Gerusalemme: la Disneyland di Israele

di Francesca Merz e Michele Giorgio

(foto di Michele Giorgio)

Ci sono argomenti di dibattito internazionale che non trovano nemmeno una riga scritta in italiano, da nessuna parte, uno di questi riguarda il futuro dello skyline di Gerusalemme. Argomento certamente di grande interesse sotto il profilo dello storico dell’arte, dell’architetto, del paesaggista, ma, soprattutto, vero e proprio grande tema politico. Nell’ambito del grande piano per la turisticizzazione di Gerusalemme, e contestualmente della necessità di controllare i flussi in arrivo, non solo nella fase di accesso al Paese, ma soprattutto negli itinerari e nei luoghi ai quali i turisti possono accedere, di lavorare col turismo di massa, e di concretizzare al massimo le entrate derivanti da un turismo facilmente indottrinabile, sono in ponte nuovi progetti: il National Infrastructure Committee (NIC) ha approvato la richiesta del piano per la costruzione di una funivia nella Città Vecchia. Il progetto, che andrà a modificare il maniera sostanziale l’aspetto della città, avrà ripercussioni economiche, culturali e politiche per la Città Vecchia e non solo.

La ratifica del progetto è avvenuta in un modo quanto mai anomalo, promossa dal Ministro del Turismo Yariv Levin e dall’Autorità per lo Sviluppo di Gerusalemme (JDA), in una prima fase sono stati stanziati 18 milioni di shekel, destinati alla pianificazione. Con un colpo di coda atto a bypassare le commissioni per la conservazione dello stesso stato israeliano, il Ministero del Turismo ha deciso di dare la precedenza a questo progetto definendolo una “priorità nazionale”, una categoria che di solito è riservata all’avanzamento di progetti infrastrutturali e costruzioni stradali, aggirando così efficacemente i comitati destinati a elaborare tali progetti. La funivia è stata definita dal National Infrastructure Committee (NIC) come un progetto di trasporto progettato per ridurre la congestione delle strade che portano alla Città Vecchia.

Nella prima fase il percorso della funivia comprenderà tre stazioni: dal sito della Prima stazione a Monte Sion, e da lì al Kedem Center all’ingresso di Silwan. Verrà inoltre costruito un grande parcheggio per lasciare autobus e auto. Il piano a lungo termine, non attualmente approvato, comprenderà invece la costruzione di stazioni sul Monte degli Ulivi e vicino alla piscina Siloam ai margini del Wadi e nel quartiere Hilweh di Silwan.

La maggior parte dei problemi di pianificazione sembrano concentrarsi tra la stazione di Sion e il centro Kedem. Al centro del dibattito, se dibattito si può chiamare la scelta di uno Stato occupante nei confronti della popolazione palestinese che vive in questi quartieri, è che la costruzione di queste nuove stazioni comporterebbe la demolizione di alcuni piani superiori di case del quartiere di Silwan.

Il Kedem Center, così come progettato andrà a diventare l’edificio più grande della Città Vecchia, con una superficie complessiva di 15.000 metri quadrati, situato a soli 20 metri dalle mura della Città Vecchia. Il fatto che questo progetto, il cui impatto sul paesaggio storico di Gerusalemme sarà drastico e irreversibile sia stato posto nei termini della “priorità nazionale” fa chiaramente intravedere gli interessi politici ed economici che ne stanno alla base, e dovrebbe, aldilà della preoccupazione per gli abitanti delle zone interessate alle demolizioni, allertare tutta la comunità internazionale.

Molti esperti di conservazione e architetti, stanno protestando contro la “Disneyfication” del bacino storico della città, tanto che è arrivato ad occuparsi del caso anche il New York Times, nella figura di Michael Kimmelman, giornalista e principale critico d’arte del quotidiano statunitense.

Kimmelman è arrivato in Israele a metà luglio sulla scia di una petizione internazionale proprio contro il piano per la costruzione della funivia: trentacinque importanti architetti e storici dell’architettura della comunità internazionale si sono uniti ai loro colleghi e alle società di conservazione dei beni culturali in Israele per esprimere la loro veemente opposizione al progetto.

