Kurosawa: una vita da genio e una morte da samurai

di Francesco Bernabini

Akira Kurosawa (黒澤 明 e anche 黒沢 明) è nato a Tokyo il 23 marzo 1910.

È stato uno dei più importanti e influenti registi del XX secolo, autore di decine di film oltre che sceneggiatore, montatore, produttore cinematografico e scrittore. E genio. Kurosawa discende da una nobile famiglia di samurai e i suoi film più famosi sono ambientati proprio nel periodo feudale, quello degli shogun e dei samurai che in Giappone, così dicono gli storici, terminò nel 1868. Se Akira Kurosawa è nato – forse – come tutti i bambini, come morì in realtà? Sì sa che la sua morte avvenne a Tokyo il 6 settembre 1998. Ma in che modo? Cerchiamo di scoprirlo.

«Sì, l’ho trovato io Akira Kurosawa, era morto, non respirava più» dice ansimando il boscaiolo ai giudici. «Eh? Se ho visto una spada? No, non c’era altro».

«Ho incontrato quel samurai, Kurosawa, mentre tornavo a piedi al mio convento» è il monaco questa volta a essere interrogato. «Non riuscii a scorgere il viso della donna, era nascosto dal cappello. L’uomo aveva la spada, l’arco e le frecce. Nemmeno in sogno avrei pensato che sarebbe finito poco dopo in modo così orrendo. In verità la vita dell’uomo è più effimera della rugiada di primo mattino, solo un fede profonda può illuminarci la strada».

«Che cosa vi credete! Lo so bene che finirò impiccato ad un albero, ve lo devo dire io?». Ride il brigante Tagiomaru di fronte ai giudici. «È vero, quel Kurosawa è stato ucciso da me. Sua moglie, col viso improvvisamente bianco, mi guardò: mi venne un’invidia, un odio feroce per quell’uomo. E così presi la donna senza uccidere lui. Ma poi fu lei… Il samurai ha lottato con me con un coraggio eccezionale. Che dite? Quel pugnale? Ah, sì, è vero, a pensarci doveva essere di molto valore. L’ho lasciato lì. È un vero peccato. Tagiomaru è proprio distratto» conclude il brigante ridendo forte.

«Quando ebbe fatto di me quel che voleva, quel brigante guardò ridendo mio marito legato all’albero»: è la moglie del samurai, Masago, a parlare in lacrime. «E allora corsi disperatamente verso Akira, mio marito. Se penso ancora una volta a quello sguardo il sangue mi si gela. Nei suoi occhi non ardeva l’ira. E non c’erano nemmeno le lacrime del dolore. C’era una luce fredda, piena di disprezzo per me. Poi sono svenuta. E quando tornai a capire» – la donna si interrompe piangendo – «…l’orrore che provai. Il pugnale brillava laggiù, sul corpo di lui».

È lo stesso Akira Kurosawa, alla fine, nascosto dietro le sembianze di una maga con gli occhi sbarrati, a fornire la propria versione. «Ora mi trovo immerso nelle tenebre, nessuna luce viene più a confortare il mio tormento. Il brigante, quando ebbe finito di contaminare mia moglie, prese a cercare di convincerla a rimanere con lui. Lei, nel sentire le sue parole, sollevò il viso. Non mi era mai sembrato di vederla così bella. E così, dinnanzi a suo marito legato, che cosa rispose al brigante? Vengo con te, ma prima lo devi uccidere!». E la maga si butta urlando per terra. «Queste sue parole risuonano ancora spaventose dentro di me come un uragano che distrugge tutto. Persino il brigante impallidì quando le sentì gridare da lei. E fui io invece ad uccidermi. Intorno a me c’era un gran silenzio. Poi sentii estrarre lentamente il pugnale dal mio petto».

Sembra che nel mondo reale Akira Kurosawa sia stato vittima di un ictus. Ma sarà vero? Nel multiforme universo creato dal cinema come è morto? Dov’è finito il pugnale della donna? A noi poco importa. E anche a Kurosawa la verità assoluta interessava poco, come non appassionava Pirandello, di cui il regista giapponese conosceva le opere. E Rashomon (羅生門 Rashōmon, ovvero “La porta nelle mura difensive”) da cui sono tratti i dialoghi precedenti – ci è piaciuto giocare con il più noto dei film di Kurosawa – è proprio un film sull’incapacità umana di dire la verità e su quanto essa sia relativa, legata ai punti di vista.

Il film – del 1950 – fu Leone d’Oro a Venezia: è ambientato a Kyoto, nel Giappone feudale del periodo Heian, nel XI secolo. Il racconto si snoda in tre ambienti: sotto il portico di Rajōmon, davanti a un tribunale (i giudici non vengono mai inquadrati) e nel bosco dove si consuma il dramma. La sceneggiatura è dello stesso Kurosawa e del giovane esordiente Shinobu Hashimoto: si basa sul racconto del 1922 Nel bosco (藪の中 Yabu no Naka) del Premio Nobel Ryūnosuke Akutagawa, con elementi però tratti da un altro racconto suo cioèRashōmon del 1915.

