La malattia è un evento

Riflessioni sul libro «La cura» di Salvatore Iaconesi e Oriana Persico

di Giuliano Spagnul

LaCura-IaconesiPersico

 

   «Mi lascia dolorosamente perplesso il fatto che i miei vari osservatori mi hanno considerato soltanto dal punto di vista delle loro ‘norme’ limitate. I medici hanno fatto a pezzi il mio corpo, i critici hanno considerato solo qualche aspetto della mia anima: i filosofi la metodologia, gli etnologi la etnologia, i politici la politica, ma anche qui a pezzi e bocconi. (…) Spero che qualche critico futuro…».

Ernesto de Martino

Se la malattia è un evento, come scrive Pier Mario Biava nella prefazione al libro «La cura» di Salvatore Iaconesi e Oriana Persico (Codice edizioni 2016: pagine 346, euro 15) la cura potrebbe essere definita come «la possibilità di respingere l’evento, la possibilità di non essere più, rispetto all’evento, hetton (il più debole) e di poter infine aver la meglio su di lui». [nota 1] Cioè la capacità di affrontare la vita così come si presenta e di non soccombere al primo evento infausto che, lo si voglia o no, attende chiunque voglia arrivare alla propria fine da vivo e non già da morto anzitempo. Prendere in mano la propria vita, il proprio destino, è la prima più evidente motivazione che si potrebbe pensare abbia spinto gli autori a scrivere questo libro, oltre che a sottoporsi a quell’inedito esperimento relazionale, mediatico, artistico che lo sottende e lo supporta. Salvatore nell’agosto del 2012 in seguito a un episodio epilettico scopre di avere un tumore al cervello. Dopo il normale iter ospedaliero decide, con l’unico sostegno della sua spaventatissima compagna Oriana, di uscire dall’ospedale e di cessare di essere «una malattia con le gambe» (pagina 65) pubblicando online la sua cartella clinica e chiedendo aiuto al mondo intero. Se siamo in un mondo globalizzato che anche la malattia si globalizzi. Anche perché, come afferma ancora Pier Mario Biava nella prefazione «dato che tutti gli esseri viventi sono in relazione dinamica, la malattia individuale rispecchia solo l’ottica riduttiva con la quale viene considerata, mentre più corretto sarebbe affermare che ogni malattia è collettiva» (pag. 21). E così la malattia, ma più correttamente dobbiamo dire la cura della malattia, si fa collettiva. I primi ostacoli da superare sono stati ovviamente quelli con l’istituzione: primo quello della grande madre, il materno onnivoro. Se sei dentro ti proteggo, se sei fuori “sei ‘fuori’. I vantaggi dettagliatamente esposti finora non ci saranno più (pag. 122) cioè se non sei più ricoverato e ci ripensi dovrai fare la fila là fuori come tutti gli altri… e intanto il tumore avanza. Il secondo, a cui siamo più abituati nella sua devastante quotidianità, è quello burocratico. Per la cartella clinica devi aspettare e pagare, e alla fine amara sorpresa: la cartella è un dischetto in un codice incomprensibile per non addetti ai lavori. Peccato che i lavori si debbano fare sul tuo corpo e che tu abbia bisogno di un quadro più che esaustivo e chiaro per prendere decisioni, sviluppare una strategia di vita, per la vita, la tua vita. Per chiunque altro sarebbe stata la mazzata definitiva, ma per Salvatore, hacker romano ed esperto informatico [nota 2] l’ostacolo non è insormontabile e dopo un po’ i codici sono smontati e rimontati in un linguaggio accessibile. Qui inizia l’avventura, non per trovare un milione di lire ma un milione di contatti; e questi arrivano. Un’onda travolge Salvatore e Oriana, una marea da tutto il mondo li avvolge, li coccola, li alletta ma anche li impaurisce e rischia di sommergerli. La morte in diretta è lì pronta a ghermirli, in una sorta di sabba mediatico. Qui forse, in uno dei punti più commoventi del libro – non saprei definirlo in altro modo forse perché cerca di non esserlo occultandosi – Oriana confessa: «se non siamo diventati un fenomeno televisivo è colpa mia. Il mio atteggiamento ‘protezionista’ ha generato anche conflitti e tensioni fra me e Salvatore, più disponibile e incline a far montare l’onda (‘”Iene” a parte: su quelle non abbiamo mai avuto dubbi). Ero perfettamente cosciente che stavo frenando, eppure non sono mai tornata indietro: in quel momento sentivo con tutta me stessa che era la cosa giusta da fare. L’ho fatto e lo rifarei» (pag. 198). Quanto cinema mi è venuto alla mente, soprattutto il western, quello classico, con la moglie dell’eroe che cerca di fermarlo, di distoglierlo con tutti i mezzi dall’andare a combattere i cattivi, più armati e numerosi di lui. Ma tutto è vano, l’eroe monta il cavallo bianco e parte; sa cosa è giusto fare e deve farlo, costi quel che costi. Il cinema usa spesso maschere che nascondendo evidenziano i problemi, i conflitti, quelli veri. Come scriveva Karl Kraus, nella realtà sono le donne a inseminare gli uomini e non viceversa. Senza il seme del pensiero divergente – quello che noi maschi definiamo irrazionale, umorale – i modelli di realtà possibile che noi umani di sesso maschile produciamo in continuazione diverrebbero inesorabilmente macchine celibi, produzione di idee replicanti all’infinito, in ultima analisi affatto cancerose. La “cura” è anche questo: un rapporto uomo-donna, con i suoi conflitti, distanza e la sua irrimediabile e proficuamente creatrice differenza. I capitoli S (Salvatore), i capitoli O (Oriana), le due menti bicamerali del corpo libro che si sviluppa nei capitoli R dedicati alla ricerca multidisciplinare e nei capitoli W, proposte di workshop.

