La Città – 3

di Mauro Antonio Miglieruolo

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(segue da “La Città – 2”, mercoledì 5 luglio)

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Quattro

C’era una femmina con me sulla barca. Non so chi fosse, se guardiana o aiutante. Una belloccia sui venticinque, gran sise, la faccia giusta, parca di parole (la sua virtù migliore). Attese che fossimo al largo e lontani dal molo e disse:

– Scendi sotto che ci divertiamo… – e scese senza aspettare la reazione.

Eravamo in due. Noi due soli. Niente mani a badile nelle vicinanze. Niente more perfide e viziose. Niente di niente oltre al mare, il cielo e il denso maleodorare della barca. Sotto, probabilmente, trattato dalla bella in attesa, la puzza, alla quale cominciavo a abituarmi, doveva essere meno intensa. Conveniva scendere. Scesi.

Scesi e mi preparai a divertirmi. Non che pensassi di essere in grado, conciato com’ero, di poter combinare qualcosa di positivo, ma per sogghignare dentro vedendo la faccia che avrebbe fatto non appena si fosse resa conto della realtà. Fossi stato protagonista di un romanzo di Spillane tanto tanto, ci avrei dato dentro con successo, ma risiedendo nella mia poverissima realtà umana non se ne parlava proprio, malconcio com’ero, di poter combinare qualcosa.

Non la trovai, come mi aspettavo, con la merce già in mostra. La trovai invece inginocchiata sul letto, il braccio nudo, che si faceva di brutto. Indicò la siringa piena che aveva accanto.

– È per te, – disse.

– Cos’è? – chiesi diffidente.

Finì di armeggiare con il braccio, che appariva particolarmente martoriato e sullo stesso, indicando orgogliosa con il dito, quasi si trattasse di onorevolissime cicatrici frutto di eroiche battaglie, fece il periplo dei segno delle punture pregresse.

– Gaiardo, eh?

– Gaiardo, – ammisi.

Mentivo. In realtà pensavo si trattasse di una cosa orrenda. E mi chiedevo perché, arrivata a quel punto, non provvedesse direttamente con delle flebo. Perché non se ne stesse attaccata tutto il santo giorno a inglobare quella spaventosa merda chimica. Se ne poteva andare in giro con al seguito con un bel flacone pieno e avrebbe reso perfetta, perpetua la sua autodistruttiva felicità. Finché i tessuti gliel’avessero fatta, avrebbe persino potuto vantare una qualità della vita accettabile (salvo quell’asta legata al busto, dalla quale era costretta a farsi seguire); mentre una volta che le sinapsi fossero entrate in sciopero, in genere qualche settimana prima dell’esiziale sciopero della pompa in mezzo al petto, gliene sarebbe fregato assai delle camicie di forza, le docce fredde e l’altra mondezza chimica con cui avrebbero tentato di farla stare buona.

Doveva essere già partita, perché la bastò l’approvazione verbale per andare in brodo di giuggiole. Sorrise e mi gratificò come immaginava potesse gratificarmi. Tirando su la gonna per mostrami il ben di dio che vi stava nascosto sotto. Lo fece non perché avesse veramente voglia di qualcosa, per il puro spirito di compiacermi. Per rispondere al mio “gaiardo” di risposta con un altrettanto altisonante “gaiardo” fattuale conclusivo.

Ammirai adeguatamente, cioè assai. Imprevedibilmente mi ricordai di essere uomo e che di quella roba non assaggiavo da mesi (per essere sincero, anni: non certamente roba a quel livello). Due cosce che levati. L’uccello prese fuoco, mi si drizzò. Distolsi lo sguardo, speranzoso dell’azzurro esterno. L’azzurro calma, offre serenità. Non l’offrì alla follia che regnava in quell’indiscreto interno, immerso nella penombra e nei deodoranti di infima qualità. Con le pazze drogate, il pisello drogato, che possibilità aveva? Nessuna. La stessa identica possibilità che avevo con il me stesso in formato ridotto ogni volta che si inalberava e tirava sul la testa superbo. Che poteva importare al tizio tra le gambe delle opportunità e possibilità che mi si offrivano? Che capacità aveva di condividere guai e responsabilità? Ben poca. Lui alzava la testa e i guai restavano tutti miei.

