La guerra di Giovanni nella Brigata Sassari

di Francesco Cecchini (*)

 

 

fucilato

 

 

 

 

Il grande massacro del 1914-1918 fu un evento di dimensioni immense che sterminò quasi un’intera generazione e sconvolse il vecchio continente ma fu anche la prima, tragica esperienza collettiva dei cittadini della “nuova Italia”, anche di coloro che non andarono al fronte perché fu segnata da uno sforzo che assorbì tutte le energie della nazione. Le donne dovettero assumersi la responsabilità delle famiglie, svolsero lavori tradizionalmente maschili ed ebbero un’inedita presenza pubblica. I bambini, che vedevano il padre e i fratelli maggiori partire per il fronte, vissero per anni in un mondo che, attraverso i giornalini e i libri di scuola, parlava loro solo di guerra.

Al fronte per la prima volta si trovarono fianco a fianco giovani provenienti dalle regioni italiane che venivano da povertà diverse (i ricchi erano imboscati, salvo rarissime eccezioni) e parlavano dialetti differenti, «stranieri» tra loro.

Uno di questi ragazzi fu Giovanni, raccontato in «La guerra di Giovanni. L’ Italia al fronte: 1915-1918» di Edoardo Pittalis.

Come tanti ragazzi, Giovanni abbandonò poco più che bambino quasi adolescente l’Italia per l’Argentina. Lasciando la povertà e cercando benessere. La Buenos Aires che lo accolse è la stessa che Dino Campana descrisse in questa poesia.

Il bastimento avanza lentamente Nel grigio del mattino tra la nebbia Sull’acqua gialla del mattino d’un mare fluviale Appare la città grigia e velata Si entra in un porto strano.

Forse Giovanni e Dino viaggiarono con lo stesso bastimento, il Galileo che in quegli anni andava giù e su da Genova alla “ciudad del buen aire” e di nuovo a Genova.

Come Dino anche Giovanni per vivere fece i più vari lavori a Buenos Aires: venditore ambulante, muratore, lustrascarpe, spazzino, cameriere a La Boca, il quartiere del tango e degli italiani.

Partito povero, Giovanni rimase povero e tornò, dopo 8 anni, assieme ad altri migliaia di sardi che si presentarono ai consolati italiani in Argentina per essere arruolati e andare in guerra.

La Sardegna che ritrovò per un certo aspetto era quella che aveva lasciato: la vita scorreva con lentezza secondo abitudini e ritmi centenari. Poco si sapeva di quanto stava per succedere in Italia e in Europa, pur se avrebbe avuto conseguenze drammatiche anche per l’isola. Per un altro verso la Sardegna stava vivendo uno dei momenti più difficili: siccità, cattivi raccolti, moria di bestiame, fame. Questa era la preoccupazione principale e non le informazioni sull’inizio della guerra, i movimenti sul fronte orientale, l’offensiva austriaca in Serbia, l’invasione tedesca del Belgio. Tutti avvenimenti che appartenevano (o così sembrava) a un altro mondo. Lontano fu anche il confronto fra «interventisti» e «neutralisti». I giornali sardi ne avevano parlato poco ma comunque pochissimi li leggevano perché i più erano erano analfabeti.

La grande guerra e prima i suoi preparativi arrivarono anche in Sardegna. Fra il febbraio e l’aprile 1915, dai depositi reggimentali della Brigata Reggio, di stanza nell’isola, furono costituiti due reggimenti – 151° e 152° – della Brigata Sassari. Superando gli orientamenti tradizionali contrari al reclutamento territoriale, il Comando Supremo diede vita a un reparto regionale, fortemente omogeneo nella sua composizione

Giovanni fece l’addestramento sul Monte Lumbara, essendo arruolato nel 151ᵒ fanteria della Brigata Sassari. Con altri fanti sbarcò a Civitavecchia e venne inviato, dopo un ulteriore periodo di addestramento, nei pressi del Lago di Garda in prima linea sul Carso.

Il primo contatto con la guerra avvenne nella notte fra il 24 e il 25 luglio 1915, quando sotto una pioggia violentissima e il tiro delle batterie nemiche, le truppe sarde passarono l’Isonzo. Per la Brigata, impiegata nella zona del San Michele fra il Bosco Lancia e il Bosco Cappuccio, la situazione si presentò molto difficile fin da subito. Nell’allestimento delle difese sull’Altipiano carsico gli austriaci avevano profuso grandi risorse e impegno, perché era un settore considerato decisivo per le sorti dell’intero fronte orientale. Gli assalti condotti contro trincee pressoché inespugnabili, ben strutturate e realizzate su posizioni dominanti, dissanguavano i reparti italiani senza produrre alcun apprezzabile risultato.

