La forza e la tenerezza

Un incontro con Aleida Guevara March (PRIMA PARTE)

di Gianni Sartori

Nel mese di marzo Aleida Guevara, figlia di Ernesto Che Guevara, ha tenuto diversi incontri in Italia (a Napoli e nel vicentino, a Nove e Marostica) per illustrare il progetto dell’Operacion Milagro- Construyendo el Alba de los pueblos.

Scopo principale, la raccolta di fondi per il progetto di aiuto – gratuito – alle persone affette da problemi alla vista in varie aree povere del pianeta.

Con Aleida, in margine all’incontro, ho potuto scambiare qualche impressione. E anche ricordare suo nonno che avevo conosciuto nel secolo scorso consegnandole copia delle lettere che il padre del Che – Ernesto Guevara Linch – mi aveva inviato fra il 1984 e il 1987 (ma qui andiamo sul personale).

L’iniziativa di Marostica “I valori del CHE – ieri, oggi… domani?” era stata organizzata da Progetto Sport e Cultura su iniziativa di Giuseppe Josè Bertoncello col patrocinio dei comuni di Nove e Marostica. Fondamentale l’apporto di Antonio Vermigli della Rete Radiè Resch di Quarrata.

Nata nel 1960, Aleida Guevara March è specializzata in pediatria e allergologia all’ospedale William Soler dell’Havana. Figlia del famoso comandante di origine argentina, è nata dalle seconde nozze di questi con la guerrigliera cubana Aleida March. Attivista per i diritti umani e sostenitrice della cancellazione del debito dei Paesi in via di sviluppo, Aleida Guevara ha parlato sia dell’attuale situazione sociale a Cuba, sia dell’eredità culturale e politica del padre Ernesto.

Quindi non dell’icona guerrigliera, ma piuttosto dei valori dell’uomo Ernesto Guevara de la Serna. Per proiettarli in un futuro nostro, dei nostri figli e nipoti. Valori, bisogna ammetterlo, al momento piuttosto evanescenti, forse appannati, ma pur sempre validi.

Non disperiamo. Ancora oggi tante persone vogliono conoscere la sua storia. Quella sera a Marostica la chiesetta di San Marco dove si è svolto l’incontro era al completo, molti i giovani e giovanissimi. Significa che in fondo il Che non se n’è mai andato, non del tutto almeno. La sua coerenza, le sue battaglie per la giustizia e la libertà rimangono un’eredità inossidabile. Tra gli interventi introduttivi, quello di Giorgio Bonotto presidente del circolo scacchistico “Città di Marostica” (universalmente conosciuta per la partita a scacchi – vivente – che si svolge nella piazza).

«Perché – ha sottolineato Bonotto – il Che era un appassionato di scacchi. Ha avuto modo di giocare con vari campioni mondiali e aveva organizzato tornei internazionali. A 11 anni conobbe il campione del mondo – dal 1921 al 1927 – José Raul Capablanca. Un cubano, tra l’altro».

Aleida ha premesso di «aver troppo rispetto per la lingua di Dante Alighieri per cercare di parlarla».

Per cui si sarebbe espressa in spagnolo. Ha poi osservato come «oggi sia domenica, il giorno in cui la gente si dedica alla famiglia… e quindi vi ringrazio perché mi fate sentire parte della vostra famiglia». Ci ha poi regalato qualcuno dei suoi preziosi ricordi: «Avevo quattro anni quando mio padre partì per andare a combattere in Congo»; poi ritornò a Cuba, su esplicita richiesta di Fidel, ma non voleva che si sapesse perché «avevo già salutato il popolo cubano».

In questa fase il Che concluse la sua preparazione in vista della Bolivia. Naturalmente prima di ripartire volle rivedere i figli anche se in incognito. «Allora io avevo cinque anni e mezzo – racconta Aleida – e me lo presentarono come “un amico del papà”. Nonostante le mie obiezioni si sedette a capotavola (quello era il posto di mio padre) dicendo che quella sera a capotavola si sarebbe seduto l’ospite. Mentre beveva del vino rosso io gli dissi “tu non sei amico di mio padre perché non bevi il vino con l’acqua (come usano gli argentini) e andai a prendere l’acqua versandola nel vino”». In seguito la madre le raccontò che Ernesto si mostrò orgoglioso «per come conoscevo e difendevo i suoi gusti. Quella sera giocando presi una botta in testa. Lui mi prese in braccio e io, ricordo, mi sentivo protetta, amata. Dopo, continuavo a richiamare l’attenzione di mia madre dicendole sottovoce che avevo un segreto. Lei mi spiegava che era da maleducati non parlare ad alta voce, ma io insistevo e allora papà fece un cenno affinché mi lasciasse dirlo. E io gridai “Mamma, io penso che quest’uomo sia innamorato di me”. Fu una serata bellissima, per me molto importante. Ma anche – credo – difficile per lui».

Aleida ha confessato che più avanti nel tempo, quando aveva sedici anni, talvolta si chiedeva perché volesse così bene a suo padre. In fondo «non aveva avuto molto tempo per stare con noi, i suoi figli».

Cominciò allora a «cercare nei ricordi e compresi, sentii che lui mi aveva amato molto. Fu importante per me. Quando ci chiedono se in fondo non ci siamo sentiti abbandonati, posso rispondere che abbiamo avuto un padre che ci amava molto. In fondo amare una persona significa comprenderla, amarla per quello che è, non per come la vorremmo. Lui ha cercato con tutte le sue forze di costruire un mondo migliore anche per noi. Ha avuto sia la tenerezza per amarci che la forza per seguire il suo sogno. E’ stato la nostra fonte di ispirazione per diventare esseri umani migliori».

