Ken Saro-Wiwa: Garga

Garga se ne stava davanti alla più grande delle sue capanne. Sentiva le voci delle sue mogli venire da qualche parte nel cortile interno. Pensando a loro, un brivido gli corse veloce su per la schiena. E quando le grida dei suoi bambini che giocavano nel cortile giunsero vaghe alle sue orecchie, si sentì colmo di felicità. Sette figli. Ah, Allah era stato buono. Se solo potessero vivere e crescere e diventare uomini e donne forti, invece di morire come era successo agli altri cinque. Sette figli da quattro mogli – e stavano giocando tutti insieme, in armonia. Le loro madri non litigavano quasi mai. «Nella mia casa regnano pace e concordia» pensò Garga. Si sentì grato ad Allah. «Che Allah possa donarci una lunga vita» pensò.

La sera era fresca e dolce. Il sole che s’immergeva all’orizzonte fendeva il cielo con lingue rosse come sangue. Una tale bellezza si aggiungeva alla felicità e alla pace interiore che Garga provava. Quando risuonò il richiamo alla preghiera, si avvolse nella sua lunga veste, prese il recipiente d’acqua che la sua prima figlia gli aveva portato e si immerse nelle sue preghiere.

Garga era un uomo semplice e semplice era la sua preghiera. Chiedeva solo che vi fosse pace in casa sua e a Kano; che la sua famiglia avesse abbastanza da mangiare giorno dopo giorno. Allah, nella sua infinita saggezza, avrebbe provveduto. Quando finì di pregare, il sole era completamente scomparso, ma il cielo a occidente manteneva un’intensa sfumatura rosso sangue. L’oscurità s’insinuava da Sabongari, il quartiere abitato dagli stranieri.

Garga si ricordò improvvisamente che avrebbe voluto comprare delle caramelle alla menta a Sabongari. Là si poteva acquistare di tutto dagli stranieri che commerciavano e possedevano grandi negozi e grossi alberghi. Aveva molti amici tra gli stranieri; alcuni li conosceva da quando era bambino e correva a piedi nudi per le strade di Kano. Garuba Okeke, proprietario di tre grandi negozi e due alberghi, era uno di questi. A prima vista, non avresti detto che Garuba fosse ricco. E molti non lo sapevano nemmeno. A Garga era stato lo stesso Garuba a confidarlo di fronte a una bottiglia di birra in uno dei suoi alberghi. E Garga si era sentito pieno di ammirazione per quel giovane uomo così benedetto da Allah. Garga aveva chiesto una birra e Garuba gli aveva offerto non una, non due, bensì tre bottiglie quella sera. «Kai!» aveva pensato. «Allah nella sua infinita bontà ha benedetto Garuba». Non aveva provato la minima invidia per un giovane così capace. Per un attimo, era tornato col pensiero al suo cortile, aveva rivisto i suoi sette figli e si era immaginato tra loro. Si era sentito felice. «Ad alcuni, Allah dà il denaro; ad altri, i figli. Allah è buono» aveva pensato mentre riprendeva a bere dalla bottiglia.

Guardando il suo taciturno amico da vicino mentre gli raccontava dei propri successi negli affari, Garuba Okeke non aveva trovato alcuna traccia d’invidia. Non un segno corrugava la fronte di Garga. Piuttosto gli era sembrato che Garga ne fosse contento. E Garuba aveva osservato tra sé: «Ecco la differenza tra noi e loro. Non potrei parlare dei miei affari con Okoye, che viene dalla mia stessa città, che è mio fratello, senza fargli provare un minimo di invidia. Invece Garga è contento per me». E provò una gioia intima per la natura gentile di Garga. Un altro pensiero (potenzialmente distruttivo, come un fulmine) gli attraversò la mente: «Perché non è invidioso nemmeno un po’? E dire che non ha neppure dei soldi da parte per i tempi duri! Idiota! Idiota!» Ma scacciò subito quel pensiero. La sua prima reazione riuscì a prevalere e lo fece sentire in perfetta sintonia con Garga. Il suo cuore si aprì calorosamente all’amico. Aveva cambiato nome da Sylvanus Okeke in Garuba quando aveva abbracciato la religione musulmana. A lui importava il fatto di essere un musulmano con un nome hausa.1 Aveva pensato che cambiare nome lo avrebbe fatto sentire diverso, ma fondamentalmente non era cambiato niente. Nel profondo era rimasto sempre Sylvanus Okeke, con le sue radici nel Sud. Ma i suoi affari andavano sempre meglio. Era una ricompensa sufficiente, come si ripeteva spesso.

