La Colombia stanca di guerra

Lo Stato fa di tutto per allontanare le pace, mentre prosegue il dibattito sulla scelta di una parte delle Farc di riprendere le armi.

di David Lifodi (*)

A seguire – per chi sa lo spagnolo – un articolo di padre Javier Giraldo Moreno sulla “democratizzazione” del genocidio

Tra il 4 e il 6 settembre, nel dipartimento di Antioquia, sono stati uccisi tre leader sociali, il militante ambientalista Fernando Jaramillo e due esponenti della Junta de Acción Comunal de La Milagrosa, Wilder Elías Godoy Restrepo e León Humberto Alcaraz. Il 15 settembre, informa Resumen Latinoamericano, a Puerto Guzmán (dipartimento di Putumayo), i paramilitari hanno assassinato tre persone contrarie sia alla loro avanzata sia ai ripetuti tentativi di estorsione.

In pratica, in Colombia non trascorre giorno senza morti, scontri o violenze e, in questo contesto, la Segunda Marquetalia proclamata da una parte delle Farc, quella che ha scelto di tornare alla lotta armata rispetto agli ex guerriglieri che invece intendono proseguire per la strada della politica legale sotto le insegne del partito Farc (Fuerza Alternativa Revolucionaria del Común), continua a far discutere. Nel mezzo, una società civile che aspira fortemente alla pace, dopo più di mezzo secolo di guerra, ma che è costretta, sotto il fascismo duqueuribista, a fare i conti quasi quotidianamente con i paras, con gli omicidi mirati contro esponenti delle organizzazioni popolari e con una politica apertamente guerrafondaia sia dell’attuale presidente Iván Duque sia del vero inquilino di Palacio Nariño, quell’Álvaro Uribe che ha trascorso tutta la sua carriera politica a costruirsi il consenso sulla guerra senza quartiere alle due guerriglie del paese, Farc ed Eln, e più in generale ai movimenti sociali.

Rompere l’egemonia delle forze di destra ed estrema destra sul conflitto armato colombiano non è facile. Non è semplice nemmeno contrastare la narrazione della Colombia da parte del duqueuribismo, che indica le Farc come narcotrafficanti e le accusa di aver sabotato quella pace contro la quale si era in realtà scagliato Uribe facendo fallire il referendum promosso dal suo più che ambiguo successore ed ex delfino Juan Manuel Santos. Il movimento per la pace si trova attualmente in difficoltà e le stesse Farc, qualsiasi cosa si possa pensare sia su coloro che hanno deciso di riprendere le armi sia su coloro che hanno preferito rientrare nel gioco politico, rischiano di andare incontro ad una sconfitta, soprattutto se divise.

In questo contesto è assai difficile far passare l’idea che la vera vittima è il popolo colombiano e la responsabile dell’interminabile scia di violenza è quell’oligarchia che ha sempre fatto affari con tutti i presidenti colombiani. Al tempo stesso sembra un po’ azzardata l’analisi che vede necessariamente nel rinascere della guerriglia proclamata, tra gli altri, da Iván Márquez, che pure aveva partecipato ai negoziati di pace a L’Avana fin dal 2016) e Santrich, un favore a Uribe, il quale ha giocato d’astuzia portando la guerriglia più longeva dell’America latina a dividersi ed a rendere contemporaneamente la Colombia un paese sempre più violento ed escludente.

Nei primi anni Ottanta lo sterminio pianificato dei militanti di Unión Patriótica provocò una vera e propria mancanza di ricambi nei quadri del partito. Fu allora che le Farc scelsero di tornare alla lotta armata e si creò una vera e propria spaccatura con la divisione, all’interno del Partito Comunista colombiano, tra i favorevoli al ritorno alla clandestinità e coloro che ritenevano comunque necessario di continuare a far politica alla luce del sole. Oggi la storia sembra ripetersi, mentre la pace sempre più diventa un miraggio, con accuse reciproche tra i marquetalianos e il partito Farc (rappresentato da Rodrigo Londoño, nome di battaglia Timochenko), e ad avvantaggiarsene è principalmente l’oligarchia terrateniente colombiana.

Sull’attuale scenario politico colombiano è intervenuto anche Pablo Beltrán, comandante dell’altra guerriglia del paese, quella dell’Eln (Ejército de Liberación Nacional), impegnato in un difficile negoziato di pace con lo Stato a Cuba, da dove ha risposto, via internet, alle domande dei giornalisti Juan Carlos Hurtado Fonseca e Federico García, corrispondenti del settimanale Voz. A proposito dei colloqui di pace a cui avevano accettato di partecipare le Farc, Beltrán cita le parole di un diplomatico colombiano che aveva partecipato ai negoziati: lo Stato intendeva raggiungere la pace per far implodere la guerriglia e frammentarla, non per riconoscerla come forza legale di sinistra in Parlamento. Il comandante dell’Eln fa capire inoltre di condividere la scelta di una parte delle Farc di riprendere le armi, in virtù degli omicidi mirati di un gran numero di ex combattenti e di alcuni loro familiari, tuttavia confida nel desiderio di pace di milioni di colombiani, una vera pace che tolga ai signori della guerra che governano il paese qualsiasi tipo di giustificazione per omicidi, azioni militari contro indios, contadini, movimenti sociali ecc…

