La Grande Insonnia

Un racconto di Riccardo Dal Ferro
Illustrazione di Marco Pasin

la grande insonnia«Che cosa nascondi nel tuo sonno?»

Fu una notte lunghissima, quella nella quale mi catturarono gli Insonni. Ricordo le loro disperazioni, i loro sussurri, quei corpi scheletrici che attribuiresti alla morte stessa. Ricordo quelle orbite svuotate di emozione, traboccanti di un tormento che non lascia scampo.

Quanto può durare una notte insonne?

Sepolto dalle mani senza carne che mi stanno uccidendo, non è facile ricordare tutti gli avvenimenti che hanno condotto l’Umanità nel crudele destino al quale è approdata. Coperto malamente dal terriccio sotto il quale il mio corpo inizierà a nutrire le falde acquifere, mi risulta arduo ricordare e raccontare, trovo doloroso rovistare tra le memorie che ancora faticano a prendere forma in un quadro coerente, mentre in silenzio attendo d’addormentarmi. Ciò che mi viene in mente è il notiziario, quello del Mattino Senza Risveglio, subito dopo che la prima Notte Senza Riposo era trascorsa, la notte in cui ebbe inizio la Grande Insonnia. Per le strade di Shanghai, nelle periferie di Parigi, nei sobborghi lussuosi di Londra, tra le sabbie del Cairo, la gente usciva di casa con occhiaie profonde, capelli arruffati, sconvolta da una nottata passata in bianco. Le immagini mostravano intere folle riunite nelle piazze solo per chiedersi che cazzo fosse successo. “Insonnia di massa”, la chiamarono gli esperti.

Il giornalista del notiziario, visibilmente frastornato dalla stanchezza, biascicava le parole senza riuscire a nascondere il pallore, coperto dallo strato di cerone, steso da un truccatore che non aveva chiuso occhio quella notte: «Le prime opinioni parlano di una tempesta magnetica sfuggita agli astrologi, tempesta forse colpevole dell’insolito evento che, come possiamo sentire dalle interviste raccolte…»

Le immagini mostravano persone sbigottite, sorprese, ma nessuno in quel momento poteva comprendere che qualche cosa di terribile aveva avuto inizio. Confusi, tornarono tutti alla propria normalità, solo un po’ più stanchi del solito.

Nemmeno io potevo capire il significato di quell’avvento, né prevedere le atroci conseguenze cui avrebbe portato. L’unica cosa strana, pensai in silenzio, era che la mia notte aveva conosciuto un sonno sereno, profondo come poche altre volte mi era capitato.

E fu sera e fu mattina.

Primo giorno.

Beati gli Insonni, perché di essi è il riposo eterno.

In realtà, ciò che sembrò essere chiaro nei giorni seguenti fu come gli esperti, gli scienziati, coloro che avrebbero dovuto trovare una soluzione, brancolassero in realtà nel buio. E di come, tradendo la loro impotenza, anch’essi non riuscissero più a trovare riposo.

Soltanto pochissimi riuscivano a dormire durante le Notti Senza Sonno, ma ancora le attenzioni dell’opinione pubblica erano rivolte in maniera troppo ossessiva alle proprie problematiche per accorgersi di questa piccola percentuale di fortunati. Mano a mano che i giorni passavano e le persone perdevano il sonno, le città iniziarono a diventare simili a discariche ricoperte dall’indifferenza, i monumenti consegnati all’incuria e all’abbandono, i giardini restituiti al selvaggio germogliare delle erbacce, le automobili ammassate nel mezzo di incidenti causati dalla scarsa attenzione di conducenti sfiniti. Già dopo i primi Giorni Senza Risveglio le strade divennero deserte, mal sopportando gli Insonni la luce del sole, pallidi come fantasmi, rabbiose vittime di un incantesimo al quale sembrava non esistesse rimedio.

«Perché tu riesci a dormire? Restituisci ciò che non ti appartiene!» La sua voce risuonava tra le pareti di quella fogna che avevano iniziato a chiamare “casa”. Un melmoso acquitrino giaceva sul pavimento, l’umidità aveva consumato quella pelle fino a trasformarlo nella parodia dell’uomo che poco tempo prima era stato. Riconoscerlo, sotto quel velo di mostruosa disumanità, era assolutamente impossibile. Erano diventati tutti uguali, le ossa esposte come un’impalcatura in precario equilibrio, quel velo di pelle bluastra che ricopriva corpi riarsi dall’isteria, tendini e legamenti tesi fino a far credere che da un momento all’altro si sarebbero spezzati. Alcuni, ridotti peggio di altri, avevano organi esposti, come se la sofferenza li avesse costretti a strapparsi lembi di carne viva. La sua voce, passando tra corde vocali rinsecchite, era un rantolo inascoltabile. Quelle mani grattavano le superfici del corpo in maniera compulsiva, unghie acuminate scavavano l’epidermide decomposta come a cercare là sotto la fine di quel male. Da quelle ferite non sgorgava più sangue.