Garga percorreva sempre l’intera distanza fino alla casa di Garuba immerso in uno stato di serena contemplazione. Non era tipo da affrettarsi in modo poco dignitoso, per nessun motivo. Non vedeva l’ora di godersi quei momenti di tranquilla conversazione con il suo amico d’infanzia. Lo faceva da anni. Ed era con quello spirito che adesso si stava mettendo in cammino verso Sabongari.

C’era qualcosa di particolare a Sabongari che Garga non aveva mai capito. Ogni cosa aveva un ritmo più rapido che nella città dentro le mura. Lì gli uomini erano di gran lunga più svegli, scherzavano insieme a te, oppure ridevano di te apertamente al minimo errore che commettevi e ti consideravano facilmente un idiota. Ma erano intraprendenti. E Garga adorava il modo in cui riuscivano a rendere più piacevole la vita con le loro chiacchiere e la loro confusione. Era una gioia lasciare la tranquillità delle mura cittadine una volta al giorno per assaporare la velocità, la modernità, la sfacciata rudezza di Sabongari: come una tartaruga che all’improvviso fa guizzare la testa fuori dal riparo tranquillo del suo guscio, getta il suo saggio sguardo sul mondo e poi si ritira nuovamente nel guscio per tornare del tutto inattaccabile.

Garuba una volta gli aveva raccontato che gli abitanti di Sabongari venivano da Paesi diversi, proprio come alcuni venivano da Kano e altri da Yola. Ma Garga non riusciva veramente a capire. Tutti quelli che vivevano a Sabongari erano “stranieri”. Era chiaro. Come era chiaro che Garuba fosse suo amico. E che Okoye era fratello di Garuba, anche se sembravano diffidare l’uno dell’altro. Di nuovo, Garga non sarebbe mai stato in grado di capire questa cosa. Garuba una volta gli aveva confidato che Okoye era invidioso della sua ricchezza. «Ma è tuo fratello» gli aveva risposto Garga. E Garuba era rimasto in silenzio, assorto nei suoi pensieri. Garga, che era taciturno per natura, non aveva aggiunto altro, anche se trovava strano che degli uomini che si erano trasferiti così lontano da casa per farsi una vita provassero invidia tra loro. Ma forse gli stranieri erano fatti così.

Probabilmente era per questo che gli antenati avevano costruito un muro tra Sabongari e la città vecchia. Il muro era una barriera fisica, per separare gli uni dagli altri. Ma assumeva un aspetto ancor più sinistro, come un muro eretto nel cuore degli uomini dalla lingua, dalla religione e dalle usanze. Da entrambe le parti al di là del muro c’era qualcosa di perenne, una diffidenza quasi impossibile da sradicare, un rifiuto di trovare un compromesso, un rifiuto di comprendersi, di comunicare. Il muro garantiva pienamente la pace e la tranquillità della città, così palesemente fragile a un occhio esterno. All’ombra del muro si celavano tensioni che ribollivano nell’accecante calura di mezzogiorno e rifiutavano di assopirsi al tramonto del sole. Tensioni tremende che si radicavano e assumevano un aspetto grottesco, in quanto non erano mai oggetto di discussione per gli uomini al di là e al di qua del muro. Garga desiderava spesso che quel muro non esistesse. Le incursioni per far visita al suo amico sarebbero state più frequenti. Ma il muro esisteva veramente, minaccioso e potente.

Quando Garga arrivò a Sabongari, era già calata la sera. I lampioni brillavano vivacemente, proiettando a terra grandi ombre danzanti. Soffiava un vento leggero e Garga incrociò la gente che tornava dal mercato. Erano tutti di buon umore, canticchiavano, fischiettavano; c’era addirittura qualcuno che danzava. Gli altoparlanti facevano risuonare dai vari negozi la loro caotica sinfonia. E negli alberghi si mandavano giù i primi sorsi di birra fredda. Le donne che popolavano gli hotel stavano sulla soglia, coi volti truccati e stanchi, e stuzzicavano Garga e altri passanti. Offrivano una vasta scelta. Chi le pagava per i loro servizi era spesso pienamente ricompensato da queste donne costose e piene di risorse, audaci ed efficienti nel loro commercio. Delle volte Garga accettava le offerte di queste signore del Sud. Allora per lui era sempre l’apice della gioia. Queste donne esotiche, moderne, delle volte giovani, che ti facevano gli occhi dolci quando le incontravi, che fumavano, bevevano e danzavano felicemente, erano così diverse da quelle che si tenevano in casa, avvolte nei loro purdha.2

Ma quella sera Garga non era dell’umore giusto per questi sollazzi. Aveva pochi soldi in tasca; e poi le voci dei suoi figli che giocavano in cortile gli risuonavano ancora nelle orecchie. E gli passarono davanti agli occhi i volti dello loro madri. Si sentì felice. «Possa Allah mantenerli sani e forti».