In questa macchina curativa – che si sviluppa in un sito, in un libro, in un video, in infiniti rapporti virtuali e reali con persone normali, figure professionali, maghi e avventurieri, istituzioni, stampa e quant’altro – gli autori costruiscono quella che loro definiscono una performance. La cura come ricerca collettiva di soluzioni a un problema concreto e grave di salute ha un portato di valenze filosofiche, politiche, etiche eccetera importante, ma anche, dentro di sé, come ospite insidioso lo «spettro del processo di replicazione, presentazione dopo presentazione, evento dopo evento. Noi e la nostra storia da raccontare all’infinito» (pag. 28). Ancora una volta il cancro. Ecco allora il tentativo, che attraversa tutto il libro, di tenere stretto il motivo forte di tutta questa operazione, al di là del proprio bisogno concreto (e sacrosanto) e di quello degli altri; l’idea cioè di identificare questo esperimento con una performance. «Abbiamo deciso di fare tutto questo aprendo la mia cartella clinica, con i dati che contiene, e metterla online, aprendo una discussione pubblica – una performance – tra esseri umani, non tra pazienti e dottori. Una performance il cui scopo non fosse (solo) trovare la cura medica, ma riappropriarsi della propria umanità e del proprio desiderio, immaginare e mettere in pratica una società in cui il benessere di una persona dipende da quello di tutte le altre. Una società in cui la tecnologia esiste come abilitatore di maggiore umanità, non in quanto strumento di amministrazione e burocrazie. Per innalzare, liberare e aumentare la complessità, non per codificare e ridurre» (pag. 115).