Le centinaia di corpi rimasti insepolti, le temperature elevate e il sole cocente di giorno con violenti temporali nelle ore notturne favorirono lo scatenarsi, a ondate, di un ulteriore e crudele nemico: il colera. All’accanita battaglia contro “gli austriaci” si aggiungeva la lotta quotidiana per la sopravvivenza in trincea.

I mesi di guerra sul Carso, fra l’estate e l’autunno/inverno del 1915, videro nascere e consolidarsi la fama e il mito della brigata sarda, protagonista di ripetute prove di valore nelle sue azioni contro i trinceramenti austriaci. Con la conquista delle trincee delle Frasche e dei Razzi – contro le quali si erano già lanciati, invano, numerosi reparti di fanteria – giunse per la Brigata la citazione nel Bollettino del Comando Supremo del 15 novembre. Gli “Intrepidi sardi”, riconosciuti apertamente nei loro meriti come mai era accaduto prima per una singola unità, diventarono modello di riferimento ed esempio da seguire.

Dietro il mito si celava tuttavia una realtà complessa e difficile, fatta di dolore e patimenti per i lunghi periodi in prima linea, le mancate licenze, i massacri quotidiani nell’indifferenza degli alti comandi. Vi furono anche episodi che sfiorarono l’aperta ribellione.

Le prove carsiche erano costate molte vite umane. Nel dicembre del 1915 «la Sassari – scrive il tenente Alfredo Graziani – esisteva sempre, ma soltanto sulla carta». Con la Brigata distrutta e da ricostituire, il Comando supremo ordinò che vi venissero trasferiti tutti i soldati sardi di fanteria e, su richiesta, anche gli ufficiali.

«Giunsero da tutto il fronte soldati colle mostrine dai centocolori – ricorda Camillo Bellieni, sottotenente arrivato volontario dal 43° Fanteria – lanciabombe, tiratoriscelti, portatubi di gelatina, elementi affezionati ai loro reggimenti, ben trattati dai loro comandanti, moltissimi in attesa di andare in licenza. Strappati dal loro ambiente, questi soldati furono inviati alla Brigata Sassari con una sola parola: Sardegna». Questo “popolo in divisa” – secondo l’evocativa espressione usata proprio dal Bellieni – ristabilì al fronte usi e costumi dei villaggi isolani, riallacciando antichi vincoli di ospitalità, riprendendo le gare poetiche, trasferendo in guerra codici, valori e abitudini del mondo agropastorale di provenienza. Un pezzo di Sardegna si ricomponeva sul Carso.

Nel maggio 1916, dopo poche settimane di riposo nella piana friulana, la Brigata fu trasferita d’urgenza sull’Altipiano di Asiago: gli austriaci avevano attaccato dal Trentino. I combattimenti sulle posizioni di MonteFior e Monte Castelgomberto (investite in pieno dall’offensiva austroungarica fra il 7 e l’8 giugno, perse e riconquistate più volte) costarono ancora molte vite umane. Il 5 agosto alle bandiere di entrambi i reggimenti fu concessa la prima delle due medaglie d’oro al valor militare.

Nel giugno 1917, nel corso della battaglia dell’Ortigara, i reparti della Sassari furono impiegati contro le posizioni austriache sul Monte Zebio. Dopo le carneficine di quel lungo anno sull’Altipiano, la Brigata – demoralizzata e semidistrutta – dovette ancora una volta essere in larga parte ricomposta nelle retrovie. I fanti sardi combatterono ancora valorosamente sulla Bainsizza, di nuovo sull’Altipiano dei Sette Comuni e

sul Piave. La Battaglia dei Tre Monti (28-31 gennaio 1918), cioè la prima vittoriosa azione offensiva per l’esercito italiano dopo Caporetto, li vide protagonisti della conquista del Col del Rosso e di Col d’Echele.

Il 21 giugno 1918 giunse l’ennesima citazione all’ordine del giorno per l’eroica difesa della zona a occidente di San Donà di Piave.

I “diari storici” della brigata e dei suoi reggimenti restano oggi quali documenti fondamentali per ricostruire quelle imprese. Alla fine del conflitto la Brigata ebbe circa duemila caduti, di cui centocinquanta ufficiali, e oltre tredicimila fra

dispersi, feriti e mutilati.