La società civile, per quanto schiacciata e sopraffatta da una violenza perlopiù di Stato senza fine preme per un dialogo che passerà inevitabilmente anche dall’unità delle sinistre ed è in questo contesto che il comandante Beltrán cita Alfonso Cano, storico esponente delle Farc: “Niente di ciò che si guadagna il popolo è regalato gratuitamente dall’oligarchia, ma deve conquistarselo”. Anche la pace dovrà essere raggiunta inevitabilmente dalla società civile, considerando che il fine dello Stato colombiano è quello di proseguire la guerra.

(*) articolo tratto da Peacelink – 18 settembre 2019

La “democratización” del Genocidio

di Javier Giraldo Moreno
Los imaginarios del Genocidio han estado asociados, ordinariamente, a matanzas de grandes proporciones numéricas que toman como objetivo colectivos humanos identificados con rasgos comunes, ya sean raciales, étnicos, religiosos, ideológicos, culturales o políticos.
El derecho internacional restringió el concepto, en la Convención de 1948, a grupos de tipo “nacional, étnico, racial o religioso”, suprimiendo o no mencionando los grupos de tipo “político” que habían sido incluidos en la Declaración previa, condenatoria del Genocidio, emitida por la Asamblea General de la ONU en 19461. Sin embargo, la característica de un grupo nacional, incluido en la Convención, cuya destrucción total o parcial entra en la definición convencional del Genocidio, no limitando éste a la matanza física de miembros del grupo sino extendiéndolo a la “lesión grave a la integridad física o mental de los miembros del grupo” y al “sometimiento intencional del grupo a condiciones de existencia que hayan de acarrear su destrucción física, total o parcial”, son precisiones que demarcan un concepto más amplio del Genocidio, más allá del imaginario mediático.
Como lo han explicado expertos autorizados de las Naciones Unidas, el término “grupo nacional” no se refiere a nacionalidades histórico-jurídicas reconocidas, sino a un conjunto de seres humanos que se identifican por: “una voluntad de vivir en común, un ideal común, un objetivo común e inspiraciones comunes”. Así lo define el Relator Especial para el Proyecto de Código de Crímenes contra la Paz y la Seguridad de la Humanidad, en el IV Informe presentado a la Asamblea General de la ONU el 11 de marzo de 1986 (Doc. A/CN.4/398, parr. 58). En ese mismo informe se afirma: “la intención de los autores, tanto de la Convención sobre el Genocidio como del Proyecto de Código, era la de reconocer como consumado el Genocidio aún en el caso en que el acto (homicidio, etc.) hubiere sido cometido respecto de un solo miembro de un grupo determinado, con la intención de destruirlo “total o parcialmente”. A su juicio, “lo decisivo para la noción de Genocidio es la intención”.
Posteriormente, en una carta dirigida por el Secretario General de la ONU al Presidente del Consejo de Seguridad, cuando se ultimaba la redacción del Estatuto para la Corte Penal Internacional, afirmaba: “: “Lo que hace que los crímenes de asesinatos en masa y los crímenes de lesa humanidad constituyan Genocidio es el elemento de la intención de destruir total o parcialmente a un grupo determinado. Para constituir Genocidio conforme a las disposiciones de la Convención, los crímenes contra un número de personas deben estar dirigidos a su colectividad o a esas personas en su carácter o capacidad colectiva. Ello puede deducirse de las palabras “como tal” que aparecen en el artículo II de la Convención.” (Doc. S/1994/674, mayo 27 de 1994).
Un grupo nacional, finalmente, puede ser sujeto pasivo de Genocidio, ya sea cuando su identidad es construida desde las víctimas, mediante una real convergencia en ideales, objetivos e inspiraciones comunes para la vida en grupo, ya sea cuando su identidad es construida desde los victimarios, suponiendo que determinadas franjas de la población representan ideales alternativos de vida en sociedad que los detentores del poder rechazan, por lo cual deciden impedir o destruir esa vida común o sus condiciones de posibilidad. Así, cuando la Sala Plena de lo Penal de la Audiencia Nacional de España discutió sus facultades para pedir en extradición al dictador chileno Augusto Pinochet en 1998, calificando sus crímenes internacionales, abordó con realismo el significado y alcances jurídicos de la eliminación de un grupo nacional como crimen de Genocidio. Algunos párrafos del Auto de la Sala Plena de lo Penal del 5 de noviembre de 1998 son esclarecedores: “Sin distingos, es un crimen contra la humanidad la ejecución de acciones destinadas a exterminar a un grupo humano, sean cuales sean las características diferenciadoras del grupo. (…) Repárese ya en que la idea de genocidio queda incompleta si se delimitan las características del grupo que sufre los horrores y la acción exterminadora. (…) En los hechos imputados en el sumario está presente, de modo ineludible, la idea de exterminio de un grupo de la población chilena, sin excluir a los residentes afines. Fue una acción de persecución y hostigamiento tendente a destruir a un determinado sector de la población, un grupo, sumamente heterogéneo, pero diferenciado. El grupo perseguido y hostigado lo formaban aquellos ciudadanos que no respondían al tipo prefijado por los promotores de la represión como propio del orden nuevo a instaurar en el país. El grupo lo integraban ciudadanos contrarios al régimen militar del 11 de septiembre, contrarios al entendimiento de la identidad de la nación, de los valores nacionales, que era sostenido por los nuevos gobernantes, pero