La ragazza notò il gonfiore nei calzoni e ghignò oscenamente.

– Non credere te la dia, – disse sghignazzando. – Non ti illudere proprio.

Puttana! Esclamai, vergognandomi di me stesso. La fissai tutto mortificato torcersi sul letto, facendo “Uhuu!” con la bocca e interrompendosi soltanto per aprire ancor più le cosce, tendendo il bacino, in una crudele mimesi dell’offerta. Si fermava anche per guardarmi in faccia e ricominciava con i suoi “uhuu!” provocatori di ultradivertimento (si divertiva alle mie spalle, di me povero maschio schiavo degli istinti) e l’altrettanto provocatoria finta aggressività sessuale.

Non mi chiesi il motivo per quell’aggressività manifesta. C’è sempre un motivo al fondo dell’ostilità d’una donna. Se non per vendetta di qualcosa che le era stato fatto, per il rancore millenario contro il genere dal quale subiva (praticamente da sempre) ogni sorta di torti. Questa avversione perdurava, era eterna; permaneva anche quando il singolo individuo veniva perdonato. Come persona sì, ma in quanto genere no, mai.

La biondona si accaniva contro il genere attraverso quel suo ridere, indicando appunto ciò che ci e mi rendeva ridicolo: il bozzo sul davanti dei pantaloni. E si abbandonava con assoluta inconsapevolezza a quell’insano sadico gioco trascinata dalla porcheria appena assunta. Era essa a darle forza e voglia di maramaldeggiare (che l’assumesse proprio per quello? Per darsi un poco di coraggio contro lo scoramento della vita?). Decisi di intervenire quando la vidi rotolarsi nel letto tenendosi la pancia, minacciando di precipitare in una crisi isterica. Riempii un bicchiere d’acqua e glielo rovesciai sul viso. Smise immediatamente.

– Non fare troppo chiasso, – ordinai. – Ti si sente a chilometri di distanza.

Riprese a ridacchiare, ma piano, controllata.

– Oh, figlio! – Commentò. – Mi sei voluto venire lo stesso in faccia. Dovevi essere pieno da scoppiare. Oh, figlio! Oh! Oh! – e poi, ripetutamente: – Ah! Ah! Ah! Ah! Ah! Ah!

Le voltai le spalle.

– Finiscila, – ordinai. Non diede retta.

– Ma che sperma freddo hai! Di’, sei per caso un diavolo, tu?

– No, ma posso diventarlo.

Continuavo a mentire. Non c’era alcun bisogno lo diventassi. Lo ero già. In quel momento ne avevo mille, dentro, a tormentarmi. Mille diavoli dei peggiori. Furore, impotenza, umiliazione, ferocia, vendetta… mi venne il dubbio che quel che in fondo voleva la bellona fosse una punizione, una buona amara punizione. O era una buona samaritana disposta a offrirsi in olocausto?

– Ma che noioso! Perché mai dovrei finirla? Siamo qui per divertirci, no?

– No.

– Mi irriti, sai? Mi dai proprio sui nervi.

– Siamo qui per lavorare, non per divertirci. Io poi non mi diverto con quella robaccia.

– Sei uno di quelli, eh? Uno che ancora scopa… – Schioccò la lingua, sprezzante. – Sei indietro amico. Sei rimasto molto indietro.

L’erezione disparve. La stupida erezione. Rifluì, divenne tutt’uno con l’irritazione. Che sciocchezze andava dicendo, quella? Che specie di matta mi avevano messo alle costole? Pazza frigida incosciente…

– Non sai quello che perdi, – riprese. – Vedi, adesso che ho fatto il pieno, sto proprio bene. Prima no, mi sarei annegata, ne avessi avuto il coraggio. Ora è tutta un’altra storia. Perché non provi? La roba di oggi non fa tanto male. Non è tossica e neppure dà assuefazione.