I caduti sardi furono complessivamente 13.602 (circa 138 morti ogni 1.000 chiamati alle armi). Fu tuttavia soprattutto l’esperienza della Sassari a rendere visibile di fronte al Paese il contributo e il sacrificio dell’Isola, spingendo i reduci a reclamare i propri diritti e ad avanzare rivendicazioni, ponendo così le premesse per i grandi cambiamenti politici del dopoguerra.

Per conoscere quest’esperienza andrebbero letti anche i seguenti documenti e libri:

C. Bellieni, «Emilio Lussu», Cagliari, Il Nuraghe, 1924.

L. Cadeddu, «La vita per la patria: la storia della Brigata Sassari nella guerra del 1915», Udine, Gaspari, 2008.

G. Chirra, «Trattare ke frates Kertare ke inimicos: Il cammino dei Sardi nella Grande Guerra», Sassari, Chiarella, 1996.

G. Fois, «Storia della Brigata Sassari», Sassari, Gallizzi, 1981.

S. Fontana, «Battesimo di fuoco», Iglesias, Atzeni e Ferrara, 1934.

E. Lussu, «La Brigata Sassari e il Partito Sardo d’Azione», sulla rivista «Il Ponte», VII, 1951.

G. Sotgiu, «Storia della Sardegna dalla Grande Guerra al Fascismo», Bari, Laterza, 1990.

G. Tommasi, «Brigata Sassari: note di guerra», Roma, Tipografia sociale, 1925.

Ma torniamo a Giovanni. La sua guerra fu combattuta dall’inizio alla fine proprio nella Brigata Sassari ma Edoardo Pittalis abbandona Giovanni già al secondo capitolo per dare una visione di quello che successe in Italia e in Europa durante quegli anni. Il Piave, l’impiccagione degli irredentisti, il re Vittorio Emanuele III, l’armamento e l’equipaggiamento dei soldati, D’Annunzio, Luigi Cadorna e altro. Come scrive Enzo Biagi nella prefazione «il disperato e bellissimo racconto dell’intero conflitto».

Lo scrittore narra anche delle ribellioni di soldati e delle decimazioni. Il primo caso colpì il 141ᵒ fanteria della Brigata Catanzaro, 120 uomini del quale si ribellarono e si opposero con le armi a coloro che intervennero per reprimere la rivolta, uccidendo ufficiali, altri soldati e carabinieri. In quell’occasione vennero fucilati un sottotenente e 8 soldati, ossia un ammutinato ogni 10, per evitare di passare per le armi l’intera compagnia che doveva essere utilizzata come carne da cannone. Era il luglio 1916.

Pittalis scrive un capitolo intero sul famoso articolo 92 del Codice Militare di allora sul quale si basa la giustizia sommaria che prevede la pena di morte «per il militare che in faccia a nemico si sbanda, abbandoni il posto o non faccia la possibile difesa» ma anche che rifiuti di obbedire. Dal maggio 1917 al maggio 1918 i tribunali militari emettono 82.366 condanne. L’anno precedente erano state circa la metà. Le condanne a morte pronunciate dai tribunali militari sono oltre 4.000 delle quali circa 3000 in contumacia e non eseguite, come altre 300. Sembra che quelle avvenute fossero 750 ma la contabilità non è verificabile.

Il general Cadorna accusò i disertori e i soldati che si consegnarono al nemico. Un esempio fra le tante condanne a morte per aver abbandonato il fronte fu quella di un fante, non importa il nome. Il testo della sentenza, approvata da Cadorna è allucinante: «Egli ha preferito anziché la palla in fronte che gli avrebbe dato il diritto di invocare nell’ultimo singulto con profondo orgoglio il nome d’Italia e della mamma sua, volgere le spalle. Su lui, morto, già completamente morto all’onore, scenda non crudele ma inflessibilmente severa la sanzione della legge, monito solenne ai vigliacchi e ai traditori».

Giovanni lo ritroviamo nel penultimo capitolo quando a 30 anni, ormai sposato, sbarca dalla Sardegna a Civitavecchia il 3 novembre 1921, perché incaricato dal suo distretto militare di partecipare alla cerimonia del Milite Ignoto. È un giovane uomo che ha vissuto una vita drammatica: 8 anni di dura vita da emigrante in Argentina e 3 anni di guerra. Uno sconfitto più che un vincitore.