Ancora lungo tutto il libro si prendono distanze; la cura non ha nulla a che fare «con la creazione di nuovi servizi o applicazioni» non è una startup che si preoccupi «di generare profitto» (pag. 118), si ribadisce che serve per «riflettere in maniera critica e costruttiva per immaginare una società differente, e farla crescere; una società in cui la salute è un bene comune, non una merce» (pag. 189). Allora cura come performance capace di creare «uno spazio pubblico in cui l’umanità» (pag. 223) possa «aprire la porta alla possibilità e alla coesistenza, accogliere invece di escludere» usando a esempio esoterismo e medicina insieme «traducendo una lingua nell’altra» e scoprirsi «capaci di cogliere le innumerevoli e sottili analogie e intersezioni di pratiche e significati fra un medico e uno sciamano (…) conoscenze che possono coesistere e non escludersi, aumentare la realtà anziché ridurla» (pag. 242). È una visione tutto sommato ottimista e certamente Salvatore e Oriana necessitano di ottimismo e Emilio Simongini nella postfazione non lesina l’augurio «che presto possano terminare i tempi degli scontri e delle esclusioni, delle contrapposizioni accademiche e di potere». Viene allora difficile non condividere fino in fondo l’afflato positivo, l’incitamento a che le difficoltà, le pastoie burocratiche, il potere nella sua cieca ottusità si sciolgano come neve al sole nel caldo abbraccio di un’umanità che sappia confrontarsi senza pregiudizi, alla pari, in quel terreno che le nuove tecnologie hanno saputo aprire, in «uno spazio di possibilità». Ma a questo punto se vogliamo accettare fino in fondo l’invito a considerare la cura come una performance, non replicabile, che si offre alla partecipazione e alla ricerca collettiva di un toolkit, una cassetta per gli attrezzi, allora dobbiamo anche cercarne i lati deboli, i punti critici, quelli che non ci convincono o che addirittura ci infastidiscono. Credo che un libro su argomenti come quelli qui affrontati, di vitale (nel senso pieno del termine) importanza per l’umanità tutta, più che incensato vada criticato, anche aspramente, se si vuole contribuire alla costruzione di quel toolkit che è lo scopo dichiarato del libro stesso. Un primo problema è una mancanza, che salta subito agli occhi; da nessuna parte si evince un punto di vista di classe. Per non lasciare adito a fraintendimenti, dichiaro subito di non essere un vecchio militante marxista nostalgico, sto parlando di una pura e semplice appartenenza di classe genericamente intesa. Quella di chi può e di chi non può permettersi certe cose. Solo in Oriana affiora un timido accenno in quel non aver mai dovuto rifare il proprio letto quando viveva in famiglia. In un altro libro molto intimo, personale «Incidenti di percorso. Antropologia di una malattia», la più grande antropologa italiana vivente, Clara Gallini, nel raccontarci la propria esperienza di malattia, di ospedale e del suo rapporto con Abilia, la sua badante peruviana, non dimentica mai di ribadire la diversità del percorso esistenziale, concreto, materiale, quello che tiene «conto del fondamentale rapporto tra popoli servi e popoli padroni, che insieme li divide e li collega, nel bene e nel male» [NOTA 3]. Un equivoco che potrebbe insorgere nella lettura di «La cura», l’idea che questa performance sia valida allo stesso modo per tutti, parli a tutti allo stesso modo, in un appello collettivo, globale in cui le differenze di classe (nel senso più ampio del termine) cessino di avere una particolare rilevanza.

Secondo problema, la malattia di cui si tratta qui è il cancro, malattia per eccellenza del nostro tempo, che ha la sua causa nella «perdita di significato» e nella «perdita di scopo».