Affrettò il passo e, poco dopo, arrivò in casa di Garuba in Abeokuta Street. Il negozio era chiuso. Bussò alla porta. Nessuna risposta. Bussò nuovamente, questa volta più forte. E di nuovo nessuna risposta. Era la prima volta, per quanto riusciva a ricordare, che trovava il negozio chiuso di sera. Si sedette sui gradini ad aspettare. Per un bel po’ non successe nulla. Di Garuba neanche l’ombra. Garga cominciò a preoccuparsi.

L’unica figlia di Garuba, Titi, corse fuori dal retro della casa, battendo allegramente le mani e danzando. Quando vide Garga, si arrestò all’improvviso e corse dentro casa. Garga non riusciva a capire. Aveva un buon rapporto con la piccola. Più di una volta l’aveva presa in braccio cantandole una canzone hausa. Ed era sempre rimasto colpito dalla sua vivacità, dal modo in cui si rannicchiava accanto a lui e lo ascoltava attentamente. Ma quella sera, la bambina era scappata come se avesse visto un lebbroso.

E, per la prima volta, il negozio era chiuso. Si era alzato un vento freddo. A eccezione del clacson di qualche taxi di passaggio e del rumore di sottofondo degli alberghi, attorno al negozio regnavano pace e tranquillità. Titi era scappata via. E il negozio di Garuba era chiuso. Cose da nulla, prive di conseguenze. Ma Garga non riusciva a capire perché le prendeva tanto sul serio. Nessuno sforzo di volontà, per quanto forte, avrebbe potuto scacciare quei pensieri sinistri che gli attanagliavano il cuore. Si preparò ad andarsene. Premonizioni. Pensò ai suoi sette figli. A quell’ora dovevano aver già cenato e stavano ormai per addormentarsi profondamente assieme alle loro madri. «Allah, prenditi cura di loro per me…» pregò.

Decise di tornare in città. Mentre camminava, vide Okoye dirigersi a grandi passi verso la casa di Garuba.

«Salve» disse Garga.

Okoye grugnì.

«Hai visto Garuba oggi?»

Nessuna risposta. Okoye era sempre stato un tipo strano, comunque.

«Sai dov’è andato Garuba?»

«No». Rispose con grande aggressività, brontolando un’imprecazione.

Gli passò accanto, lo sguardo fisso al terreno, brandendo con la mano destra qualcosa che Garga non riuscì a identificare.

Garga si sentì il cuore in gola. Affrettò il passo. Il vento freddo cominciò a soffiare più forte, gettando qua e là i lembi sciolti della sua tunica. La strada per la città era quasi deserta.

A Sabongari, gli altoparlanti si erano azzittiti e la gente si era raccolta in piccoli gruppi davanti alle case. Garga fu colto dalla paura. Il suo primo impulso fu di scappare, ma il buon senso gli suggerì di non farlo. Allungò il passo. Poi incrociò delle persone che camminavano verso la città ad andatura normale e si sentì sollevato, disteso.

Finalmente le mura. Tirò un sospiro di sollievo. Le mura si ergevano impenetrabili, protettive. Quella notte, proiettavano tutt’intorno la loro lugubre ombra nera. Separavano la città da Sabongari; una barriera costruita dagli uomini, che assumeva adesso l’aspetto severo di una divinità, guardiano fidato che divide e protegge dal pericolo chi lo ha creato. Una volta oltrepassate le mura, Garga si sentì al sicuro. Al di là del muro, era come un’ombra, nient’altro che uno straniero come gli uomini di Sabongari. Aveva sempre trovato la via di casa orientandosi grazie alla cupola della moschea. Ma quella sera, nell’oscurità, non riusciva a distinguerla. Scelse attentamente la strada da percorrere, con calma, e fu presto a casa. I suoi figli erano al sicuro nei loro letti. Paure ingannevoli avevano bussato alla porta del suo cuore e lui si era lasciato sopraffare. Provò vergogna.

Si mise a letto, ma non riusciva a prendere sonno. Un alone rosso scuro danzava incessantemente davanti ai suoi occhi, nell’oscurità. Sentiva il suo cuore battere… battere… il ritmo della paura. Paura immotivata. L’odore malsano di escrementi esalava dalla latrina da qualche parte vicino alla sua capanna. Si tappò il naso e sputò in un angolo della stanza. E, come se quel fetido odore avesse avuto un effetto soporifero, si addormentò.

