La bestia. Il treno della speranza per i migranti in fuga dalla povertà e dai narcos

Recensione al libro del giornalista salvadoregno Óscar Martínez

di David Lifodi

“Questa è la storia dei migranti che non contano, di quelli che già da molto tempo hanno smesso di contare”: scrive così Óscar Martínez, giornalista salvadoregno del quotidiano online elfaro.net, nella prefazione del suo libro La bestia. Il treno della speranza per i migranti in fuga dalla povertà e dai narcos. Pubblicato da Fazi Editore nel 2014, il lavoro di Martínez svela nel dettaglio i meccanismi della criminalità che hanno portato i cartelli della droga a divenire delle vere e proprie società per azioni che si sostituiscono alle istituzioni e che hanno al centro del loro business i migranti.

Martínez ha viaggiato sulla Bestia, ha parlato con sacerdoti, coyotes, polleros, narcotrafficanti, poliziotti e semplici cittadini, ha individuato quali sono le rotte che i migranti prediligono e quelle meno frequentate entrando in contatto con loro, condividendo le loro ansie, le loro paure e le loro storie. Tutti convengono sullo stesso punto: i narcotrafficanti rappresentano ormai la principale istituzione con cui i cittadini, volenti o nolenti, devono fare i conti. Impossibile non avere rapporti con loro in un sistema che ormai tutti accettano come normale. Martínez racconta dei polleros e dei coyotes che lavorano per i cartelli della droga: possono accompagnare un determinato numero di migranti e per ciascuno di questi hanno l’obbligo di versare una cifra al cartello operante in quel territorio. Se i polleros sgarrano, per loro la morte è sicura. A questo proposito, Martínez riporta la lettera scritta da un cittadino di Ciudad Juárez ad un quotidiano che ha come destinatario un ipotetico narcotrafficante: “Ti propongo il seguente accordo: mi impegnerò a pagarti un giusto tributo e a rispettare i tuoi affari senza interferire, nel bene e nel male. Sono disposto ad accettarti come autorità legittima di questa zona. E, in cambio di questo riconoscimento, ti chiederei di aiutarci a non pagare le tasse (che verseremmo a te) e non al nostro inutile governo”. Si tratta di una sorta di appello disperato affinché i cittadini possano condurre la loro vita e i narcotrafficanti non si intromettano più in ogni loro attività. In un contesto in cui non si muove foglia senza che i narcos non vogliano, per i migranti che vogliono raggiungere gli Stati Uniti la vita è ancora più difficile. Le rotte della droga, constata Martínez, sono le stesse che battono i migranti: si tratta di veri e propri imbuti (più volte il giornalista salvadoregno utilizza questo termine) dove i narcos cercano di fare affari, i migranti tentano di passare dall’altra parte, coyotes, polleros e piccole gang lavorano al servizio dei cartelli più grandi (ad esempio Los Zetas) e la polizia effettua i propri controlli (vendendosi, non di rado, agli stessi narcotrafficanti).  È così che i migranti sono costretti, ogni volta, a scegliere rotte e percorsi più complicati, ma magari meno controllati dalla polizia e dove la presenza dei narcos è meno invasiva, con il risultato che molti di loro trovano la morte. L’inospitale deserto di Sonora, il limaccioso e gelido Rio Grande con le sue imprevedibili correnti e la Cordillera del Hielo rappresentano dei muri naturali, oltre a quello reale che separa il Messico dagli Stati Uniti, per i migranti in fuga da un Centraomerica sempre più violento. I migranti che intraprendono il viaggio, scrive Martínez, mettono in conto di finire nelle mani dei cartelli della droga, le donne di essere violentate o di finire a lavorare come teiboleras (ballerine sui tavoli, termine spanglish tratto dall’inglese table) e nei cosiddetti Centros de Tolerancia), ma soprattutto tutti sanno bene che potrebbero morire o essere mutilati salendo o scendendo dalla Bestia, “un verme solido, minaccioso, lungo ottocento metri, a malapena controllabile, che si contorce, si dimena, barcolla e stride”. Il quadro tracciato da Martínez è quello di un paese, il Messico, in cui buona parte dell’economia gira secondo gli interessi e le attività dei narcotrafficanti. Sono molte le storie di autentico orrore descritte nel libro, ma ciò che colpisce è la rassegnazione di un paese intero ormai governato dai criminali: dai sacerdoti impegnati a tutelare i migranti, ma che, per spostarsi da una cittadina all’altra, devono pagare ai narcos una sorta di pizzo per evitare di essere aggrediti lungo la strada, ai volontari di alcune associazioni umanitarie impegnate a raccogliere gli immigrati che si perdono nel deserto costretti a barricarsi dentro casa non appena calano le tenebre in una sorta di coprifuoco autoimposto. Denuncia ancora Martínez: “In Messico non c’è nessuno che si occupi della sicurezza dei migranti. I migranti cercano di percorrere le strade meno battute dalle autorità e, per paura di essere espulsi, non denunciano quasi mai i crimini che subiscono. Un migrante che passa per il Messico è come un gatto ferito che attraversa furtivamente un canile: vuole uscirne il più in fretta possibile, e nel modo più indolore possibile”.

Dal lavoro di Martínez emerge che i migranti, più che emigrare, scappano da una regione centroamericana sempre più invivibile: le loro ragioni per raggiungere gli Stati Uniti sono tali che accettano i rischi di un viaggio pericolosissimo. Se devono rimanere schiavi dei cartelli, evitare il reclutamento delle maras, fuggire dallo sfruttamento e dalla povertà, pensano i migranti, tanto vale tentare la sorte, anche se buona parte di quelli che raggiungono gli Stati Uniti spesso finiscano per trovarsi coinvolti nelle stesse condizioni di sfruttamento del loro paese di origine. Nonostante quella dei migranti in transito verso gli Usa rappresenti una vera e propria crisi umanitaria, il muro resta lì, i cartelli del narcotraffico anche e le deportazioni dagli Stati Uniti al Centroamerica proseguono. Tutti lo sanno, ma colpevolmente accettano questo stato di cose.

 

La bestia. Il treno della speranza per i migranti in fuga dalla povertà e dai narcos

di Óscar Martínez

Fazi Editore, 2014

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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