La fragorosa invisibilità di Amiri Baraka

«Ma sta succedendo qualcosa qui / e tu non sai che cosa / non è così mister Jones?» chiede nel 1965 Bob Dylan, ancora lontano da divenire una star e una spa. Jones è cognome banale. O da schiavi liberati. In quel periodo sulla scena intellettuale Usa c’è un Jones, bohemien di successo, beffardo beat: ma qualcosa sta succedendo e anche Everett LeRoy Jones, Leroi per gli amici, sta per mutare nome e vita. Dal ‘67 diventa Ameer Barakat, grido di battaglia che modifica in Imamu Amiri Baraka perché suoni più africano. Dalla fine degli anni ’60 colui che fu Leroi Jones diviene voce della rivolta, nazionalista “nero” ma anche marxista, musulmano, terzo-mondista, spesso misogino, talvolta antisemita, riconosciuto anticipatore dei temi interculturali e della letteratura post-coloniale come delle tendenze rap e hip-hop. Contraddizioni e grandi novità ma anche continuità: e lui rivendica le une e l’altra.

Baraka è parola araba, difficile da tradurre: indica un mago o persona che gode del favore di dio. Ed è forse un incantesimo se questo 73enne ribelle sfugge a killer razzisti, incidenti loffi (come accaduto a tanti leader e intellettuali afro-americani), galere. Da quasi cinquant’anni graffia e destabilizza la scena culturale e politica: 20 raccolte di poesie, testi teatrali, dischi, opere-jazz, due romanzi, molti racconti, 8 volumi di saggi… Eppure nelle librerie italiane resta solo «Il popolo del blues» (ora ripubblicato da Shake in economica: evviva) del lontano ’63 ma sempre attuale. Per questo «Amiri Baraka, ritratto dell’artista in nero» davvero «colma un silenzio preoccupante nella cultura» italiana. Sono 12 saggi e un poema a lui dedicati più 15 suoi inediti che vanno dal 1967 fino al 2007 visto che «Diggin’» esce negli Usa in contemporanea a questo bel volume curato da Franco Minganti e Giorgio Rimondi per Bacchilega editore (304 pagine per 20 euri).

«Sempre più nero» (titolo italiano sotto il quale Feltrinelli nel 1968 raggruppò alcuni suoi scritti). Sempre arrabbiato: «sicuro che lo sono ma molto meno dei miei antenati sbarcati in catene dalle navi inglesi». Sempre convinto che l’arte possa essere rivoluzionaria. Oltre 30 anni fa, quand’era Jones, scrisse qualcosa che Baraka continua a sostenere: «Una persona nei guai dovrebbe poter attraversare la strada, avvicinarsi all’intellettuale più ferrato della zona ed esporgli il proprio quesito. […] L’intero concetto dell’arte occidentale è un artificio: per questo deve morire, perché è un fatto esterno se non per una comunità in astratto. Invece dev’essere essenziale come il panificio all’angolo»; e ancora: «Senza il dissidio, la lotta, non ci può essere un’estetica né nera né blu, ma solo un’estetica di sottomissione».

Oggi Baraka rivendica il ritorno negli Usa del griot africano (nel libro di Minganti-Rimondi c’è un suo choccante saggio) e il vecchio Leroi Jones sarebbe d’accordo visto che nel ‘65 in «Il sistema dell’inferno dantesco» scrisse: «l’eresia contro le proprie origini è il più spregevole dei mali». Oppure: «il peggior crimine che l’uomo bianco ha commesso è stato insegnarci a odiare noi stessi». Restano entrambi – Baraka e Jones – convinti che il jazz, la musica nera sia il punto più alto dell’arte e insieme della resistenza afroamericana: «il nostro canto è bello ma possiamo cantare mentre ci muoviamo. Muoviamoci».