– Balle…

– Un po’ sì. Perché funziona, la provi e la vuoi sempre. Pensa che le prime volte l’effetto dura giorni e giorni. Una confezione di punture è sufficiente a farti entrare in una specie di Nirvana per settimane.

– E dopo?

 – Che ti frega del dopo? Pensa all’adesso. Questa roba è semplicemente deliziosa. Delicious…

Mi arresi. Era matta. Matta come un cavallo. Bisognava rassegnarsi e tenerla buona e a bada.

– Delicious, – assentii fiocamente. L’occhio mi cadde sul seno, delicious (lui veramente sì), la cui esuberanza si poteva ammirare attraverso la disinvolta apertura della camicetta. Sotto il mio sguardo la magia dell’abito allargò l’apertura ulteriormente e il meraviglioso intero inquietante contenuto fu sciorinato a beneficio del mio sguardo. O a quello di chiunque.

Non solo il seno venne esposto, anche il resto. La pazza indossava infatti un indumento leggero color grigio e uno straccetto alla vita che le fasciava appena i fianchi. Anche lo straccetto si aprì e il santuario apparve ben bene in vista.

Non sembrò preoccuparsene. Anzi, se ne compiacque. Non con la compiacenza di chi è in cerca di qualcosa, ma con quella fraudolenta di chi è riuscito a darti una fregatura.

Già, a lei il sesso ormai non interessava più, era oltre, non faceva caso a quella roba. La usava esclusivamente per manovrare i maschi. Per manovrare me. Decisi che la faccenda non mi piaceva e freddai ulteriormente i bollenti spiriti.

– Niente male come abbigliamento, – commentai, – Specialmente per una a cui il sesso non interessa…

– Proprio perché non mi interessa, sono indifferente alle reazioni dei maschi… che mi importa? Facciano come gli pare. Il sesso io lo uso. Non mi costa niente e posso prendere al laccio i tipi come te, che sembrano tenerci tanto!

Volli negare, dar mostra di noncuranza. Preferii starmene zitto. Più bella figura. Anche perché la sua confessione che avrebbe dovuto placarmi, aveva prodotto un certo effetto (calcolato, probabilmente) e la coda aveva ricominciato a dar segni di impazienza.

– Ma tu, – riprese la bimba sfottente. – Tu davvero scopi ancora?

– Ho questo limite.

– Poverino…

Ancora una volta non replicai. Era impegnato in ben altro. A litigare con il mio lui assassino testardo ribelle. L’essenziale dei guai di un uomo, gioia e dolori è l’attrezzo che gli pende in mezzo alle gambe. Neppure un etto dicarne molle, pronta a diventare carne furente. Per distogliermene distolsi l’attenzione dalle bellezze poco segrete dalla bellona e guardai fuori, nel nero ondulato del mare. Le interferenze del tiranno cessarono immediatamente. Laggiù, lontano, nella notte stellata, indifferente o forse solo ignara delle rovine apportate alla bellezza del pianeta, la bellezza che per millenni aveva prodotto ore di idillio; laggiù dunque, alcuni luci si erano sovrapposte al normale buliginio del firmamento. Le luci, diffuse su un fronte largo diversi chilometri, convergevano su di noi. Eravamo stati individuati.

– La Forza, – informai quieto.

Smise di esserlo lei. Non avevo ancora terminato l’annuncio che divenne una furia. Si sollevò a sedere sul letto, allungò una mano e mi abbrancò per la cintura. Con l’altra mano afferrò la lampo e la tirò giù. Accennai a protestare, ma mi zittì con un gesto imperioso.

– Montami sopra, – ordinò. – Svelto, fai quello che ti dico.

Si liberò della camicetta e della gonna e mi costrinse a andarle addosso.