Come indica in maniera assai precisa nel suo articolo, la funivia di Gerusalemme non è la soluzione di trasporto funzionale che i suoi sostenitori sostengono che sarà, ma un chiaro prodotto della realtà politica nell’Israele del 21° secolo, le ragioni che stanno alla base della “necessità nazionale”, sono come sempre politiche ed ideologiche, mascherate da necessità di sviluppo e progresso. Kimmelman ha capito che le ragioni sono soprattutto di natura politica, con lo scopo di nascondere il carattere universale della città, in modo che “curi una narrazione specificamente ebraica di Gerusalemme, promuovendo le rivendicazioni israeliane sulle parti arabe della città”.

Dal suo punto di vista, la funivia – che ignora l’esistenza del villaggio arabo di Silwan, dove verrà eretto uno dei suoi giganteschi piloni, rappresenta l’approccio generale del governo israeliano verso i palestinesi, come parte di una brutale strategia che ha lo scopo di rendere la vita difficile, impadronirsi delle proprietà dei palestinesi e infine costringerli a lasciare la città.

Un altro principio che deriva dall’articolo di Kimmelman e sul quale è necessario soffermarsi è nella stessa concezione del progresso infrastrutturale della città di Gerusalemme portato avanti dalle autorità israeliane, ovvero quello che lui stesso chiama il metodo “taglia e incolla”: le idee vengono importate in Israele in modo avventato, senza alcun riferimento ai singoli contesti locali, e in maniera specifica con la mal celata necessità di eliminare gli spazi per i cittadini, in una tensione costante verso la mercificazione e dysneyzzazione della città.

La violazione delle restrizioni sui grattacieli in tutte le parti della città, che è destinata, in parte, a trasformare l’ingresso di Gerusalemme in un enorme blocco di edifici per uffici e centri commerciali con torri di vetro a 40 piani è solo uno dei tanti esempi di pianificazione del “taglio” da Singapore o Jakarta e “incolla” a Gerusalemme. Inoltre è stata la stessa Shira Talmi Babay, pianificatore distrettuale, ad aver dichiarato a TheMarker che Singapore è il modello di pianificazione adeguato per Gerusalemme.

Dell’esperienza di Kimmelman è importante notare il fatto che l’esperto è andato anche in visita in campi profughi, e qui, uno dei più grandi esperti di urbanistica e arte internazionale, ha rilevato come in totale assenza di pianificazione si siano costituite, grazie ad un’architettura spontanea, spazi di comunità legati alla visione della cittadinanza e non orientati solo ai flussi turistici e alla mercificazione della città.

I pianificatori israeliani hanno totalmente dimenticato, come sottolinea lo stesso Kimmelman, di dover fornire non solo alloggi, ma anche “spazio comune”, al fine di evitare la sensazione di vivere in quartieri fantasma alienati, e se è vero, come è vero, che il problema è ben noto in molte città, il fatto che la repressione di spazi comunitari vada a incidere proprio sulla possibilità di riunione, manifestazione e condivisione delle comunità storiche non può non portare all’attenzione internazionale di come la pianificazione in ottica di disneyficazione della città contribuisca anche al principale scopo politico dello Stato sionista. I quartieri in difficoltà sono stati del tutto ignorati, i danni in termini sociali ed ecologici sono già incalcolabili.

Inoltre, la costruzione della funivia, avrà un ulteriore vantaggio per la narrazione, la tipologia stessa di trasporto andrà a modificare i flussi turistici e in particolare i luoghi toccati da questi flussi. E’ sentore comune e condiviso che la fruizione stessa di un complesso storico possa essere garantita al meglio entrando in una città storica attraverso le sue storiche entrate, che nel tempo, per l’appunto ne hanno caratterizzato l’evoluzione urbanistica e la fruizione, la funivia è invece destinata a “scaricare” i suoi passeggeri nel Kedem Center. L’ingresso alla Città Vecchia avverrebbe a quel punto necessariamente tramite tunnel o attraverso Dung Gate.