también ciudadanos indiferentes al régimen y a ese entendimiento de lo nacional. La represión no pretendió cambiar la actitud del grupo, sino destruir el grupo por medio de las detenciones, torturas, desapariciones, muertes y amedrentamiento de los miembros del grupo claramente definido –identificable- para los represores. No fue una actuación al azar, indiscriminada. (…) El sentido de la vigencia de la necesidad sentida por los países parte del Convenio de 1948 de responder penalmente al genocidio, evitando su impunidad, por considerarlo crimen horrendo de derecho internacional, requiere que los términos “grupo nacional” no signifiquen “grupo formado por personas que pertenecen a una misma nación, sino, simplemente, grupo humano nacional, grupo humano diferenciado, caracterizado por algo, integrado en una colectividad mayor (…) En el tiempo de los hechos y en el país de los hechos se trató de destruir a un grupo diferenciado nacional, a los que no cabían en el proyecto de reorganización nacional o a quienes practicaban la persecución estimaban que no cabían (…) Todas las víctimas, reales o potenciales, chilenos o foráneos, integraron un grupo diferenciado en la nación, que se pretendió exterminar.”
Se puede decir entonces que la jurisprudencia sobre el Genocidio que se afirma en el amanecer del siglo XXI, ofrece una comprensión del Genocidio no restringido a matanzas de enormes proporciones numéricas, sino que se fija más en su esencia intencional de destruir, mediante diversas formas y/o métodos, total o parcialmente, una identidad común, construida por las mismas víctimas o por sus victimarios, lo cual implica de suyo una voluntad simultánea de los victimarios de imponer su propia identidad al conjunto social o, en otros términos, modificar, remodelar o controlar los patrones de convivencia (económicos, políticos, ideológicos, culturales, religiosos u otros) de acuerdo a intereses de quienes detentan el control (jurídico, político, mediático, militar) de la sociedad.
Los estudios sobre el Genocidio impulsados desde el Centro de Estudios sobre el Genocidio de la Universidad Nacional Tres de Febrero de Buenos Aires, Argentina, dirigido por Daniel Feierstein, han profundizado y actualizado el concepto de Genocidio y subrayado uno de sus rasgos que en gran parte había pasado desapercibido. Al analizar un genocidio histórico incontrovertible, como fue el Genocidio Nazi, Daniel Feierstein anota que lo que allí se buscaba en el fondo era reconfigurar totalmente la identidad de Alemania y de Europa entera, pues al cercenar franjas de población, con todo lo que implican, se reconfigura completamente una identidad nacional y se define lo que cabe y lo que no cabe allí, o como lo expresa Rafael Lemkin (NOTA 2), si la primera fase la constituye la destrucción de la identidad del grupo oprimido, la segunda fase consiste en la imposición de la identidad del grupo opresor al grupo oprimido, o a los sobrevivientes o a los grupos que quedan.
Al analizar el genocidio ocurrido en Argentina, Daniel Feierstein aporta otro elemento importante: “A diferencia incluso de otras experiencias latinoamericanas, en el caso argentino la “reorganización nacional” que buscaba la dictadura desde su propia denominación como “Proceso de Reorganización Nacional” no se agotaba en su sentido político, sino que perseguía un quiebre y una transfiguración total de los modos de constitución de identidades al interior del territorio, una reconstitución de las relaciones sociales que afectaba la moral, la ideología, la familia y las instituciones. Es decir, aquí no se trataba tan solo –aun cuando esto alcanzara para la definición de genocidio- de eliminar a quienes integraban una o varias fuerzas políticas, se intentaba transformar a la sociedad toda aniquilando a quienes encarnaban un modo de construcción de identidad social y eliminando –material y simbólicamente- la posibilidad de pensarse socialmente de ese modo” (NOTA 3).
El imaginario del Genocidio está también muy asociado a regímenes políticos dictatoriales y la mayoría de la gente tiene dificultades para asociarlo a regímenes considerados democráticos o por lo menos “de fachada democrática”. El escritor uruguayo Eduardo Galeano, para contrarrestar este obstáculo mental acuñó el término “democradura”, integrando simbióticamente las características de las democracias y las dictaduras. Pero su análisis de las falsas “democracias” de América Latina es brillante. Al clausurar el II Congreso de la Liga Internacional por los Derechos y la Liberación de los Pueblos, en París, el 6 de diciembre de 1987, se expresó así:
“el democracímetro occidental mide el mayor o menor grado de democracia en los países llamados del Tercer Mundo, según su mayor o menor capacidad de imitación. El democracímetro está ubicado en los centros internacionales de poder, un puñado de países del norte del mundo cuya creciente riqueza, en gran medida resultante de la creciente pobreza de los demás, hace posible una libertad política interna a salvo de mayores sobresaltos. Al tomar examen a los países subdesarrollados, el democracímetro los obliga a demostrar devoción por las formas, aunque esa devoción implique una traición a los contenidos. Poco importa que la caricatura de las instituciones democráticas del mundo desarrollado esconda un miedo a la democracia de verdad, genuina expresión de la voluntad popular; poco importa que casi todos los dictadores militares latinoamericanos del siglo veinte se hayan mostrado cuidadosos en el pago de impuestos del vicio a la virtud. Casi todos los dictadores han celebrado elecciones, han financiado parlamentos, jueces, partidos y hasta prensa de oposición, han rendido homenaje al grano. En realidad, el código internacional de buena conducta democrática no sólo condena a los dictadores más impresentables, generales diestros en el oficio de la carnicería, sino que también descalifica cualquier experiencia que intente escapar a los marcos estranguladores del capitalismo y que no se ajusta a las normas institucionales del liberalismo europeo.(…)