– Forza, uomo. Dimostra di essere capace di fare il tuo dovere…

Armeggiai goffamente con l’arnese, buono solo a metà. Non se ne ebbe a male. Armeggiò a sua volta e fui pronto.

– Dai, scopatore, dai…

Offesa dalla mia lentezza, se l’infilò dentro da sola.

– Non è male, – ammise, ignoro quanto guidata dalla sincerità e quanto dalla necessità. La necessità di ringalluzzirmi, insomma. – Dà sempre soddisfazione questa roba, anche se è da cavernicoli.

Era per ringalluzzirmi, valutai. Infatti si intostò ulteriormente e potei cominciare a andare. E lei a mugolare di brutto. Sbuffai infastidito.

– Non credere, – mi sussurrò all’orecchio. – Non è per te. L’esagerazione è per gli ospiti…

– Ancora non sono entrati, – obiettai.

Se ne stette calma per un po’, dandomi bei colpi ostentati di bacino. Il tutto accompagnato da qualche giusto verso di goduria, affannando.

– Delizioso, – commentava di tanto in tanto, stringendomi forte. – M’ero dimenticato quanto potesse risultare piacevole. Un giorno o l’altro dobbiamo rifarlo a nostro esclusivo uso e consumo… che ne dici?

– Ok, amica. Sempre che il vento volga dalla mia parte…

Gli ospiti ci abbordarono e lei ricominciò con la litania dei suoi esorbitanti versi d’apprezzamento.

– Ti sto mica scannando, – le sussurrai.

– Spingi, stronzo, se vuoi salvare il carico…

Spinsi e spinsi, finché scesero e ci sorpresero nel pieno dell’azione. La bellona gettò un grido, respingendomi. Tirai su la lampo, ma potei nascondere ben poco. Il bozzo sul davanti, per un buon minuto almeno, non mi lasciò altra possibilità che di crogiolarmi nell’imbarazzo.

Erano in due e tutti e due sogghignarono, dandosi l’un l’altro di gomito, contenti come Pasque.

– Chi siete? Che volete? – chiese la ragazza afferrando la camicetta e cercando di tornare decente. La striscia di stoffa non l’indossò, se la mise direttamente sulle pudenda. Ottenne quello che voleva: il massimo dell’effetto.

Ne scese un terzo in divisa e si fece avanti, senza sogghignare.

– Documenti! – ordinò brusco. Subito dopo rivolto ai primi due: – Non ve ne state lì impalati. Date un’occhiata in giro.

I due smisero di sogghignare e si diedero a gettare all’aria tutto, senza eccessiva convinzione per la verità. Avrebbero preferito continuare a guardare la ragazza sul letto. E magari manipolarla un pochino.

La loro disdetta era anche la mia, che cominciavo a sospettare di aver preso una seconda fregatura. La bellona infatti tirò fuori da sotto il cuscino i documenti richiesti, come se li avesse già pronti; io neppure mi frugai nelle tasca per cercarli. Sapevo di non averli.

– L’ho raccolto sul molo, – si affrettò a spiegare tendendo il tesserino VIP. – Non so chi sia.

La fulminai con la sguardo, ma lei con gli occhi, mi fece capire, che ti aspettavi?

– Confido nella sua comprensione, Capitano, – continuò. – Sono sposata con un Membro del Culto. Lei capisce…

L’ufficiale esaminò con attenzione il documento, più volte, da tutte e due i lati. Alzò più volte lo sguardo sulla donna. Chiamò uno dei due tipi e gli disse seccamente: – Controllare…

– Allora? – mi interrogò subito dopo, rivolto alla mia imprecante persona. L’espressione disgustata con cui mi fissò la disse lunga su quel che pensava di me. Su quel che si aspettava da me e ciò che potevo aspettarmi da lui.

– Non li ho, – ammisi. – Nelle tasche non ci sono.

– Dove abiti?

Trovai che quel passare alla seconda persona fosse di malaugurio. Improvvisamente ero diventano uno schifo, una nullità, una cosa da polverizzare con il solo sguardo.