Tutto ciò spiega la «fragorosa invisibilità» di Baraka nelle nostre librerie. Del resto anche negli Usa gli editori normali non si scannano per pubblicarlo. Testi geniali e provocatori pur se non sono sempre facili da leggere anche per il complesso registro di lingue, dialetti, giochi di parole che quei due (Baraka e Jones) prediligono. Molti da ascoltare più che leggere. Contrariamente ai poeti intimisti, da leggere in sofferta solitudine, lui è Baraka, un mago della scena. Rare le occasioni italiane per ascoltarlo: Castelporziano anni ’70, il ’92 a Milano, il 2001 a Brescia, il 2004 a Roma, nel 2005 a Mantova e Pistoia. «Io lavoro con le parole e con la musica perché le parole da sole rischiano di perdere il loro valore emozionale […] Ogni forma d’arte, la poesia come il teatro o la danza, ha sempre avuto un rapporto con la musica […] Poi nel mondo occidentale le arti si sono separate. Non va bene. Nel mio lavoro cerco di correggere questa tendenza». Artista «strabiliante e necessario», «poesie e saggi affilati come rasoi», «strapazza e maledice il capitalismo, il razzismo e l’America» si legge in «Amiri Baraka, ritratto dell’artista in nero».

Non potendo ascoltarlo nelle sue centomila «voci», quando diventa persino ventriloquo, leggete questa comunque tagliente traduzione.

«Carne, e automobili, catrame, buchi scavati sotto la pietra

una sconcia gerarchia del denaro, seghe circolari cancellano

la musica, il sentimento. Persino il linguaggio corrode».

Può forse valere per tutta una vita da Baraka quel che scrisse nella precedente incarnazione da Jones: «Quanto a me, aspiro alla pazzia di tutti gli uomini onesti, cioè alla pazzia che fa sì che uno continui a parlare anche quando tutti gli altri dicono che farebbe meglio a tacere».

UNA BREVE NOTA

Questa mia recensione è uscita – parola più, parola meno – nel febbraio (mi pare) 2007 sul quotidiano «Liberazione». Accompagnava «Quando Miles s’è squagliato», anticonformista necrologio scritto, nel 1996, da Amiri Baraka per Miles Davis. La recupero qui per completare il discorso sul libro «Black Music» che trovate in blog alla data 28 maggio 2012. (db)

Redazione
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Un commento

  • Se gli scritti di Amiri Baraka faticano a essere pubblicati in italiano, da noi è difficile trovare – anche in rete – la musica da lui amata e con la quale si è così spesso “intrecciato” da appassionato, da recensore, da artista, da rivoluzionario.. Per esempio Albert Ayler (o Sun Ra) oppure la memorabile «Freedom Now Suite» di Abbey Lincoln e Max Roach; se non sapete di cosa sto parlando rimando alla mia recensione a «Black Music» che trovate (in data 28 maggio 2012) suk blog. Per questo è opportuno ricordare che il buon Wu Ming 1 qualche anno fa ha pubblicato con un piccolo editore (Abraxas di Firenze, http://www.abraxasrecords.com) un ottimo cofanetto con libricino – di 92 pagine, un po’ in italiano e un po’ in inglese – più un doppio cd con 20 brani di Albert Ayler, Sun Ra, Milford Graves, Sonny Morray, Giuseppi (sì, proprio così) Logan ma anche Ornette Coleman e altri più noti. Tutta musica straordinaria e introvabile: in pratica il meglio del catalogo della Esp che dal ’64 in poi fu il simbolo della new thing, cioè del jazz più rivoluzionario. Appunto «The old new Thing: a free Jazz Anthology» si intitola il tutto. Al prezzo di 25 euro, neanche troppissimo. Dfficile da trovare – non troppo, se lo ordinate a Mag-6 o dal sito dell’editore – però a parte il piacere di ascoltare questa musica “perduta” è anche un documento importantissimo sul passaggio musicale e sociale fra gli anni ’60 e ’70: lo dico per chi c’era… e per chi non c’era.
    Ciao, db

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