L’odio che mi osservava, che mi scrutava e mi spogliava, quell’odio mi accompagna terrorizzato, mentre la terra viene gettata sopra il mio corpo esanime.

L’odio che mi scavava dentro la testa, alla ricerca di una risposta che nemmeno io possedevo, quell’odio è ciò che mettevamo a dormire ogni notte, rinchiuso nelle prigioni del nostro sonno. Quell’odio aveva trovato una via d’uscita, nell’insonnia del mondo.

E fu sera e fu mattina.

Secondo giorno.

La Grande Insonnia presto fece capire alle proprie vittime che sarebbe stato difficile liberarsene. Si diffusero i primi sussurri di paura, e parole come “maledizione” e “anatema” erano tra le più usate. Se per un uomo insonne può esserci rimedio nella consulenza di uno psicologo, quale dio avrebbe potuto mai curare l’insonnia dell’intera Umanità?

A me, cui il sonno non mancava, era chiara la necessità di nascondermi, di non sbandierare la serenità che ancora riempiva le mie notti. I primi omicidi erano iniziati: isterici e irriconoscibili direttori di banca uccidevano a sprangate i propri dipendenti per il più piccolo errore commesso; poliziotti sparavano addosso a pedoni che osavano attraversare fuori dalle zebre; bambini venivano soffocati da madri che non sopportavano più di badare anche alla loro disperazione. Se qualcuno di costoro si fosse reso conto che esistevano pochi eletti ancora capaci di riposare con serenità, si sarebbe scatenata una caccia all’uomo. I fatti mi avrebbero poi dato ragione.

La Grande Insonnia si rivelò presto essere una piaga peggiore della più mortifera tra le epidemie. Risse nei locali pubblici, stragi nelle scuole, isterie collettive che portarono ad atrocità irripetibili, gli uomini e le donne di tutto il globo si dimostrarono deboli di fronte al mostro che li aveva colpiti, e le conseguenze furono terribili.

Vennero distribuiti gratuitamente alle folle impazzite sonniferi, tranquillanti, psicofarmaci in quantità industriali, le farmacie vennero prese d’assalto in cerca del rimedio a ogni male, ma una tale dannazione non si cura con la chimica, e tutto si rivelò inutile. L’assalto ai medicinali provocò solo un aumento esponenziale dei suicidi causati da avvelenamento, gli obitori vennero riempiti in men che non si dica, fino a che le ambulanze non furono abbandonate dagli autisti addetti, stralunati come tutti dall’insonnia. Ci si interrogò, si pensò a una soluzione, almeno fino a che i cadaveri non iniziarono ad ammassarsi ai cigli delle strade di tutto il mondo, fino a che anche l’ultima parvenza di civiltà non fu cancellata. La televisione e la radio tacquero d’un tratto, chiudendo la paura nella prigione della nostra resa.

E fu sera e fu mattina, e così per il terzo, il quarto e il quinto giorno, senza che l’Umanità potesse riassaporare la pace sotto le proprie palpebre, il rilassamento dei muscoli nella quiete del riposo, l’oblio della veglia tra i labirinti d’un cervello addormentato.

Continuarono a venire, le sere e le mattine, ma private del sonno le persone persero la percezione dell’alternanza che da sempre ne contraddistingue la successione. Gli orologi si fermarono, il Sole e la Luna divennero fastidiosi ospiti senza identità, i popoli iniziarono a nascondersi nelle cripte dei propri palazzi, riunendo le disperazioni e contando i caduti come si contano le stelle del cielo.

Lo scorrere del tempo venne dimenticato.

«Chi sei tu?» La mia domanda era cosparsa del sangue che mi bagnava la bocca, i pugni ricevuti durante la cattura dolevano tra i denti e le costole, ma nulla più importava, ormai era tutto finito, sentivo gli ultimi minuti che si consumavano sotto lo sguardo spettrale del mio carnefice dal momento che, al contrario di lui, lo scorrere del tempo aveva per me ancora un significato.