– Terza Regione, Primo Distretto, Centoventinovesima Circoscrizione…

– Come mai tanto lontano da casa?

– Seguo le occasioni… il movimento della vita…

– Hai l’autorizzazione per l’emigrazione interdistrettuale?

Risposi scuotendo la testa.

– Come ti chiami e cosa fai?

– Antonio Tittalleva. Studente.

– Non fare lo spiritoso con me, capito? Rispondi a tono.

– Sono disoccupato.

– Bene bene, – fece. – Si rivesta, Signora.

Poi, finché non ebbe chiuso con l’ispezione, mi ignorò. Ne sapeva abbastanza su di me per sentirsi autorizzato a trattarmi come spazzatura. Ero un arresto facile. Probabilmente completavo idealmente la sua quota giornaliera di azioni positive.

Il poliziotto incaricato di controllare tornò dicendo che andava tutto bene.

– È come dice la donna. Il marito è un Pastore della Chiesa degli Ultimi Santi…

Il Capitano annuì, restituendo il documento alla Signora.

– Per questa volta va bene così, la lasciamo andare. Le raccomando però maggior prudenza. Stia attenta ai soggetti con cui si accompagna, possono dimostrarsi pericolosi… – espressione complice del Capitano. –  Non si allontani tanto dalla costa, comunque, o avrà sempre a che fare con il Servizio di Sorveglianza Costiera… Questo invece lo dobbiamo portare via per accertamenti…

La Signora gli sorrise timidamente e, sfarfallando le sopracciglia, chiese tutta trepida: – Mio marito non verrà a saperne nulla, vero, Capitano? Anche se dovesse rivolgersi a, dico, uno specialista?

– Non l’abbiamo registrata, se è questo che la preoccupa…

– Sa, – riprese la Signora, in tono contrito, – è tanto rigido, tanto all’antica… geloso, mamma mia quant’è geloso! Sempre lì a indagare e a sospettare!

Peggio per lui, ghignai internamente, se è geloso. E sospettoso. All’antica eccetera. Doveva modernizzarsi, capire come son fatti gli uomini. E doveva salire all’altezza della sua professione, imparare a essere superiore a certe miserie umane! Anche io però dovevo imparare qualcosa. Imparare a scegliere meglio le persone con cui accompagnarmi. E dovevo imparare a farlo in fretta, prima di lasciarci la pelle.

La Signora, ignorando gli sguardi con cui cercavo di fulminarla, abbottonò intorno alla vita la fascia che fungeva da gonna e si affrettò a scendere dal letto. Mi si avvicinò tenera come se volesse darmi un bacio di commiato, estrasse dalla tasca della camicetta tre biglietti da dieci e sotto lo sguardo indifferente del “Capitano” me li mise in mano.

– Ti possono servire, – sussurrò ammiccando.

Il Capitano udì e sorrise. In pratica quei trenta erano per lui. Sospettavo che anche per la ragazza, affidarli alle mie mani, fosse il modo più delicato di dar luogo a una partita di giro. Lei li dava a me e io ai Tutori dell’Ordine. Un bel grazie dato al Capitano senza che vi fosse nemmeno l’ombra della corruzione. “Meglio così, affanculo!” valutai calmandomi. Quei trenta mi avrebbero probabilmente risparmiato una scarica di legnate. O una mezza scarica di legnate (che era proprio quel che non mi ci voleva!).

– Andiamo, – ordinò il Capitano mettendomi una mano sulla spalla. Brutto vizio, quello. Rovinare le persone mettendogli una mano sulla spalla!

Andammo.

Lei invece rimase.

Ci aveva infinocchiati per bene ambedue, me e il Capitano.

Andammo.

Mi caricarono a bordo delle loro navi a trazione magnetica e mi portarono in un lampo alla più vicina stazione della Forza.

 

(segue “La Città – 4”, mercoledì 26 luglio)

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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