La verdad del democracímetro, que es la verdad del sistema, puede ser mentira para las víctimas del sistema. No creo que crean en la democracia los ocho millones de niños abandonados que vagabundean por las calles de las ciudades brasileñas. (…) La democracia no es lo que es sino lo que parece. Estamos en plena cultura del envase. La cultura del envase desprecia los contenidos. Importa lo que se dice, no lo que se hace. Cultura del envase: el contrato del matrimonio importa más que el amor, el funeral más que el muerto, la ropa más que el cuerpo y la misa más que Dios. El espectáculo de la democracia importa más que la democracia (…)
El año pasado, Colombia celebró cien años de la promulgación de su Constitución nacional. De esos cien años, cincuenta han transcurrido en estado de sitio. ¿Cuál de los dos aniversarios es más representativo de la realidad colombiana? ¿El siglo de la Constitución, obra de juristas floridos y copiones, o el medio siglo de estado de sitio? Muy poquito antes del cumpleaños constitucional, ocurrió el asalto militar al Palacio de Justicia y el impune crimen de los magistrados puso más que nunca de manifiesto el alto grado de militarización de la democracia colombiana. La democracia representativa de liberales y conservadores no impide los estragos de la violencia estructural: uno de cada tres niños del campo colombiano sufre retardo mental por desnutrición, y en Cali y Medellín muere más gente a balazos que en Beirut. Los escuadrones de la muerte, vinculados a las fuerzas armadas, matan más que los narcotraficantes y los terroristas, pero ni uno solo de sus miembros ha sido arrestado ni procesado y mucho menos condenado.(…)
La realidad es que las democracias latinoamericanas quieren ser democracias de verdad, no se resignan a ser democraduras, democracias hipotecadas por las dictaduras, aunque el democracímetro occidental no otorgue mayor importancia a este detalle. Pero para la estructura de la impotencia, cualquier democracia dinámica, transformadora de la realidad, resulta peligrosa. Bien se sabe lo que ocurrió con Salvador Allende y con miles de chilenos, cuando Chile se tomó la democracia en serio. (…)
La memoria del dolor nos está obligando a luchar para que la democracia sea democracia, democracia de verdad y no la decorativa careta de un sistema que al derecho de propiedad sacrifica los demás derechos y que sólo otorga libertad de expresión a quien pueda pagarla. Y no será más verdadera esa democracia en la medida en que más se parezca a los modelos de Europa del Oeste, ni de Europa del Este, ni de ninguna otra parte. Más verdadera será en la medida en que más desencadene la voluntad de participación y la energía creadora del pueblo, que es una energía de transformación de la realidad. Porque mejor no es el que más copia, no: mejor es el que más crea, aunque creando se equivoque. Y la creación anuncia. En el acierto o en el error, anuncia. Anuncia otro tiempo que vendrá, un tiempo en que no se promulgarán leyes de caducidad de los crímenes del terrorismo de Estado, sino que se promulgarán leyes de caducidad del miedo. Y ninguna ley establecerá la obediencia debida, pero todas las leyes obligarán a la dignidad debida. Y no se pondrá punto final a la justicia sino que se pondrá punto final a la injusticia que reina en las lastimadas comarcas nuestras. Y entonces desaparecerá la humillación y no desaparecerán los hombres y las mujeres que luchan contra la humillación. Esta es nuestra manera de rendir homenaje a esas mujeres y a esos hombres, los miles y miles de desaparecidos de América Latina y a los infinitos combatientes que en el mundo han caído peleando por la dignidad humana. Crear y luchar contra la poderosa mentira, contra el poderoso miedo: esta es nuestra manera de decirles, a cada uno de ellos, a cada uno de los desaparecidos, a cada uno de los caídos: No, tú no moriste contigo”.
En 1994, cuando los jesuitas catalanes de la Fundación Lluis Espinal me pidieron escribir un testimonio de lo que vivía en Colombia, no encontré otro título para el cuaderno que éste: “Colombia, esta democracia genocida”4. El contenido de ese cuaderno fue publicado luego en Estados Unidos con un anexo pero con el mismo título: “Colombia,The Genocidal Democracy”5, publicación para la cual el Maestro Noam Chomsky escribió una introducción titulada “The Culture of Fear” (la Cultura del Miedo), en uno de cuyos párrafos expresa esto:
“Cuando el Departamento de Estado anunció nuevos envíos de armas, como premio a los éxitos de Colombia en el campo de derechos humanos y democracia, seguramente había tenido acceso a las cifras de atrocidades que habían sido compiladas por organizaciones internacionales y colombianas líderes en derechos humanos. También era plenamente consciente del papel de los Estados Unidos en la creación y mantenimiento de un régimen de terror y opresión. Desgraciadamente el ejemplo es típico de un patrón que difícilmente cambia y que fácilmente se puede verificar” (pag. 6)