«Chi sei tu?» Parve spiazzato, le orbite ospitavano pupille dilatate a dismisura, per la prima volta di nuovo umane, come se quella domanda avesse risvegliato quel poco di razionale che ancora giaceva nella sua mente rasa al suolo. Un ghigno sostituì subito quell’ombra di umana radice: «Chi sono io? Io sono quella cosa innominabile che nascondi anche tu, nel profondo del tuo ingiustificato sonno. Io sono la parte più smarrita e rinnegata del tuo animo, sono dentro di te, solo che tu tieni a riposo quella frazione orribile del tuo io.» Nelle stanze adiacenti, una folla di questi zombie osservava il teatrino messo in scena da noi due, come fosse uno spettacolo a lungo atteso. Osservavano, con i loro occhi sgretolati, con i loro organi morenti, con le loro bocche cannibalesche.

«Che cosa credi di nascondere tu, piccolo insetto, che cosa credi di nascondere nel tuo sonno? Tu nascondi me!» Urlò in maniera quasi spastica quelle ultime tre parole, sputando acido verdastro ai miei piedi, nell’acquitrino che bagnava quelle caviglie cadaveriche. E continuò: «All’enorme costo che abbiamo pagato, noi siamo gli Illuminati. Abbiamo scoperto, privati del sonno che ci imprigionava, la più genuina natura che ci contraddistingue. Ci siamo svegliati, laddove prima eravamo assopiti. Ci siamo liberati dal giogo cui il sonno ci teneva incatenati.»

Nel frattempo, al di fuori di quelle squallide mura, l’Umanità si estingueva, lasciando dietro a sé i patrimoni che nei secoli precedenti era riuscita a costruire.

L’orda che dalle stanze adiacenti alla nostra attendeva la fine dello spettacolo, già aveva catturato e ucciso quelli che, come me, ancora erano benedetti dal sonno, come fossero nemici da eliminare in fretta, ostacoli alla metamorfosi che gli uomini avevano abbracciato. L’orda fremeva di violenza, aspettando pazientemente la fine di quel dialogo, pronta a uccidere e sbranare l’ultimo dei Dormienti, come erano soliti chiamarci.

La maledizione stava per essere compiuta e, all’interno di quella sudicia stanza, si sarebbe consumata l’estinzione dell’umana stirpe, dal momento che i miei carnefici non potevano più essere considerati uomini e donne.

E fu sera e fu mattina.

Sesto giorno.

Mentre il mio corpo martoriato viene trasportato verso il luogo eletto per la mia sepoltura, mentalmente incido questi ricordi in uno spazio più esile di un sospiro. Non è ironico forse, che questi Insonni scelgano come punizione per il Dormiente proprio il riposo eterno? Le loro mani stringono e graffiano la mia pelle, ma il dolore se ne sta andando, insieme alle forze residue che ancora popolano i miei nervi.

Mi riesce facile ricordare i volti di coloro che ho amato, icone smarrite nella memoria, prede di una serenità mai più ritrovata, nel loro respiro notturno, nei cuscini sprimacciati, prima che la loro pelle diventasse la corazza di uno zombie.

Le città erano diventate catacombe, laddove alle risate dei bambini si era sostituita un’ombra di follia. Le strade erano arterie dissanguate, i palazzi crani svuotati, il cielo un occhio senza più nulla da sorvegliare. Il sottosuolo era diventato la dimora eletta degli Insonni, le loro voci gracchianti risuonavano mentre la mia salma veniva portata lontana.

Era l’ultimo giorno del mondo.

«Chi sei?» La domanda aveva rivelato le debolezze di quel mostro, ancora umano, troppo umano per sopportare quella dannazione. «Chi sei?» Era una provocazione, più che una domanda, una furba esca cui il dannato non aveva saputo resistere. Ed egli abboccò: «Sono ciò che è stato risvegliato dalla Grande Insonnia, sono il prigioniero che avevate rinchiuso dietro il vostro velo di civiltà. Sono la prova che le vostre maschere erano soltanto finzioni! Finzioni dalle quali io ho saputo liberarmi!»

Colsi la palla al balzo, approfittando dello spiraglio di fragilità che il suo ragionamento mi aveva concesso: «E dimmi, ora che sei così autentico, che cosa ti è rimasto? Distruzione, cannibalismo, dolore, sofferenza, isteria, oscurità. Sono forse tanto insopportabili, le maschere di cui prima ti facevi attore?»