Quando si svegliò, la città era in fermento. Era stato un lamento profondo, come di una donna in travaglio, ad averlo svegliato.

Non c’era modo di sapere che ora fosse. La capanna era avvolta nella completa oscurità. Uscì all’aperto e il lamento diventò un brontolio, e il brontolio pian piano si mutò in frastuono. Diversi uomini, dei quali non distingueva i volti, gli passavano davanti veloci, in silenzio. Non rispondevano al suo saluto. Altre persone lo superarono, piegando verso la porta della città. Che significava tutto ciò? Una volta, tanto tempo prima – aveva vent’anni allora – era successa la stessa cosa, in pieno giorno. C’era stato lo stesso flusso verso la porta della città, e a questo era seguito l’orrore. Ancora oggi, in età matura, si stringeva nelle spalle al ricordo di quel periodo terribile, quando gli uomini avevano gli occhi iniettati di sangue e l’orgoglio piegava i loro cuori, rendendoli sordi al messaggio di Allah. Aveva pregato, allora, che niente del genere accadesse un’altra volta. E Allah aveva ascoltato la sua preghiera – per quasi due decadi.

La città piombò nel silenzio. Nessuno gli passava più accanto. Ma da lontano, da Sabongari, un fragore, come onde che si infrangono violente sulla sponda, come il ruggito di un leone in agonia, gli scoppiò nelle orecchie. Acuì i sensi e udì il fragore dell’acciaio e le grida della battaglia. Corse alle porte della città. Erano barricate. La prima, la seconda, la terza. La sua mente tornò all’ultima che aveva usato. Lì si trovò davanti delle guardie silenziose e scure in volto, che lo lasciarono passare. Iniziò a correre; nell’aria fredda del mattino, la sua fronte si coprì di sudore.

Aumentò l’andatura man mano che si avvicinava a Sabongari. Incontrò degli uomini vestiti di tuniche fluenti, con espressioni dure e malvagie sul volto, che correvano armati con mazze e lance, bottiglie rotte e pietre, archi e frecce, gli occhi puntati su Sabongari.

«La battaglia è iniziata… la battaglia è iniziata» ripetevano incessantemente. All’improvviso proruppero in un forte grido: «Morte agli infedeli! Morte agli infedeli!»

Cos’era accaduto alla gente di Kano? Dov’era Allah? E li avrebbe salvati dall’ira che sicuramente si sarebbe abbattuta su di loro? «Allah, Allah, Allah» invocò nel suo cuore mentre si affrettava verso Sabongari. «Morte agli infedeli!» Il grido saliva riecheggiando nell’aria della notte. Lo stesso che aveva sentito in gioventù!

Morte agli infedeli? Ma chi erano gli infedeli? Gli uomini di Sabongari pregavano Allah alla loro maniera ogni domenica. Garuba si recava alla moschea ogni vener… Garuba? La sua mente tornò alla sera precedente – quando aveva trovato il negozio chiuso. Garuba stesso non era lì e Titi si era rifiutata di andare da lui. Sempre lo stesso diabolico grido si levò nel cielo notturno. «Morte agli infedeli!» Garga sentì il sangue gelarsi nelle vene. La battaglia era cominciata.

Uomini armati di bastoni, archi e frecce, alcuni a petto nudo, altri appena vestiti, si stavano dando battaglia, brandendo le loro armi temerariamente, puntando alle teste, ai cervelli, ai petti di altri uomini, che a loro volta rispondevano ai colpi. Sassi volavano per aria. Non erano diretti a nessuno in particolare, ma a caso nella folla. Il risultato che ottenevano: uno strillo, un grido straziante e sangue umano. Garga non riusciva a capire il perché. Il suo unico desiderio era di raggiungere la prima linea, di fronteggiare i combattenti e di appellarsi al loro buon senso.

Corpi giacevano a terra, con la testa rotta o tagliata; sangue, sangue umano, macchiava il terreno sabbioso. Dovunque c’erano uomini che perdevano sangue, ma continuavano a combattere con uno sforzo sovrumano per ferire e uccidere. Quando si fece largo tra loro, il sudore gli coprì il naso e le guance e formò piccoli rivoli nelle pieghe del collo. Bastoni, sassi e bottiglie attraversavano incessantemente l’aria; per ogni oggetto che veniva lanciato, uno spaventoso grido esplodeva nelle sue orecchie e un brivido gelido gli correva lungo la spina dorsale. Più avanzava tra la folla, più si faceva chiara l’inutilità del suo sforzo. Nessuno avrebbe dato retta alle sue parole e lui stesso avrebbe potuto essere ucciso da uno di loro; non avrebbe potuto far nulla di buono in mezzo a tanta malvagità.