Tampoco el ilustre constitucionalista colombiano, el Maestro Carlos Gaviria, quien ocupó el cargo de Presidente de la Corte Constitucional y se destacó por la redacción de sentencias de radical contenido democrático, consideraba real la “democracia” colombiana. En una entrevista de “Palabras al Margen” sobre el delito político, manifestó:
“Hay democracias consolidadas, sociedades realmente democráticas que preservan mucho ese modelo de vivir, pero en Latinoamérica estamos muy lejos de tener ese tipo de democracia, Tenemos sociedades bastante imperfectas. Yo he dicho que no tenemos democracia sino que la democracia está en construcción”.
Los regímenes no democráticos, dictatoriales, opresores, excluyentes, elitistas, se cuidan de preservar la “cultura del envase” como la definía Galeano, manteniendo elecciones pero mercantilizadas; manteniendo independencia de poderes pero carcomida por la corrupción; manteniendo libertad de prensa pero sólo para las grandes, ricas y poderosas empresas mediáticas; manteniendo partidos políticos pero clientelistas y apoyados en la sola ideología del reparto del poder. Sin embargo, se distinguen por un rasgo central que se erige como esencia y sustento del tipo de “democracia”: el discernimiento permanente de lo que cabe y de lo que no cabe como preservativo de continuidad del modelo, dando pie a estrategias sutiles y maquilladas, en gran medida clandestinizadas, de eliminación o exterminio de lo que no cabe.
Este año en que conmemoramos los 200 años de la “independencia de Colombia respecto a España”, nos invita a lanzar la mirada hacia atrás para escudriñar cómo se configuró esta democracia genocida. La Colombia que sale de la guerra de independencia está gobernada por generales ascendidos en el fragor de los combates, bajo el criterio de lealtad a sus jefes y premiados luego con grandes extensiones de tierra y poder, proyectándose luego el conjunto de feudos en un Estado militar, en que los diferendos se dirimen con armas, lo que explica que el siglo XIX esté atravesado por 9 guerras civiles nacionales, 14 guerras regionales y numerosas revueltas locales y que en el siglo XX los conflictos armados vayan en aumento, hasta llegar a la violencia horrenda de mitad de siglo, que tiene su clímax en el 9 de abril de 1948, fecha en que se desencadena nuevos conflictos armados que aún se prolongan y parecen no tener fin.
Cuando la casta intelectual neogranadina, salida de familias acomodadas y educadas en Europa, comienza a importar ideologías europeas para configurar los partidos políticos (liberal y conservador y sus precursores y variantes), de donde van surgiendo gobernantes civiles, el modelo de Estado que se va configurando no logra desprenderse de los criterios militares para dirimir conflictos y derechos, heredados de los generales bolivarianos. El politólogo estadounidense nacionalizado en Nicaragua y luego asesor de la ONU en muchos proyectos, Paul Oquist, profundo analista de la violencia de Colombia describió ese Estado que los partidos fueron modelando en sus luchas por la hegemonía, como “una entidad intervencionista, no pluralista que, o absorbía o reprimía las fuerza sociales y las organizaciones que actuaban políticamente. La naturaleza no pluralista del Estado no sólo significó el control del gobierno por una pequeña clase dirigente, sino también la exclusión periódica de parte de la misma, dado el intenso sectarismo partidista que dividía a la clase dominante. Esta tendencia a excluir al partido opuesto de participar en el poder del Estado, fue una continuación del procedimiento político del siglo XIX, caracterizado por el esfuerzo de establecer hegemonías políticas partidistas”. (NOTA 6)
El mismo Bolívar, imbuido del liberalismo galopante en Europa, ordenó partir los resguardos indígenas en pedazos para que los indígenas ingresaran al sistema de propiedad privada y titulada de la tierra (NOTA 7) y así poder ser considerados como “civilizados”, pero cuando la tradición ancestral de la propiedad colectiva de la madre tierra se vio desconocida y afectó gravemente la identidad y sobrevivencia de los pueblos originarios, les devolvieron parte de los resguardos pero los declararon “salvajes”, calificativo que hoy persiste en la Ley 89 de 1890, aún vigente. Así los pueblos originarios quedaban excluidos de la nacionalidad legitimada, la cual había asumido ya como rasgo identitario de primer orden el principio de propiedad privada, extendida de las tierras a las parcelas de poder que reclamaban derechos hereditarios.
Desde sus comienzos, pues, el Estado colombiano se fue configurando como hegemónico y excluyente, acostumbrado a dirimir sus conflictos internos a bala, eliminando al adversario, así se tratase de adversarios de la misma clase. Con el logro de “la paz entre los partidos”, al constituirse el Frente Nacional en 1958 mediante una fusión de intereses entre fracciones de una misma casta, el Estado adquirió perfiles ideológico-políticos más definidos y reclasificó lo que cabe y lo que no cabe en su identidad y, por lo tanto, lo que debe ser eliminado por no caber allí.