Va ricordato che il Kedem Center, che  diventerebbe a quel punto il luogo di accesso a tutta la città Vecchia, appartiene alla Fondazione Elad, Fondazione nazionalista ebraica. Non è difficile comprendere come la costruzione stessa della funivia si identifichi con l’acquisizione ebraica di Silwan, poiché essa sarà gestita da coloni o entità nazionaliste, e terminerà la sua corsa nel grande centro Kedem, è dunque abbastanza scontato e ragionevole supporre che pochi palestinesi useranno i servizi della funivia.

Va inoltre detto che, divenendo il Centro il principale accesso alla città Vecchia, pare allo stesso modo del tutto probabile che l’accesso alla città sarà a pagamento tramite il Kedem Center, che le guide che partiranno dal Kedem Center realizzeranno speciali visite per le carovane di turisti in arrivo con percorsi di racconto molto specifici; già ora tutti i percorsi turistici, i pannelli esplicativi in giro per la città, e il racconto della cosiddetta “Città di Davide” dimentica ad esempio di raccontare la presenza di cristiani e musulmani a Gerusalemme.

Verrà così a essere costituita una nuova rotta di trasporto turistico, con una capacità di 3.000 persone all’ora per la Città Vecchia e capace di produrre enormi profitti per i gestori che determineranno percorso e suoi contenuti. Gli organismi che trarranno vantaggio da questo progetto saranno Elad, che gestisce la città di David e il Centro Kedem, e la Western Wall Heritage Foundation, che gestisce i tunnel del Muro occidentale, inoltre sarà l’ennesima esperienza indirizzata dal nazionalismo israeliano, i visitatori non saranno più liberi di muoversi all’interno di un tessuto urbano occupato e diversificato, ma saranno “incanalati” in siti come i tunnel della città di David e del muro occidentale dove, oltre ad addebitare un vero e proprio costo d’entrata alla città, il turista sarà anche indirizzato ancor di più verso una narrazione “chiusa”, modellata secondo le opinioni nazionali e religiose, basate putativamente su reperti archeologici selezionati tra quelli trovati,  nascondendo del tutto le parti non ebraiche del passato di Gerusalemme.

La città di Gerusalemme è meta da millenni di pellegrinaggi; crogiolo di culture e di religioni, per questa stupenda città sono passate culture millenarie, e qui i popoli si sono incontrati e scontrati per secoli. Sembra una storia antica, ma quanto mai attuale.

E’ proprio questa storia, o meglio, una parte di questa storia, al centro delle nuove politiche dello stato di Israele, politiche che, negli ultimi anni, hanno visto l’apertura al turismo come una delle principali azioni e strategie. La comunicazione nell’ultimo anno è stata, come sempre accade quando c’è Israele di mezzo, del tutto vincente, un video colorato e con persone di ogni carnagione è il marchio comunicativo della campagna “Visit Israel”, con immagini mozzafiato e vedute aeree dal drone. Apertura, interculturalità, capacità di essere internazionali e aprirsi al mondo, al turismo l’immagine che Israele mostra al mondo. Ma dietro questa promozione si celano alcuni retroscena. Tentiamo di analizzarli. Il piano di sviluppo turistico dello Stato ha in sé molte motivazioni.

Uno dei piani strategici presentati dallo Stato israeliano, il piano Marom, punta a sviluppare Gerusalemme come città turistica. Solo nel 2014, il Jerusalem Institute of Israeli Studies ha condotto 14 delle sue 18 ricerche di quell’anno nel settore turistico e le ha sottoposte al Comune di Gerusalemme, al Ministero di Gerusalemme e a quello degli Affari della Diaspora e all’Autorità di Sviluppo di Gerusalemme. Legato a questo, il governo israeliano ha stanziato 42 milioni di dollari per sostenere Gerusalemme come meta turistica internazionale, mentre il Ministero del Turismo dovrebbe allocare circa 21.5 milioni di dollari per la costruzione di hotel e ricettività. L’Autorità ha anche offerto specifici incentivi agli imprenditori e alle compagnie che costruiscono o ampliano alberghi a Gerusalemme e organizzano eventi culturali per attirare visitatori, come il Jerusalem Opera Festival, o eventi per l’industria del turismo, come il Jerusalem Convention for International Tourism. Promuovere il settore turistico è anche alla base del Jerusalem 5800 Master Plan che immagina Gerusalemme come “città globale, importante centro turistico, ecologico, spirituale e culturale mondiale” che attiri 12 milioni di turisti (10 milioni di stranieri e 2 di locali) e oltre 4 milioni di residenti.