Il libro si conclude con un’intervista all’ultimo Giovanni, ovvero Giovanni Antonio Carta (107 anni) che termina con un ricordo atroce: «Uno è rimasto come sensazione: la fame patita dal soldato. Non ti abbandona, la senti anche quando sei vecchio, anche quando hai la pancia piena. Per colpa della fame ho visto qualcosa che non avrei voluto vedere e che non ho mai dimenticato. Avevamo catturato 29 prigionieri austriaci ma non sapevamo come sfamarli, non avevamo da bere e da mangiare per noi. Il capitano risolse il problema ordinando l’eliminazione dei prigionieri. Li ricordo uno per uno, la faccia di ognuno, il pianto quando capirono che stavano per essere uccisi. Non era come sparare in battaglia, quelli non erano più nemici, non potevano più farci del male».

Uccisi per fame, perché non c’era rancio sufficiente per tutti. Anche questo è stato il grande massacro detto “prima guerra mondiale”.

«La Guerra di Giovanni. L’Italia al fronte: 1915-1918». di Edoardo Pittalis

Edizioni Biblioteca dell’immagine. (prima edizione settembre 2006; ultima settembre 2013).

Di recente Edoardo Pittalis e il cantautore Gualtiero Bertelli hanno trasformato «La guerra di Giovanni» in una lettura di parole e musica che stanno rappresentando, innanzitutto in Veneto.

(*) Molta letteratura e molti film raccontano il grande massacro del 1914-1918, le trincee dell’altipiano di Asiago, le rocce del Carso, l’angoscia di sentire la fine vicina, le morti, le fucilazioni e le decimazioni. Qui in blog parleremo di alcuni di questi film, romanzi o racconti per accompagnare l’azione-appello che abbiamo iniziato per la riabilitazione dei fucilati e decimati, cioè di coloro che rifiutavano la guerra o avevano contestato i comandanti. Contemporaneamente continua la diffusione dell’appello al presidente del Consiglio, al ministro della Difesa e al presidente della repubblica. Il testo è qui in blog sotto il titolo «Un appello per riabilitare i “decimati”, i disertori, i disobbedienti di guerra». Le adesioni continuano ad arrivare. L’elenco con le prime adesioni è già in blog, verso fine ottobre posteremo l’aggiornamento. Per aderire occorre inviare un email a: francesco_cecchini2000yahoo.com.

Nel frattempo sullo stesso tema Daniele Barbieri e Francesca Negretti scritto una lettura a due voci che inizia a girare (Padova, Milano, il 19 ottobre a Imola, il 24 a Torino, il 14 novembre a Badia Polesine, il 31 gennaio a Palermo): se vi può interessare potete contattarli su pkdick@fastmail.it o qui in blog. (db, dl, fc)

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

2 commenti

  • Francesco Masala

    anche mio nonno è stato come Giovanni, cerco il libro.

    due pezzi dello spettacolo:
    https://www.youtube.com/watch?v=-VRmhNynGFw
    https://www.youtube.com/watch?v=A6I-0avKRVE

  • domenico stimolo

    Su quelle tragiche vicende e dei soldati italiani fucilati è’ molto utile portare all’attenzione dei lettori la nota pubblicata in data 27 ottobre da “ DEPORTATI MAI PIU” https://groups.google.com/group/deportatimaipiu. a cura di G.Marco Cavallarin:
    “ il ddl 1935 relativo alla riabilitazione dei soldati italiani fucilati durante la prima guerra mondiale, già approvato all’unanimità dalla Camera dei Deputati, è da più di un anno in stallo presso la Commissione Difesa del Senato.
    Il Presidente della Commissione Senatore Nicola Latorre ieri pomeriggio ha proposto un testo base che sostituisce il ddl 1935 e che ne tradisce lo spirito.
    Abbiamo inviato al Presidente della Commissione Difesa del Senato e ai Senatori membri di tale Commissione la lettera che trovate allegata insieme al testo base presentato (a fronte il testo approvato dalla Camera).
    Superfluo ogni commento.