Ya desde 1954, mediante el Acto Legislativo No.6 de la Constituyente dictatorial, se había declarado fuera de la Constitución toda actividad inspirada en el Comunismo. El Decreto 434 de 1956 tipificó enseguida 13 delitos de colaboración con el comunismo cuyos autores debían ser procesados en consejos de guerra militares. En esa proscripción del Comunismo se inspirarían en adelante todas las persecuciones y matanzas de militantes de izquierda y de movimientos sociales alternativos que hasta hoy día conmocionan a las franjas poblacionales que no hacen parte del Estado -Establecimiento. Para consolidar ese rasgo anticomunista del Estado hegemónico, las élites en el poder se apoyaron en una alianza con la Iglesia, cuya ideología anticomunista estuvo refrendada durante casi un siglo por documentos pontificios y episcopales de claro corte anti-evangélico. La Guerra Fría que alineó a casi todos los países en bloques hemisféricos rivales desde mediados del siglo XX, arrastró a las élites colombianas a someterse incondicionalmente a las directrices de la potencia estadounidense, abriéndole todos los espacios para que definiera y monitoreara sus políticas económicas y de seguridad, constituyendo tal dependencia otro de los rasgos más esenciales de su identidad, que encontraría profunda convergencia con su anticomunismo político-religioso, reforzándose mutuamente.
Los métodos mediante los cuales ese Estado hegemónico fue exterminando a las franjas poblacionales que no cabían en sus rasgos identitarios, han ido evolucionando. En las épocas en que la comunidad internacional poco intervenía en los asuntos internos del país y en que sólo había asimilado débilmente la normatividad de los derechos humanos, el Estado colombiano esgrimía sin pudor su fuerza coercitiva con amplios despliegues de terror y crueldad. Así lo hizo en las bananeras (1927), con el Movimiento Gaitanista (1946 en adelante), en Santa Bárbara (1963), en Marquetalia (1964), en el Estatuto de Seguridad y en sus Cuevas del Sacromonte (1978 y ss), para aludir sólo a memorias cimeras.
Pero en los años 80s las censuras internacionales comenzaron a cohibir al Estado-Establecimiento colombiano. Éste sacó entonces de su armario la solución aportada por la Misión Yarborough (1962) que en sus directrices secretas le había ordenado crear grupos mixtos de civiles y militares para involucrar a la población civil en la guerra y constituir fuerzas paramilitares que pudieran hacerse cargo de “atentados terroristas paramilitares” (como textualmente lo reza el documento), sin necesidad de comprometer la legitimidad del Estado ni de su fuerza pública (NOTA 8). La era del paramilitarismo rampante se afirma de manera más intensa en los 80s hasta el final del siglo, cubriendo lo más bárbaro del genocidio de la UP, del genocidio sindical, de la represión brutal a la protesta campesina y estudiantil y de la persecución ampliada y despiadada a las insurgencias que se multiplicaron en los 60s y los 70s reivindicando el derecho a la rebelión, el cual fue desmontado legalmente en 19979. Allí el Estado de envase “democrático” descubrió una gran veta legitimante del terror, como instrumento eficaz para eliminar a las capas nacionales que no caben en los rasgos identitarios del Estado-Nación: procesar y ejecutar a los inconformes civiles bajo la etiqueta de “alzados en armas”. Entonces los ríos de sangre inundaron de nuevo la geografía nacional y los cementerios se saturaron de fosas comunes.
Desde la primera década del siglo XXI el vocablo paramilitar comenzó a incomodar a las élites, ya que los estudios y denuncias de organismos internacionales fueron sacando a la luz la estrecha coordinación de esas estructuras con la fuerza armada oficial, lo que llevó a montar una gigantesca campaña mediática para convencer al país y al mundo de que esos grupos gozaban de plena independencia del Estado y había que ubicarlos más bien en el campo de la delincuencia común, inspirando así la sigla promocional de BACRIM o Bandas Criminales. Pero la identificación de esas “bandas” con los paramilitares, en su ideología, su culto por los gobiernos de turno y sus fuerzas armadas, su relación y apoyo a grandes empresarios, su concepción del desarrollo y del progreso, su lenguaje militar y sus móviles de odio a las capas empobrecidas y a los inconformes, y mucho más aún a los movimientos sociales y alternativos, va delatando poco a poco su verdadera identidad, lo que obligó a las delegaciones que discutían los acuerdos de paz en La Habana (2012 a 2016) a denominarlos “grupos sucesores de los paramilitares”.
Esos impases fueron conduciendo a un refinamiento extremo del método de exterminio, y es el que se va afirmando cada vez más claramente en el período que ha dado en llamarse “del posconflicto” o “del posacuerdo”: es el anonimato progresivo del victimario. La mayoría de los líderes sociales hoy eliminados, lo son por uno o varios pistoleros encapuchados que llegan en moto sin placa, disparan y se van y no reivindican su acción desde ninguna estructura. Eliminación efectiva de quienes no caben en los rasgos identitarios del Estado-Nación, dejando a salvo la legitimidad “democrática” del Estado y del Establecimiento que lo sustenta.
El Genocidio es un crimen catalogado como el peor de los que ofenden y destruyen la dignidad y los derechos de la especie humana, comenzando por el más elemental y precioso: la Vida. Pero la ciencia criminalística exige, para tipificarlo, la existencia de un actor responsable, individual o colectivo (definido en las redes de complicidades). Por ello los Estados Genocidas han elaborado y refinado mecanismos de evasión de responsabilidades. Si en Colombia hay documentos doctrinales y operacionales que evidencian la responsabilidad estatal del Genocidio hasta ciertos períodos, como son por ejemplo los manuales de contrainsurgencia copiados o redactados por el ejército desde 1963 en adelante, así como muchos discursos, artículos y directrices de las jerarquías castrenses y mandatarios civiles, sin embargo, desde un tiempo para acá existe la consigna de no dejar huellas ni indicios que puedan interpretarse como órdenes de operaciones orientadas a prácticas genocidas o crímenes de lesa humanidad. Esto bloquea el procesamiento del crimen de Genocidio. Cualquiera se pregunta: dónde y quiénes disciernen quiénes caben en el Estado-Nación vigente y quiénes no caben, y dónde y quiénes deciden sobre la eliminación de los que no caben y sobre los métodos para exterminarlos?
