La gloria nella sconfitta

di Fabio Troncarelli

Il suicidio del colonnello Basil Barrow e un gran film, purtroppo dimenticato

Il 21 febbraio dell’anno…Quale anno? Boh! C’è chi dice 1960. Chi più correttamente 1959. Chi non dice niente, ancor più correttamente, perché la data non è precisata e… Quale data? Diamine, ma la data del suicidio del colonnello Basil Barrow, dei Royal Higlanders di stanza al castello di Stirling in Scozia. Povero Barrow! Era un ufficiale di carriera e discendeva da una famiglia di ufficiali di carriera da generazioni. Una sola cosa voleva nella vita: essere un bravo comamandante, farsi onore per essere all’altezza degli avi. Un bravo soldato era stato, davvero, combattendo con coraggio contro i Giapponesi nella Seconda Guerra Mondiale. Era stato fatto prigioniero. Era stato torturato per mesi e mesi. Non aveva piegato ciglio. Aveva sopportato il sadismo disumano pensando sempre a una cosa sola: tutto questo finirà prima o poi e io tornerò al mio reggimento e sarò un buon comandante, come mio padre e il padre di suo padre. Con onore.

Era sopravvissuto. Spezzato in due. Col sistema nervoso rovinato per sempre. Ma era riuscito a tornare al suo reggimento. E che cosa aveva trovato? Una manica di debosciatii, comandati da una manica di avvinazzati, che passano le serate a bere wihsky e cognac fino all’estremo limite dell’abiezione, urlando come forsennati, come diavoli dell’inferno. E questi delinquenti, capitanati dal loro leader Jock Sinclair, aggrediranno il colonello Barrow, lo tortureranno con la stessa crudeltà dei Giapponesi e alla fine lo porteranno alla disperazione, all’ impotenza di chi non riesece ad essere all’altezza dei suoi idali e dei suoi doveri. Per questo al colonnello non resta che il suicidio…

A proposito noi stiamo parlando di un film, duro e violento, tratto da un romanzo duro e violento. Il film si chiama come il romanzo: in italiano Whisky e gloria, in inglese, più efficacemente Tunes of glory. Fu presentato al festival di Venezia nel 1960. Il regista era Roland Neame e il colonello Barrow era John Mills, che vinse la coppa Volpi come miglior attore. Ma il giudizio della Giuria non fu del tutto adeguato, perchè molto migliore del pur bravissimo Mills era il superlativo Alec Guinnes, nella parte di Jock Sinclair, l’antagonista del colonnello Barrow.

Oggi questo film straordinario è quasi dimenticato. E poi, che ce ne importa di un drammone che si svolge in un presidio militare un drammone di soli uomini e di uomini soli, perduti nei loro deliri di grandezza, nell’impossibile fedeltà a un ideale di onore e nella degradazione di un’ubriachezza cronica spacciata per miserabile allegria?

Che ce ne importa? E allora che ci importa del Giulio Cesare di Shakespeare, di questa storia fosca di congiure e persecuzioni, di assassini violenti che dicono di essere uomini d’onore e sono solo traditori? Che ci importa della pietà, della tenerezza di chi ama come un padre tenero e affettuoso colui che gli altri odiano come un padre padrone? Che ci importa a noi del colonnello Nathan Brittles che ripete sprezzante “Non scusatevi mai. E’ segno di debolezza!” nel meraviglioso I cavalieri del nord ovest (She worre a yellow ribbon) di John Ford?

Che ce ne importa? Chi non sa rispondere a questa domanda può evitare di vedere il film (come infatti avviene oggi sempre e dovunque). E può evitare di leggere quello che scrivo Può evitare, per esempio di sapere, che considero la scena finale, gli ultimi cinque minuti, il monologo allucinato di Guinness che parla dell’uomo che ha costretto a suicidarsi e che vorrebbe ricordare con funerali grandiosi, facendo echeggiare per tutta la città i tunes of glory, le melodie eroiche delle cornamuse scozzesi, i più bei cinque minuti di cinema degli anni Sessanta; il più bel saggio di recitazione di un attore di quel periodo drammatico in cui le cupe nebbie dei dolorosi anni Cinquanta, sfregiati dal Maccartismo e dalla Guerra fredda, si squarciarono violentemente per effetto della tempesta del Sex and drogue and Rock and Roll.

Ecco, il monologo di Guinnes è l’inno cupo al tramonto di un’era che sarebbe stata sepolta non al suono delle cornamuse, ma delle chitarre dei Beatles: l’era che avrebbe spazzato via ogni presunzione di onnipotenza enll’Uomo Occidentale ed avrebbe dato ragione a chi non riusciva a a darsi una ragione dei suoi fallimenti. Chi non era all’altezza di stupidi ideali grandiosi. Chi non credeva più a Dio, Patria e famiglia. E neppure all’ Io. Chi non era più un uomo forte: chi era fragile, incerto, timido come i ragazzi di allora che non riconoscevano più i propri padri e non si riconoscevano più allo specchio con la stessa angoscia del colonnello Barrow. Non ci credete? Prendevi la briga di vedere il film in inglese, di sentire le parole accorate di Jock Sinclair-AlecGuinness, di vedere i suoi occhi trascolorare da un senso di colpa soffocato all’aperta follia, di raggiungere il picco del delirio di onnipotenza per sanare invano l’ onnipotenza perduta per sempre di chi comanda e di crollare all’improvviso in un pianto dirotto, il pianto di chi si sente distrutto e sente che il suo mondo è distrutto. Se non sarete capaci di piangere insieme a lui, non ci sarà bisogno di perdere altro tempo con questo film e con le mie parole. In caso contrario, capirete da soli perché ancora oggi il cuore ci si stringe ogni volta che pensiamo a Giulio Cesare, a Nathan Brittle o a Jock Sincklair.

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