    QUESTA LA LETTERA:

    APPELLO PER LA RIABILITAZIONE DEI SOLDATI ITALIANI DELLA GRANDE GUERRA FUCILATI PER MANO AMICA, PERCHE’ VENGANO ANNOVERATI FRA COLORO CHE CADDERO PER LA LORO PATRIA

    Milano, 27 ottobre 2016

    Al Presidente della Commissione Difesa del Senato, Sen. Nicola Latorre, e ai Senatori membri della Commissione Difesa del Senato.
    La Commissione Difesa del Senato, da Lei presieduta, da un anno tiene in sospeso il ddl 1935 approvato all’unanimità alla Camera, né ha proceduto alle audizioni segnalate, per le quali rimaniamo disponibili.
    La Commissione produce adesso un nuovo “testo base”. Questo nuovo testo sopprime l’intero 1935 votato alla Camera e lo sostituisce con un articolo unico che fraintende e addirittura ribalta il senso di quanto è stato votato all’unanimità alla Camera dei Deputati.
    Il nuovo testo riconosce il “sacrificio”, come se non si fosse invece trattato di un vero e proprio ‘martirio’, degli “appartenenti alle Forze armate”, quando la situazione è molto meno generica in quanto non risultano essere stati colpiti da tali provvedimenti, se non in rarissimi casi, militari di grado superiore a quelli di soldati e sottoufficiali. Il nuovo testo, inoltre, asserendo che “vennero fucilati senza che fosse accertata a loro carico, a seguito di regolare processo, un’effettiva responsabilità penale” mostra di ignorare che a tutti coloro che furono fucilati fu sempre riconosciuta nei processi una responsabilità penale. Assolutamente ingiustificata era la pena di morte. Il nuovo testo mostra quindi di voler essere indulgente nei confronti di pochissimi fucilati – meno di una decina – e di non voler prendere in considerazione l’ingentissimo numero di essi. Né viene considerata in esso alcuna possibilità di riabilitazione dei soldati uccisi per mano giustiziale amica. La nostra richiesta di riabilitazione, nel caso fosse conclamata dalla rilettura degli atti processuali dell’epoca, si basa fondamentalmente sul fatto che nella stragrande maggioranza dei casi (sempre dopo Caporetto), non venne applicato il Codice Penale Militare, passando immediatamente alle fucilazioni sommarie e alle decimazioni senza alcun processo. La rilettura di quei processi dovrebbe servire proprio a celebrare, anche alla luce del CPM di allora, un processo che nella maggioranza dei casi avrebbe scagionato gli imputati dalla pena di morte. Dalla conoscenza degli atti processuali presenti all’Archivio Centrale di Stato risulta chiaro che i processi, quando celebrati, anche sul posto con i Tribunali Straordinari di Guerra, testimoniano quanto fosse grave l’operato di Cadorna e del Comando Supremo che, con le famose Circolari, andò oltre lo stesso CPM. Molti processi, tenutisi contemporaneamente alle fucilazioni sommarie, sconfessarono Cadorna e il suo modo di agire che mirava a tenere unito l’esercito con l’arma del terrore. Il secondo comma fa riferimento a “drammatiche vicende del primo conflitto mondiale” ponendo in secondo piano le “vicende dei militari condannati alla pena capitale”. Il che appare esercizio retorico se fatto in un testo che vuole riferirsi alle questione della riabilitazione dei condannati e uccisi per mano giustiziale amica. Altrettanto retorico suona il quarto comma che genericamente parla di “ricordo perenne del sacrificio di un intero popolo”, insistendo sul concetto di “sacrificio” e non su quello più proprio di “martirio”. Ed è evidente l’intenzione di rendere ancora più generico il testo quando si parla, riferendosi evidentemente alle decimazioni, di “cruento rigore della giustizia militare”. In sostanza qui si arriva anche a giustificare le decimazioni definendole come il frutto di “un cruento rigore”. Ma lì dove viene più profondamente tradito e irriso lo spirito della legge votata all’unanimità dalla Camera dei Deputati è nell’espressione che stabilisce che l’Italia “offre il proprio commosso perdono” ai fucilati e uccisi, quando dovrebbe essere esattamente il contrario: cioè che l’Italia chieda loro il perdono per averli resi vittime di palese violenza assassina. La invitiamo pertanto, Senatore Presidente, a voler ritirare questo testo che riteniamo offensivo nei confronti della Camera dei Deputati, delle attenzioni del Presidente della Repubblica al nostro appello, delle famiglie delle vittime e delle stesse vittime.

    Un cordiale saluto, G. Marco Cavallarin, Elisa Bianchi, Damiano Leonetti, firmatari, insieme a 100 altri intellettuali e storici, dell’Appello al Presidente della Repubblica e altri PER LA RIABILITAZIONE DEI SOLDATI ITALIANI DELLA GRANDE GUERRA FUCILATI PER MANO AMICA, PERCHE’ VENGANO ANNOVERATI FRA COLORO CHE CADDERO PER LA LORO PATRIA del 4 Novembre 2014.

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