Aquí es iluminadora la reflexión que hace Erich Fromm sobre la alienación en la sociedad contemporánea, aludiendo al fenómeno del Ajuste:
“Hemos examinado la diferencia existente entre autoridad racional e irracional, entre autoridad estimulante y autoridad inhibitoria y hemos dicho que la sociedad occidental de los siglos XVIII y XIX se caracterizó por la mezcla de ambos tipos de autoridad. Lo común a la autoridad racional y la irracional es que es una autoridad franca y manifiesta. Uno sabe quién manda y quién prohíbe: el padre, el maestro, el amo, el rey, el funcionario, el sacerdote, Dios, la ley, la conciencia moral. Los mandatos y las prohibiciones pueden ser razonables o no, estrictas o indulgentes, y yo puedo obedecer o rebelarme; siempre sé que hay una autoridad, quién es, qué quiere y cuáles son los resultados de mi obediencia o de mi rebelión. A mediados del siglo XX la autoridad ha cambiado de carácter: ya no es una autoridad manifiesta, sino anónima, invisible, enajenada. Nadie da órdenes, ni una persona, ni una idea, ni una ley moral; pero todos nos sometemos tanto o más que lo haría la gente en una sociedad fuertemente autoritaria. Ciertamente, nadie es autoridad, excepto “Eso”. ¿Qué es “Eso”?. La ganancia, las necesidades económicas, el mercado, el sentido común, la opinión pública, lo que uno hace, piensa o siente. Las leyes de la autoridad anónima son tan invisibles como las leyes del mercado, y exactamente tan inviolables como ellas.  ¿Quién es la persona que puede atacar lo invisible?  ¿Quién puede rebelarse contra Nadie?” (…) El mecanismo mediante el cual opera la autoridad anónima es la conformidad. Debo hacer lo que todo el mundo hace; en consecuencia, debo adaptarme, no ser diferente, no sobresalir; debo estar dispuesto a cambiar de buena voluntad, de acuerdo con los cambios del tipo o modelo; no tengo que preguntar si estoy en lo cierto o no, sino si estoy adaptado, si no soy “distinto”, si no soy diferente. La única cosa que en mí es permanente es justo esa buena disposición al cambio. Nadie tiene poder sobre mí, excepto el rebaño de que formo parte y al que estoy
sometido (…) El único medio para tener un sentido de identidad es la conformidad. Ser aceptable significa en realidad no ser diferente a los demás. El sentirse inferior nace de sentirse diferente, y no se pregunta si la diferencia es para mejor o para peor”.
Los jueces y autoridades que definen quién cabe y quién no cabe en el Estado-Nación y por tanto qué clases de ciudadanos deben ser exterminados, desarticulados como colectivos o estigmatizados hasta someterlos al ajuste o conformidad con el rebaño, son jueces y autoridades muy similares al “Eso” de Fromm. El estigma, como primer estadio del Genocidio, se configura en los establecimientos educativos, los mass media, las iglesias y numerosos espacios culturales y deportivos. La “cultura del envase” se alimenta en todos esos medios para asimilar la etiqueta vacía de una “democracia” ficticia: en las campañas electorales, en el culto a ídolos políticos, empresariales y deportivos que simbolizan la moral del rebaño. Una moral que ha tenido que asimilar, por mecanismos inconscientes, “valores” que no resisten ninguna confrontación con sistemas éticos universales: el egoísmo, el lucro desenfrenado, el consumismo, el desprecio del débil, la insolidaridad, la idolatrización de la fuerza, del poder y de la riqueza, la competitividad (lúdica y empresarial), el olvido, la prioridad del interés individual y corporativo por encima del bien común, la mercantilización del saber y de la justicia. Esa moral del rebaño aceptada como autoridad difusa, anónima, pero absoluta e implacable, define los estigmas que aclimatan la aceptación y asimilación social del exterminio. Sobre esa base se apoyan “las personas de bien” que sesionan en la oscuridad con autoridades militares y/o civiles, con empresarios de poder, con empresas de seguridad privadas o mixtas, y allí tasan los incentivos económicos que retribuyen a los operarios del último eslabón del Genocidio, ya casi totalmente clandestinizados e inmunes, por tanto, a todo proceso judicial: los pistoleros encapuchados montados en motos sin placas que se benefician del terror y que eliminan en silencio al que estorba, desde la impotencia de la dignidad ética, decisiones de quienes controlan el Estado Establecimiento.
Echar una mirada de conjunto a nuestra historia republicana “democrática”, lleva a descubrir los parámetros de una “democracia genocida” y a asistir a un proceso taimado de democratización progresivamente refinada del Genocidio. En largos períodos aparecerán responsables evidentes del crimen, en otros, la omisión y la responsabilidad de mando impedirían la impunidad de un crimen tan horrendo y tan englobante, pero justamente la responsabilidad de mando ha sido neutralizada por los actuales poderes, en la discusión sobre los alcances constitucionales de la JEP, para que pueda seguir funcionando la democracia genocida, incluso dentro de los logros más publicitados del “Acuerdo de Paz·
Javier Giraldo Moreno, S. J. – Agosto de 2019