«I tumori sono malattie tipiche della nostra epoca, perché oggi gli uomini sembrano aver perso completamente il senso, proprio come fanno le cellule tumorali che non capiscono più il senso della comunicazione che arriva dalla parte sana del corpo» (P. M. Biava, pag. 18). Come si potrebbe affermare il contrario? Eppure se ci pensiamo bene, perdere il senso non è meno necessario che trovarlo. Il problema non è quello della perdita di significato ma quello di non essere più in grado di perderlo e di ritrovarlo. Dobbiamo essere in grado di perdere il significato tanto quanto di trovarne uno nuovo, sapendo poi di doverlo perdere nuovamente. C’è invece in questo libro come una sorta di significato/senso/scopo che sta sotto, che basta cercarlo con gli attrezzi giusti per impossessarcene una volta per tutte. Gli attrezzi giusti sono la libertà e l’amore. La libertà di usare tutto ciò che il sapere umano ci mette a disposizione, senza preclusione alcuna; dalla scienza alla magia. E l’amore, come quella forza che apre alla possibilità «di iniettare nel sistema dosi di informazione positiva, coerente, essenziale e significativa, prodotta in maniera aperta dall’intero ecosistema, da tutti i punti di vista, sul significato (e il senso) dell’ecosistema stesso» (pag. 175). Ma se avesse ragione Bichat – con la sua celebre frase riportata da Foucault nella «Nascita della clinica» – che «la vita è l’insieme delle funzioni che resistono alla morte» e niente più? Se fosse tutto qua e niente di più, perché il mio senso, il mio significato dovrebbe coincidere con il vostro? La libertà complica, non semplifica e l’amore è sostanzialmente sofferenza perché l’altro non ci coincide; è altro da noi. Lo dice anche Oriana quando confessa che la storia di/con Salvatore le ha «insegnato come in questa storia d’amore e condivisione il corpo sia ancora una volta l’elemento limite, qualcosa che a un certo punto non possiamo condividere nemmeno con la persona amata. Il corpo è il confine dell’esistenza, al di fuori di esso non ci è concesso di percepire, e quindi di esistere» (pag. 330). La libertà e l’amore producono sofferenza e quindi conflitto; o impariamo da questo e facciamo un salto evolutivo – postumano direbbe Antonio Caronia con la sua bocca sdentata ma pronta a mordere – oppure ci rimane solo l’utopia consolatoria di un mondo semplice a cui serve solo un po’ di buon senso per essere ricondotto nella giusta direzione. E allora che fare, in concreto? La cura di Salvatore e Oriana innanzitutto, prendendola come un’esperienza importantissima e criticandola, sviscerandola, come spero con i miei limitatissimi mezzi di aver cominciato a fare io. E poi costruendo, come auspicava Caronia, quella famosa cassetta degli attrezzi che ci deve permettere di entrare senza soccombere in questa nuova fase dell’umanità. Diventare tutti filosofi perché tutti noi, come diceva Gramsci, facciamo filosofia, fosse solo perché la «filosofia è contenuta nel linguaggio stesso, che è un insieme di nozioni e di concetti determinati e non già e solo di parole grammaticamente vuote di contenuto» [NOTA 4]. Antonio Caronia ci ha provato facendo di tutta la sua vita, nel bene e nel male, fallendo spesso e ri-fallendo ancora, una performance artistica per la costruzione di una nuova estetica, che poi è sempre quella antica, che vede l’uomo più antico nel profondo di una caverna illuminata da una torcia disegnare le figure del proprio inconscio in formazione. Antico, moderno, postmoderno è sempre col corpo che noi esistiamo ed è «solo con un nuovo ancoraggio alla materia e al corpo» che si può «costruire un antidoto efficace all’estremo spaesamento e al nostro naufragare in un tempo sempre più microbico e parcellare» [NOTA 5]. Tutti noi, chiusi nel nostro corpo, cerchiamo di trovare il senso della nostra esistenza; costruiamo sistemi di pensiero pensando ogni volta che siano quelli risolutivi e definitivi, «che siano logici, ma non lo sono: sono creativi, all’infinito» [NOTA 6]. E allora non ci resta che tentare, fallire e poi tentare di nuovo, ma con la coscienza di essere ancora vivi.

NOTA 1 – Michel Foucault, «L’ermeneutica del soggetto», Feltrinelli, 2011 Universale Economica pag. 287.

NOTA 2 – Le due cose, per inciso, ci informa Salvatore stesso non sono necessariamente sovrapponibili: «Gli hacker, non si occupano di computer, non se ne sono mai occupati. L’hacking è uno stato mentale, usato per affrontare qualsiasi cosa: capire come funzionano le cose, probabilmente ‘smontandole’, e generare conoscenza attraverso questa pratica. L’obiettivo è quello di condividere la conoscenza (fosse anche solo per vantarsene), liberarla, renderla accessibile per vedere cosa succede».

NOTA 3 – Clara Gallini, «Incidenti di percorso. Antropologia di una malattia», Nottetempo 2016 pag. 279.

NOTA 4 – Antonio Gramsci, «Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce», citato in Giovanni Pizza, «Il tarantismo oggi», Carocci Editore 2015 pag. 139.