Per rendere Gerusalemme “l’attrazione turistica del Medio Oriente”, il piano punta a aumentare gli investimenti privati e la costruzione di hotel, la costruzione di giardini-terrazza e parchi e la trasformazione di aree che circondano la Città Vecchia con la costruzione di alberghi, e vietando la circolazione delle auto. Il piano prevede la costruzione di un aeroporto nella valle di Horkania, tra Gerusalemme e il Mar Morto, per servire 35 milioni di passeggeri all’anno. L’aeroporto sarà collegato con strade e ferrovie a Gerusalemme, all’aeroporto Ben Gurion e altre città. Il Jerusalem 5800 tenta di presentarsi come piano che promuove “la pace attraverso la prosperità economica” ma ha obiettivi demografici che dimostrano il contrario. Prevede infatti che i 120 miliardi di dollari di valore aggiunto dall’attuazione del piano, insieme ai 75-85mila impiegati negli alberghi e i 300mila nelle industrie dell’indotto, attireranno più israeliani ebrei a Gerusalemme, aumentandone il numero e facendo pendere la bilancia demografica ebrei-arabi a favore dei primi. Tuttavia il settore turistico non è visto solo come motore di sviluppo economico per attrarre ebrei in città. Lo sviluppo turistico porta con sé la possibilità di controllare la narrazione e garantire la proiezione di Gerusalemme all’esterno come “città ebraica” (vedi la mappa ufficiale della Città Vecchia del Ministero del Turismo). Israele ha per tale ragione irrigidito le misure per chi lavora come guida turistica: le guide non assumono come unica la narrazione israeliana e che tentano di dare un’analisi alternativa e critica della situazione possono perdere la licenza. Questi piani per promuovere l’industria del turismo israeliana vanno di pari passo con le restrizioni imposte da Israele allo sviluppo della stessa industria palestinese a Gerusalemme Est.

Tra gli ostacoli posti: l’isolamento di Gerusalemme Est dal resto dei Territori Palestinesi Occupati, specialmente dopo la costruzione del Muro, e la conseguente fortissima contrazione del turismo arabo, le alte tasse; le restrizioni nel rilascio dei permessi per la costruzione di hotel a non ebrei, o la conversione di edifici in alberghi; e le difficili procedure per ottenere licenze per gli uomini d’affari palestinesi. Questi ostacoli, insieme ai milioni di dollari che vengono versati nel mercato turistico israeliano, fanno sì che l’industria turistica palestinese non abbia speranza di competervi.

Ma lo sviluppo del settore turistico, e di un particolare tipo di turismo, come vedremo nella seconda parte dell’articolo, con il conseguente fenomeno della gentrificazione della città, o meglio della sua mummificazione, risultano essere un ulteriore strumento di apartheid. Il boom turistico di Israele negli ultimi anni, culminato con i recenti accordi con molteplici scali internazionali e con le compagnie low coast, come la RyanAir, pare rientrare alla perfezione in quel meccanismo di controllo dei flussi turistici e soprattutto nella necessità di controllare la narrazione data ai turisti. L’ormai fortissimo Stato Israeliano, dopo anni di chiusura e controlli serrati verso l’esterno, ha così aperto i flussi incentivando un turismo di massa, gestito dalle grandi compagnie e organizzazioni israeliane, facilmente controllabile nei suoi percorsi cittadini, molto facilmente indottrinabile, e con usi e consumi tendenzialmente occidentali (i nuovi scali prevedono l’intensificazione delle partenze dall’Europa), e quindi pronti a riversarsi nei centri commerciali e nei locali USA style. Un significativo dibattito sul fenomeno della mummificazione o desertificazione di Gerusalemme sta quindi prendendo piede; il fenomeno, va detto, è quanto mai noto nelle nostre città, spesso si affronta il tema per luoghi come Firenze o Venezia, ma Gerusalemme non è un luogo come un altro, e non solo per la sua storia millenaria, ma perché terreno di uno dei conflitti sociali, economici e culturali più noti ma meno conosciuti del mondo.