NOTE

1 Resolución 96(I) del 11 de diciembre de 1946

2 Experto polaco, quien creó el término Genocidio y lo introdujo y sustentó en el derecho internacional.

3 FEIERSTEIN, Daniel, El Genocidio como Práctica Social, Fondo de Cultura Económica, Buenos Aires, 2011, pg. 53
4  Fundación Lluis Espinal, Cuadernos Cristianisme i justicia, No.61, septiembre de 1994
5  Colombia, The Genocidal Democracy, Common Courage Press, Monroe, Maine, 1996

6  Paul Oquist, Violencia, Conflicto y Política en Colombia, Biblioteca Banco Popular, Bogotá, 1978, pg. 47
7  Decreto de Bolívar del 20 de mayo de 1820, desde el Cuartel General del Rosario de Cúcuta y Ley 11 de octubre de 1821.

8  Documentos secretos dejados por el General William Penham Yarborough, jefe de la misión realizada en Colombia en febrero de 1962 desde la Escuela de Guerra Especial de Fort Bragg, Carolina del Norte, texto archivado en la Casilla 319 de los Archvos de Seguridad Nacional, Biblioteca Kennedy, citado por Michael McClintock en “Instruments of Statecraft”, Pantheon Books, New York, 1992, pg. 222.
9  Cfr, Sentencia C-456/97, Corte Constitucional, Salvamento de Voto Magistrados Carlos Gaviria y Alejandro Martínez

10  FROMM, Erich, Psicoanálisis de la Sociedad Contemporánea, Fondo de Cultura Económica, México 1977, pg. 130.

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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