NOTA 5 – Antonio Caronia, «Cogli l’attimo! (Se ci riesci)», su «L’Unità», 10 giugno 2004.

NOTA 6 – Philip K. Dick in Antonio Caronia e Domenico Gallo, «Philip K. Dick. La macchina della paranoia», Agenzia X 2006, pag. 124.

 

Redazione
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6 commenti

  • Grazie di questi pensieri.

    E sì: è più importante sollevare domande che immaginare di poter trovare risposte (per di più “definitive”, qualunque cosa voglia dire).

    Per noi la cosa più importante che possa succedere con questa azione: che si sollevi il dibattito, che le persone prendano quanto c’è di nosto e di altro e lo facciano loro, con il proprio senso, la propria idea, la propria critica, il proprio sentire, e tutte queste voci si interconnettano, nel conflitto. Perché la dissonanza è parte della sinfonia, inutile e dannoso pensare all’armonia. L’ecosistema è il luogo del conflitto e della differenza, non delle persone che vanno tutte d’accordo. Altrimenti muore.

    Quindi gettiamoci nelle domande.

    Premettendo che sono in difficoltà! Perché ci sarebbero infiniti modi di rispondere ai (giustissimi e interessanti) quesiti. Servirebbero altre 300 pagine di libro, e forse neanche basterebbero.

    Beh, iniziamo da qualche parte, e vediamo dove andiamo a finire.

    Per esempio da qui:

    “… da nessuna parte si evince un punto di vista di classe…”
    “Quella di chi può e di chi non può permettersi certe cose”

    Qui forse c’è una questione da affrontare, che è quella della “performance”.
    La performance è un atto particolare. Durante la performance la realtà “ordinaria” viene sospesa, e sostituita da un’altra realtà, differente, quella della performance. Durante la performance non è certo chi sia il performer e chi sia lo spettatore. Certo è che mentre dura la performance esiste un altro mondo, e che tutti vi prendono parte. John Cage ci insegna: nei suoi 4’33” sono tutti performer, perché la “musica” è il mondo intero, per come avviene, anche quello che tossisce, quello a cui squilla il cellulare, quello che chiede sussurrando “quando inizia la musica?” perché magari non era stato informato della natura del concerto, quello che si arrabbia e inizia a sbraitare “ma non è Arte questa roba!”, quello che russa, quello che si controlla la mail, persino quello che sta in silenzio reverenziale fino allo scoccare dell’ultimo secondo, e naturalmente l’ambiente, il suono dei corpi, gli odori, la vista di tutti.

    In questo senso l’artista, il performer, fa una cosa incredibile: avvia la performance, che si trasforma in una piattaforma espressiva per gli altri.

    Attiva una realtà alternativa il cui scopo è quello di rendere “possibilistico” il senso del reale, del capire cosa sia possibile. Un lavoro sull’immaginario: disinibendo, scongelando, suggerendo in modo che gli altri possano appropriarsene, farlo loro, a modo loro, con tutte le implicazioni del caso.

    In questo senso la performance (e La Cura non fa eccezione) è SOLO un’azione di classe. Inclusiva, non esclusiva. Nel senso che attua una “realtà possibile” con lo scopo di rendere accessibile un immaginario, un “possibile”, e la possibilità che le persone se ne approprino, con tutte le differenze del caso: d’accordo, contrari, dubbiosi, fluidi, quelli a cui viene un’idea completamente differente, quelli che non capiscono, che non vogliono capire, che hanno altro da fare, o cos’altro.

    In questo senso non esiste “chi non può permettersi certe cose”. Perché l’obiettivo non è quello di “far fare certe cose”, ma piuttosto quello di liberare un immaginario: tirarlo fuori dal congelatore e lasciarlo sciogliere all’aria, così che diventi parte dell’ambiente, un altro pezzetto di spazio mentale che chiunque possa usare a modo suo.

    Questo, oltretutto, è un pezzetto molto peculiare di immaginario, perché è nel dominio di ciò che interconnette.

    Ci manca un immaginario dell’interconnessione, un’estetica dell’interconnessione. