello di Trump, ai confini del Messico, non è che l’epilogo di una lunga storia iniziata prima di lui. I muri sono simboli che organizzano a loro maniera il tipo di mondo che si vorrebbe abitare. Compatibili, incompatibili e soprattutto scartati. A questo serve l’edificazione dei muri i cui mattoni sono aggiunti da volenterosi operatori di divisioni di classi e di mondi. I materiali di costruzione dei muri sono i più disparati e rispecchiano insieme continuità e innovazione. Da muri elettronici con sensori a quelli di filo spinato, ormai un classico da manuale, al cemento, alla sabbia, al mare, al cartone e alle parole. Questi materiali e altri più o meno nobili sono all’opera per congiungere fantasia e spietatezza al messaggio che si vuole veicolare a cittadini impauriti da mezzi di comunicazione assoldati dal potere. Sono passati quarant’anni dal celebre pezzo eseguito dai Pink Floyd, ‘Another Brick in The Wall’, un altro mattone nel muro. Quarant’anni di esseri umani scartati perchè incompatibili col mondo che verrà.

Di quello di Berlino si è detto sopra. Rubato e portato via a pezzi dipinti è diventato il pegno dell’unione delle due Germanie nell’anno seguente, il 1990. La Guerra Fredda terminata sembrava che anche i muri diventassero come la ‘Grande Muraglia’cinese. Reperti turistici e inutili cimeteri delle dinastie che si sono succedute nell’Impero di Mezzo. Quanto al muro di Trump non è che l’edizione, rivista e allungata, di quanto i suoi predecessori hanno iniziato fin dal 1990 con George Bush padre. Tra India e Pakistan e Bangladesh ci sono centinaia di kilometri di filo spinato contro l’immigrazione e per ragioni di sicurezza di stato. Quanto a Israele, terra promessa per qualcuno e disperazione per altri, ha giustificato una serie di muri per la propria incolumità. Palestinesi e punti d’acqua da un lato e divieto di transito di migranti nel deserto del Sinai dall’altro.

A Belfast, nell’Irland del Nord, il muro della pace separa cattolici e protestanti, unionisti e repubblicani, storie e tradizioni incompatibili. In Finlandia centinaia di kilometri di filo spinato ipediscono la migrazione delle renne verso un altro regime politico. In Francia è a Calais che un muro protegge l’accesso al tunnel che congiunge il Continente con il Regno Unito. Il Marocco offre alla storia un vallo lungo centinaia di kilometri con milioni di mine come segno di appropriazione di una parte del Sahara Occidentale. E la Spagna ha edificato barriere di muri e reti a protezione della sua sovranità su Ceuta et Melilla, entrambe in territorio marocchino, L’Arabia Saudita ha costruito centinaia di kilometri di muro al confine con l’Irak e nell’isola di Cipro un muro separa il possedimento turco e quello greco. Tutti tra loro incompatibili fino a formare un labirinto di chiodi.

Il muro numero 78 abbiamo il privilegio di possederlo nel Sahel. Invisile e reale pedina come un’ombra coloro che rifiutano di essere buttati tra gli scarti. Incompatibili col sistema di rapina del futuro e ostili ai crimini contro la storia si avventurano, come esodanti, sui confini armati del deserto che ne cancella le impronte. Un muro che si muove mano a mano che i migranti avanzano verso la terra altra, fino a costituire un mondo di esclusione. I ‘compatibili’ si trovano per buona sorte dall’altra sponda, resi docili, come scrisse Etienne de la Boétie nel lontano 1576, da una vera e propria schiavitù volontaria. Dello stesso muro numero 78 sono parte integrante le armi, i gruppi di mercenari e i grandi commercianti di droga che prosperano nel Sahel con l’avallo dei politici. L’incompatibilità dell’integrazione nel mondo così concepito, trasforma soggetti liberi in scarti potenziali, per i quali si drizzano i muri mobili dei respingimenti al mittente via mare.

Senza dare nell’occhio gli incompatibili in seguito scartati, scavano tunnel, gallerie, cunicoli e sentieri sotterranei da dove, irregolare, passa il mondo nuovo.

Mauro Armanino, Niamey, febbraio 2019

 

 

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