E spiega: «Anche se non ci avviciniamo nemmeno all’alluce di mio padre, ci proviamo. Abbiamo avuto il destino di essere i suoi figli, ma questo non ci rende né migliori né peggiori. Soltanto donne e uomini degni del popolo a cui apparteniamo».

All’epoca di una missione medica in Nicaragua, qualcuno le chiese se lo stava facendo in quanto figlia del Che. Lei rispose che lo stava facendo «perché a Cuba ci hanno formato così. Per noi la possibilità di curarsi è un diritto dell’essere umano. Non è possibile lucrare sulla sofferenza, sul dolore e l’ansia delle persone. Noi medici cubani sappiamo di dover esserlo dovunque ci siano persone bisognose di cure».

Tornando ai ricordi dell’infanzia e adolescenza, non ha dimenticato come la madre «ci dava da leggere cose scritte da lui, ma senza che noi lo sapessimo. Così abbiamo cominciato a conoscerlo». E poi c’era la vicinanza degli amici del Che, quelli che avevano combattuto con lui. Quando nacque la sua prima figlia «appena mi svegliai vidi vicino al letto due compagni in divisa: Ramiro Valdéz (esponente del Movimento 26 luglio e poi ministro cubano -NDA) e Oskar Fernando Mel (oltre che comandante rebelde, fu ambasciatore e sindaco dell’Avana- NDA). Mi dissero “oggi qui non c’è tuo padre (era stato assassinato nel 1967), ci siamo noi, i suoi compagni». Erano lì per la figlia del loro amico. Le raccontarono che il padre era il loro superiore gerarchico, ma non aveva mai chiesto di fare qualcosa che lui stesso non facesse.

La zafra

Guevara fu l’ideatore del lavoro volontario a Cuba. Riteneva che in una società socialista un giorno alla settimana si dovesse lavorare per il popolo. E lui, nonostante l’asma, dava l’esempio. «Tagliare la canna da zucchero (la Zafra) – ci spiega Aleida – è un lavoro durissimo. Io l’ho sperimentato per qualche giorno e da allora bacio la terra dove passa un tagliatore. Mio padre vi andava ogni settimana, sebbene fosse ministro».

Ma prima passava al ministero (dell’Industria) per controllare che tutto funzionasse. Un giorno era di guardia il suo vice e il Che gli chiese se c’erano problemi. L’altro rispose di no e allora «Bene – gli disse – vieni con me a fare qualcosa di utile, a tagliare la canna».

Quanto a lei «io e i miei fratelli abbiamo imparato a vivere con il nostro nome. Mia mamma mi diceva: Voi riceverete molte cose, ma dovrete anche tenere ben saldi i piedi per terra. Non prendete mai quello che non vi siete guadagnato».

Un rigore, un’intransigenza che aveva solo un piccolo limite, peraltro comprensibile, legittimo: «La mamma non ha mai permesso a nessuno di criticare il mio papà» (*).

E aggiunge: «Quello che conta non è il fatto di essere i figli di un personaggio conosciuto internazionalmente, ma di due persone che si amarono intensamente. Questo sì mi fa sentire una donna speciale. Altrimenti mancherei di rispetto al mio popolo. Siamo vissuti come bambini, uomini, donne cubani. Orgogliosi di essere figli del popolo cubano».

Naturalmente, riconosce «la società cubana non è perfetta, ma i problemi dobbiamo risolverli dal nostro interno».

“Sono un medico cubano, ma so anche sparare”

Il discorso si era poi allargato all’attualità del nostro Paese che Aleida ha visitato spesso. Tuttavia «non posso dire di conoscere veramente un popolo, la gente di un determinato Paese finché non ho lavorato con loro. Quindi forse per questo dell’Italia non riesco ancora a comprendere alcune cose… per esempio quando avete rieletto Berlusconi. Inoltre finora non sapevo che questo è il secondo Paese al mondo con il maggior numero di basi militari statunitensi. Ne sono rimasta impressionata, sfavorevolmente. Anche perché pare che quasi nessuno si occupi di questo problema. Il vostro governo ha firmato accordi che consentono agli USA di fare praticamente quello che gli pare senza conseguenze».

Candidamente Aleida ha ammesso di non poter conciliare queste evidenti oscenità con «un Paese di antica e profonda cultura come l’Italia». Un Paese che «mi sembra non aver piena consapevolezza della propria storia (e cita, fra gli altri, Leonardo da Vinci). Ma cosa vi succede? Noi di basi statunitensi ne abbiamo solo una (Guantanamo) e ogni giorno lottiamo contro. Ma voi perché lo consentite, perché non reagite? Cuba, con soltanto 11 milioni di abitanti, si trova di fronte la maggior potenza mondiale e tuttavia loro non riescono a piegarci. Nemmeno con questo presidente stronzo. Sono un medico cubano e sono stata formata per difendere la vita, ma so anche sparare e ho una buona mira. Se ci dovessero invadere, sapremo difendere palmo a palmo la nostra patria. Questo è possibile perché siamo un popolo unito e come recitava la canzone di Unitad popular “El pueblo unido jamàs serà vencido!”».

(marzo 2019 – Marostica)

CONTINUA

(*) Un testo fondamentale per approfondire la dimensione umana, personale del Che è sicuramente il libro scritto da Aleida March, la mamma di Aleida Guevara: «Evocacion, mi vida al lado del Che».

 

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