LA “MUMMIFICAZIONE” DELLA CITTA’

Il dibattito internazionale su flussi turistici e desertificazione dei centri è molto ben esplicitato in un termine assai appropriato, ossia la “mummificazione” delle città , ovvero la capacità del turismo di massa di uccidere la città, nella loro essenza, memoria, capacità di rigenerazione sociale, svuotandole di vita, privandole dell’interiore, facendole diventare un immenso parco a tema,  in una sorta di tassidermia urbana. Molta buona politica internazionale sta cercando di porsi il problema e di porre le basi per un suo potenziale superamento, non è questa la sede per ricapitolare le esperienze e i metodi utilizzati da città come Amburgo, Barcellona, Londra, Bruges per tentare di sovvertire questo meccanismo, ma è la sede per ricordare che questo meccanismo è ben noto.  In Israele il meccanismo non solo non si sovverte, ma anzi, proprio questo processo risulta utilissimo per svuotare le città occupate, Gerusalemme su tutte (ma anche città come Nazareth e Betlemme) della propria memoria storica, del proprio commercio, delle attività culturali, degli spazi pubblici, di gioco, di vita, insomma degli spazi della comunità, per fare spazio a “servizi per il turista”; tutto ciò, ovvero la memoria storica, gli spazi della comunità, gli antichi esercizi commerciali coincidono in questa parte di mondo alla memoria del popolo palestinese. Con un’unica grande operazione di richiamo turistico Israele è riuscita dunque a aumentare notevolmente gli introiti in relazione al settore ricettivo, e distruggere una storia non più utile a fini propagandistici. Gerusalemme è una città di pellegrinaggi, abituata da secoli a ricevere l’arrivo di persone di ogni religione, ed è esattamente esaltando questo processo che Israele ha basato la sua narrazione di “accoglienza turistica” ratificando accordi con compagnie low cost che consentono l’arrivo a Tel Aviv con prezzi assolutamente competitivi, dagli 80 ai 100 euro andata e ritorno dai maggiori aeroporti italiani, ad esempio. La creazione di un turismo di massa consente di esercitare una pratica ben nota allo Stato israeliano, ovvero il controllo di gruppi su vasta scala, gruppi che hanno le caratteristiche del turismo inconsapevole: necessità di una guida che li porti in percorsi specifici ben conosciuti alle autorità e precedentemente “ripuliti” dalla presenza della cultura non utile a fini propagandistici, necessità di viaggi organizzati da tour operator, totale interdipendenza dei partecipanti che si muovono in gruppi praticamente privi di autonomia di movimento, incanalati in percorsi di facilissimo controllo.

Il boom turistico di Gerusalemme ha in qualche modo giustificato, come avviene in molte città del mondo, la creazione di servizi specifici per questa tipologia di turismo organizzato. Il processo ha ingenerato risultati scontati: in nome del decoro, del combattimento del degrado, della necessità di creare parcheggi per i grandi bus turistici, e della creazione di direttrici adatte al turismo di massa, Gerusalemme si è trasformata in una zona rossa permanente, il principio è quello di eliminare tutto ciò che è legato alla storia comunitaria, alla cittadinanza attiva, ai servizi per il cittadino, alle pratiche dell’abitare, per trasformare con più velocità possibile Gerusalemme da città di vita dei suoi abitanti e della sua storica comunità, a “città museo” a cielo aperto, con la peculiarità che quel museo sarà esclusivamente gestito dagli israeliani, così come da loro è gestita la totalità dell’incoming turistico, anche solo perché detengono il controllo dell’unico scalo aereo. Al meccanismo di controllo si somma il fatto che, controllando le masse di turismo in entrata, il governo israeliano può controllare nel dettaglio anche la narrazione sulla città, sulla storia, sui siti archeologici, ampliando così in maniera velocissima la propria “pubblicità” e raccontando la propria versione della storia, ad una sempre crescente quantità di persone. I percorsi turistici concepiti nel nuovo piano della Gerusalemme occupata raccontano una storia parziale, per usare un eufemismo, riesumando “prove” archeologiche che non tengono conto della stratificazione delle civiltà ma solo quelle che risultano utili per la narrazione imposta.