Il film «mostra che il desiderio di mentire per abbellirsi dura perfino dopo la tomba» scrive Kurosawa in Un’autobiografia o quasi: 蝦蟇の油, 自伝のようなもの, Gama no abura, Jiden no you na mono, 1990 (traduzione in italiano di Anna Pensante, Luni Editrice 2018). È al personaggio del ladro che nella pellicola il regista affida questo pensiero: «Non c’è nessuno che dica la verità. Non abbiamo il coraggio di dire le cose neppur a noi stessi». E questo lo sa bene anche il monaco, che però non vuole rassegnarsi: «Gli uomini sono tutti deboli, per questo debbono mentire, anch’io mentisco […] Ma il nostro mondo non può essere un inferno». E se fosse invece il pianto finale del neonato l’unica cosa ad essere sincera?

Dodicesimo film di Akira Kurosawa Rashomon, con Toshirō Mifune nei panni del brigante Tagiomaru, è stato girato con pochissimi soldi nella foresta vergine di Nara, vicino a Kyoto, infestata di sanguisughe. I dirigenti della Daiei Motion Picture Company erano contrari alla sua produzione: «dicevano che il soggetto era difficile e che il titolo non aveva richiamo» scrive sempre Kurosawa.

Una volta realizzato Rashomon venne distribuito in Giappone a partire dal 25 agosto 1950. La pellicola ebbe il successo che tutti sappiamo e, oltre al Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1951, tra i diversi premi vinse anche l’Oscar come miglior film straniero nel 1952. La colonna sonora è del compositore giapponese Fumio Hayasaka: Kurosawa voleva accompagnare il punto di vista della donna con un bolero e lui gli compose un bolero il cui crescendo fece rabbrividire lo stesso regista la prima volta che lo accostò alle immagini.

Oltre al genere giallo-noir a cui può fare riferimento Rashomon, con tanto di femme fatale in costume, il regista nipponico deve molto al western americano, vedi alla voce I sette samurai (1954). E quell’altro suo film venne ripreso da John Sturges nei Magnifici sette (1960) in cui dall’ambientazione giapponese medievale, con tanto di rōnin, si passa ai pistoleri nella frontiera americana dell’800.

La sfida dei samurai (1961) è invece una delle fonti di ispirazione per Sergio Leone nella creazione del suo primo spaghetti-western: Per un pugno di dollari (1964) con Clint Eastwood.

Nel nostro Paese un film di Akira Kurosawa è stato ripreso anche da Mario Bava, nel 1969, con Quante volte… quella notte, versione comico-erotica proprio di Rashomon. Al posto del bosco però i fatti si svolgono in un night-club.

Sempre leggendo la sua quasi autobiografia ne emerge un grande artista rimasto però molto umile. Pensando al regista francese Jean Renoir scrive: «C’è anche un’altra persona alla quale mi piacerebbe somigliare, invecchiando: il regista americano Johnn Ford […] Naturalmente, paragonato a questi due illustri maestri, Renoir e Ford, non sono che un pulcino». Avrà scritto la verità? Che importa! Akira Kurosawa faceva cinema, e grande cinema, con estrema consapevolezza.

«Che cos’è il cinema? Non è facile rispondere a questa domanda» scrive ancora: «molto tempo fa il romanziere giapponese Shiga Naoya pubblicò un tema del suo nipotino presentandolo come uno dei più notevoli brani di prosa del suo tempo. Lo fece pubblicare su una rivista letteraria. Si intitolava “Il mio cane” e diceva: “Il mio cane somiglia a un orso; somiglia anche a un tasso; somiglia anche a una volpe…” E continuava a elencare le caratteristiche particolari del suo cane, paragonando ciascuna a un animale diverso, fino a comporre un vero e proprio catalogo del regno animale. Il tema però si concludeva così: “Ma essendo un cane, somiglia soprattutto a un cane”. Ricordo che scoppiai a ridere quando lo lessi, ma la tesi che sostiene è seria. Il cinema somiglia a tante altre arti […] Ma in ultima analisi il cinema è cinema» (da Un’autobiografia o quasi: Appendice, «Appunti sparsi sul mestiere di regista»).

Kurosawa fu anche un grande innovatore del linguaggio cinematografico: «E dovevo anche pensare a come utilizzare il sole» scrive sempre nella sua quasi autobiografia. «Questa era una delle preoccupazioni principali, perché avevo deciso di utilizzare le luci e le ombre della foresta come tema visivo principale di tutto il film. Decisi di risolvere il problema filmando proprio il sole. Oggi è diventato abbastanza comune puntare la macchina da presa direttamente verso il sole, ma all’epoca in cui girammo Rashōmon era ancora uno dei tabù della cinematografia».

Akira Kurosawa ha adattato anche Shakespeare: Ran (1985) si ispira a Re Lear e Il trono di sangue (1951) al Macbeth. Fra i tanti premi vinti in vita occorre ricordare anche la Palma d’oro al Festival di Cannes nel 1980 per Kagemusha – L’ombra del guerriero, il Leone d’oro alla carriera nel 1982 e l’Oscar alla carriera nel 1990 gli fu consegnato da Steven Spielberg e George Lucas. Del resto La fortezza nascosta (1958) non ha influenzato la saga di Star Wars?

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

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Un commento

  • Francesco Bernabini

    Per chi non ha mai visto Rashomon i dialoghi sono tratti e ovviamente riadattati. Akira Kurosawa non è il samurai del film, ça va sans dire.

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