Ancora una volta la sua mente tornò a Garuba e a sua figlia Titi. In quell’istante realizzò qual era il suo vero compito. Avrebbe dovuto salvare il suo amico di una vita. Tutto a un tratto, si sentì come se Titi fosse una delle sue figlie; e in quel momento sentì che per lui la sua vita era più importante che mai.

La folla che brandiva machete e proiettili di ogni genere svanì davanti agli occhi di Garga, che smise di sentire quei canti che facevano gelare il sangue e di vedere quelle facce bestiali, spettrali, indemoniate. Al loro posto, c’era Titi con un vestito semplice, indifesa, che non capiva cosa stesse succedendo. Si mosse verso di lei, sprezzante del pericolo. La folla si fece da parte, liberandogli un passaggio. Una pietra lo colpì sulla nuca, ma lo fece appena sussultare. Continuò ad avanzare fermamente. I combattenti in questa carneficina, in questa inspiegabile follia, si facevano da parte quando lo vedevano, disarmato, che li superava a grandi passi. E lui vedeva Titi col pensiero, innocente e indifesa. La mente tornò ai suoi sette figli, che dormivano pacificamente nelle capanne delle loro madri. «Allah, proteggili» pregò. Man mano che si avvicinava ad Abeokuta Street, la folla si addensava. Garga, il gigante bruno, con una corporatura ben più grande del normale, spinto dall’amore per un amico che conosceva da lungo tempo, si fece largo tra la folla in combattimento e presto giunse alla sua destinazione.

Il negozio di Garuba era ancora chiuso. Ma Titi era nel vicolo che divideva il negozio dalle stanze dove viveva l’amico. La piccola giaceva lì, faccia a terra, con i vestiti tutti in disordine. Garga si precipitò ansiosamente verso di lei e fu sollevato quando scoprì che non c’erano tracce di sangue. Probabilmente era viva e illesa. L’avrebbe presa in braccio e portata in salvo nelle mura cittadine. Poi sarebbe tornato a cercare Garuba.

Appena si piegò per sollevarla, la porta della casa di Garuba si spalancò. Garga si voltò e si trovò faccia a faccia con Okoye. Aveva un aspetto terribile. Era nudo e il suo volto era coperto di sangue umano. Okoye, spettrale e sinistro, con un lungo coltello in mano. Garga indietreggiò per l’orrore. Subito dopo, si chinò rapidamente e prese Titi tra le sue braccia possenti. In quello stesso momento, il lungo coltello di Okoye guizzò lucente e un colpo netto recise la testa di Garga dal corpo.

Garga cadde all’indietro, stringendo ancora il corpo spossato, senza vita di Titi. E Kano giacque silenziosa e morta, il raccolto di un Dio irato.

BREVE NOTA

Con l’autorizzazione delle Edizioni Socrates (www.edizionisocrates.com, 06 5895895) riprendo questo racconto dalla splendida antologia “Foresta di fiori” (180 pagine per 10 euri) pubblicata nel 2004. Credo che alcuni dei racconti di quel libro- in particolare “Viaggio notturno” –  siano da inserire in una ideale antologia del meglio del meglio del meglio… del racconto. Di sicuro, ogni volta che sento parlare della Nigeria io penso a due frasi, che ho letto lì: “maledisse gli dèi che non prosciugavano pozzi” e “tornavamo indietro, verso il colonialismo”.  Qualcosa di Ken Saro-Wiwa e della Nigeria ho già scritto su codesto blog e altro vorrei scrivere (e naturalmente chiedo aiuto anche ad amici e amiche della Nigeria). Da parte mia ribadisco solo due cosette, come scrissi sulla rivista “Pollicino Gnus” (nel febbraio 2006). La prima è che a rubare un po’ del petrolio nigeriano c’è anche la “nostra” Agip-Eni;  la seconda è che per quanto sia detestabile l’idea – sconfitta dalla storia ma prima ancora dalla ragione – di una “dittatura del proletariato” non per questo il mio cuore e la mia testa riescono a trovare meno orribile e sanguinosa “la dittatura del petrolierato” sotto la quale ci tocca di vivere. (db)

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

2 commenti

  • Spiazzante favola nera, ma non posso fare a meno di pensare a Garga che nonostante abbia 4 mogli s’intrattiene pure con ammiccanti battone. Ciò che gli capita sembra quasi una forma di contrappasso ‘capitalistico’ .

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