La prima e più banale delle modifiche, è stata una vera e propria modifica del giro della città, e della sua storica entrata. I grandi bus turistici si fermano ora nel grande parcheggio organizzato vicino alla porta di Jaffa, a sua volta porta di riferimento della Gerusalemme sotto il controllo israeliano, mentre la porta da cui tutti i pellegrini nei secoli sono entrati e hanno considerato come principale, ovvero la Porta di Damasco, unica porta che porta direttamente all’antico suq (o meglio a quel poco che ne sta rimanendo), sta diventando una porta secondaria, quasi un passaggio “esotico” per turisti che amano il brivido, con orde di turisti totalmente inconsapevoli che passano per quelle vie, quasi che quei piccoli brandelli di vita reale fossero attori, comparse dai tratti orientali in una terra ormai fatta di centri commerciali a sei piani. L’intento, da qui a qualche anno, così come sta già avvenendo, è di non far più passare i turisti per locali e luoghi frequentati e gestiti da palestinesi, questo ovviamente ha un duplice riscontro in termini economici: le tipologie di commercio storiche, gestite dai palestinesi, erano servizi per la cittadinanza, si tratta di panifici, piccoli fruttivendoli, negozi che riparano scarpe, artigiani; Israele, lavorando attivamente per incentivare il turismo di massa, cambia la toponomastica della città in modo da indirizzare i flussi per nascondere del tutto l’esistenza dei palestinesi, e aumentare esponenzialmente il fenomeno di mummificazione della città, ottemperando, in questo meccanismo, nel medesimo momento a più obiettivi, da un lato quello di arricchire esponenzialmente i centri commerciali e i nuovi negozi che nascono ad uso e consumo dei turisti a Gerusalemme, dove i turisti si sentono coccolati da forme e marche che conoscono, da fast food internazionali, marchi vegan, locali fusion, uguali in tutto il mondo, dall’altra parte distruggere una parte sostanziale della memoria di una città millenaria, legata, chiaramente, al popolo palestinese. Jaffa street, con i suoi Mall e le sue catene di fast food ci fa sentire coccolati da ciò che conosciamo, molto più che la visita alla porta di Damasco e al suq. In questa parte di città, tra le viuzze dimenticate, vedreste negozi chiusi, anziani sarti palestinesi che resistono all’ondata di affaristi e speculatori, passando le proprie giornate in negozi vuoti, senza più clienti, senza più una comunità, senza più una vita, per il solo dovere della resilienza, quel “sumud” che riempie gli occhi di lacrime a quegli uomini e quelle donne che Gerusalemme se la ricordano come il luogo magico che doveva essere settanta anni fa, con l’oro delle sue mura, i suoi vicoli riparati dal sole, il senso incombente di eternità, il silenzio delle tre di pomeriggio interrotto solo dalle urla dei bimbi che escono dalla scuola, scene che possono essere viste solo uscendo dai percorsi turistici, scene che potrete ancora vedere in alcuni vicoli stretti e dimenticati della Gerusalemme  Est,  nelle pochissime scuole palestinesi rimaste, scuole i cui muri sono coperti dal filo spinato, perché costantemente bersaglio delle rappresaglie di coloni.

La mummificazione della città, il suo svuotarla della vita, è un meccanismo fisiologico di ogni massiccia turisticizzazione cittadina, un fenomeno studiato nel dettaglio dall’autorità Israeliana, e utilizzato esattamente alla stregua di quei meccanismi di controllo di cui parla diffusamente Neve Gordon nel testo dedicato all’ occupazione israeliana, un controllo non solo sulle masse palestinesi, ma, ora, anche sulle masse provenienti da fuori, per un indottrinamento subito in maniera del tutto inconsapevole dai turisti che percorrono le vie di Gerusalemme.