Il mostro esitò, soppesando bene le parole da dire. Infine, esplose: «Le tue maschere sono la vera dannazione! Le tue maschere sono prigioni da cui noi abbiamo saputo evadere! Il sonno dell’umanità è stato disturbato dai sensi di colpa di una stirpe che non ha più saputo accettare l’ipocrisia delle proprie finzioni! Tu sei il maledetto! Io sono il risvegliato!»

«Eppure, lo interruppi, eppure c’era ancora così tanto da fare. La poesia, l’arte, l’amore per una donna e per un uomo, le fragorose risate del mondo. Ora, non ti resta che questo tugurio, e forse una manciata di mostri da saziare con la carne dei vostri simili. Non è forse anche la tua una finzione, una maschera, molto meno sopportabile della mia?» Il suo sguardo fu come rotto da un colpo troppo forte, e dentro quei frammenti vidi l’uomo che era stato, addormentato dentro i tormenti di quel corpo immondo.

«Non siamo forse uguali, io e te?»

Mentre il mio corpo viene gettato a terra da braccia putrefatte, gli ultimi respiri vengono sputati fuori dalla frattura di qualche costola, e rivedo con chiarezza quel volto esausto e d’un tratto preoccupato, quella sorpresa dovuta a una qualche rivelazione ritrovata nelle mie parole, nelle parole dell’odiato nemico. Calci e pugni mi spingono in una fossa piena di polvere e letame, ma nella mia testa ascolto nuovamente le parole del mio carnefice, pronunciate con una voce finalmente serena: «Ho amato, un tempo, nei sogni che più non possiedo. Ho amato quei sogni, quelle illusioni, e forse ora sono solo la maschera di quelle stesse maschere.»

Gli scarnificati musi che con ferocia mi sputano addosso, urlando gli epiteti ormai familiari di “Maledetto Dormiente” e “Sporco Assonnato”, sono gli stessi che hanno ucciso di fronte ai miei occhi il mio interlocutore, mentre questi, sconvolto, si accasciava a terra. Mi piace pensare che egli, nel cadere preda di quella nuova consapevolezza, si fosse d’un tratto addormentato, ritrovando la serenità di un riposo costellato di sogni e privo di incubi.

Mentre vengo sepolto vivo, i battiti del mio cuore rallentano con delicatezza all’interno del mio petto. Gli Insonni non mangeranno le mie carni, credendomi abbietto, dal momento che ho sconfitto il loro capo. Essi altro non vogliono, se non liberarsi in fretta di me, l’ultimo dei Dormienti.

Le città fantasma sarebbero diventate rovine per popoli a venire, dimore dei dannati che prenderanno il posto dell’Umanità impotente? Giorno e notte, private dei loro profondi significati, non sarebbero più stati ambasciatori del tempo, laddove solo il buio del sottosuolo avrebbe rappresentato il luogo nel quale ricostruire una qualche forma di civiltà.

Quando mi accorgo che gli occhi non accennano a chiudersi, nonostante il cuore sia fermo ormai da qualche minuto, comprendo che la mia maschera mi ha abbandonato definitivamente, per far posto a un’altra finzione che fino a oggi mi aveva risparmiato. Sento le ferite sulla pelle, dalle quali non sgorgano più sangue né dolore. Comprendo che, nel surreale accavallarsi degli eventi su questo mondo, il sonno ha infine abbandonato anche me, proprio sul ciglio di quello che poteva essere il mio riposo eterno. Probabilmente, il mostro che dalle profondità del mio animo attendeva il proprio momento per salire alle superfici, ha trovato il giusto momento per punire la mia umana esistenza, e ora colpisce più dolorosamente che mai, con uno spiccato senso dell’ironia.

Quanto può durare una notte insonne?

Per alcuni, una notte può durare un’eternità, per altri essa dura un solo il tempo di un sogno. Tra le innumerevoli maschere che possiamo sceglierci, sta a noi decidere quale meglio si adatta ai nostri desideri.

Fino a quando le maschere non decideranno di scegliere in nostra vece.

Fino a quando ancora l’Umanità potrà vestire le proprie ridicole finzioni.

Quanto può durare una notte insonne?

Mi alzo dalla fossa nella quale mi hanno gettato, rassegnato alla dannazione, mia nuova maschera. Mi unirò al popolo cui ora appartengo, abbracciando le sue orribili illusioni. Non mi resta che questo, sotto un cielo che non ha più nulla da ammirare.

E sarà sera e sarà mattina, come ogni volta.

Ma non ce ne accorgeremo.

Settimo giorno.

Riccardo DAL FERRO

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