Il progetto ovviamente non si limita a Gerusalemme, ma va ben oltre, sono inserite all’interno dei tour anche cittadine quali Nazareth, Betlemme o Gerico, che si trovano in Palestina. Il refrain con il quale vengono promossi tutti questi luoghi è sotto l’egemonia del marchio “Visit Israel”, in quel processo di appropriazione di terre, culture e spazi vitali, che vede ora nel turismo di massa una delle armi più subdole e vincenti.

da qui

scrive Michele Giorgio:

«La storia di re Davide e le radici della sua dinastia sono qui, tra questi scavi, tra queste pietre. La storia di re Davide è quella di Gerusalemme e di Israele, da tremila anni fa fino ai nostri giorni». La guida, un giovane sulla trentina, sorride, accompagna la sua narrazione con movimenti lenti della testa e delle mani rivolgendosi ad un gruppo di turisti seduti sugli spalti che si affacciano sugli scavi. La vista dal “Parco archeologico della Città di Davide” è mozzafiato. In alto si scorgono le mura antiche di Gerusalemme con le cupole delle moschee di Al Aqsa e della Roccia, il terzo luogo santo dell’Islam e, secondo la tradizione ebraica, l’area del biblico Tempio. Di fronte, ad est, dominano il Monte degli Ulivi e l’antico cimitero ebraico. In basso c’è la piscina di Shiloah.

La giovane guida, come i suoi colleghi, abbina l’archeologia alle gesta di re Davide e di eroici combattenti ebrei lanciati alla conquista di Gerusalemme e poi nella difesa della città. Lo stesso si può ascoltare nei filmati descrittivi disponibili nel parco, visitato ogni anno da mezzo milione di turisti e gestito interamente, con l’approvazione delle massime autorità comunali e governative, dalla Elad, società “immobiliare” del movimento dei coloni israeliani insediati nella zona araba di Gerusalemme, occupata nel 1967. Guide turistiche e filmati rendono invisibile una presenza ben evidente ma che “stona” all’interno della narrazione ufficiale del luogo: le centinaia e centinaia di case palestinesi del quartiere di Silwan, che avvolgono il “sito archeologico”.

Nella “Città di Davide” non c’è spazio per una storia più articolata. C’è un’unica storia che non si discute. Qui il racconto biblico è una verità assoluta e fonte primaria della legittimità dello Stato di Israele. È un trattato di politica internazionale firmato anche dagli Stati uniti. L’ambasciatore Usa David Friedman, partecipando a giugno alla cerimonia di inaugurazione, nell’area della “Città di Davide”, della Via del Pellegrinaggio, il percorso che anticamente avrebbe collegato la piscina di Siloam al Monte del Tempio, ha dichiarato perentorio che «Essa (la Via del Pellegrinaggio, ndr) porta alla luce la verità storica di quel periodo cruciale della storia ebraica. La pace tra Israele e palestinesi deve basarsi su un fondamento di verità. La Città di David contribuisce al nostro obiettivo collettivo di perseguire una soluzione fondata sulla verità. È importante per tutte le parti coinvolte nel conflitto».

Friedman vuole che «la verità» emerga. La sua verità ovviamente, che è quella dei coloni e di coloro che usano l’archeologia biblica per fini politici e per negare i diritti dei palestinesi. Quindi re Davide è tra i candidati alle elezioni israeliane del 17 settembre. Sull’archeologia politica si fonda il programma politico e la campagna elettorale di Yemina, la coalizione di forze della destra sionista religiosa e, sempre di più, quella del Likud del premier Netanyahu. Parliamo dello schieramento al potere da dieci anni in Israele. Vale la pena di ricordare che non pochi dei laici fondatori di Israele e alcuni dei suoi primi leader politici sono stati archeologi con evidenti finalità politiche.

Ma il protagonista di questa storia, re Davide, è davvero esistito, le vicende che gli vengono attribuite sono avvenute? E più di tutto, ha davvero vissuto ed esercitato il suo potere nell’area del quartiere palestinese di Silwan, tra le pietre antiche della “Città di Davide” allestita dai coloni? «In quell’area hanno scavato famosi archeologi del passato e scavano quelli del presente ma la prova della presenza di re Davide non è mai stata trovata» ci spiega l’archeologo Yonathan Mizrachi, di Emek Shaveh, una ong israeliana che si oppone a chi usa le rovine del passato come uno strumento politico e per espropriare proprietà palestinesi. «Per prove – aggiunge Mizrachi – intendiamo ritrovamenti materiali e iscrizioni che attestino l’esistenza della tomba o del palazzo di re Davide o che siano inequivocabilmente riconducibili a lui. L’era di re Davide, sulla base della Bibbia, è indicata nel X secolo a.C. ma non si è trovato molto di quell’epoca (nel sito della “Città di Davide”). I ritrovamenti annunciati da alcuni archeologi sono controversi. Un interrogativo grava su tutto ciò che riguarda Gerusalemme ai tempi di re Davide. Quanto fosse grande e quale funzione avesse la città in quel periodo da un punto di archeologico e dei fondamentali di storia, è un’area molto grigia che non ci permette di affermare nulla con certezza».

Profondi dubbi sulla credibilità storica del racconto biblico sono sollevati dal professor Israel Finkelstein, archeologo israeliano di fama mondiale (alcuni dei suoi libri sono stati tradotti in italiano). Pur non facendo parte della corrente minimalista, che colloca la composizione della Bibbia nel periodo del rientro degli ebrei dalla Babilonia, il docente sostiene che gran parte di ciò che si legge nel testo sacro è stato scritto tra il VII e il V secolo a.C. e che Gerusalemme nel X secolo a.C. è stata solo un villaggio o un centro tribale. Non solo. Finkelstein afferma che Davide e Salomone, ovvero il seme della civiltà occidentale e spina dorsale della storia antica degli ebrei, se davvero sono esistiti dovevano essere ben diversi dai personaggi che hanno ispirato scultori, pittori, scrittori, poeti. Davide, sostiene Finkelstein, era a capo di una minuscola e invivibile Gerusalemme. Lui e il suo successore furono trasformati in potenti re e simboli di speranza dagli ebrei nei secoli successivi. «La loro storia è stata scritta in Giudea – ha dichiarato il docente in una intervista di qualche anno fa al quotidiano Yediot Ahronot – per giustificare il dominio su un gran numero di rifugiati arrivati lì dopo la distruzione del Tempio». Tesi respinta dai coloni e dalla stella dell’archeologia biblica Eilat Mazar.

Il 4 agosto 2005 Mazar, per la gioia degli ultranazionalisti, annunciò di aver scoperto nel sito di Silwan il presunto palazzo del re Davide, un edificio, disse, risalente al X secolo a.C. Nel 2010 proclamò di aver individuato le presunte antiche mura della città di Davide. Scoperte smentite, per scarsità di prove, da specialisti israeliani e stranieri che accusano la Mazar di credere che la Bibbia sia storia vera dalla prima all’ultima parola. Per la Elad e il movimento dei coloni invece quelle scoperte legittimano le occupazioni di case palestinesi a Silwan cominciate all’inizio degli anni ’90, l’espansione continua del sito archeologico e il proseguimento degli scavi. Lavori in gran parte sotterranei che, denunciano i palestinesi, mettono a rischio la stabilità delle loro case e lasciano immaginare deportazioni di popolazione in futuro. Ma le loro voci restano inascoltate.

Il 17 settembre quindi si voterà anche in nome dei re Davide e Salomone. «Non è una esagerazione – dice Yonathan Mizrachi – votare per certe forze politiche significa appoggiare progetti di esproprio e di demolizione di case palestinesi in aree archeologiche e i piani di chi apertamente punta ad ottenere la spartizione della Spianata delle moschee di Gerusalemme per ricostruire il Tempio ebraico. Ed intende riuscirci ad ogni costo, accada quel che accada».

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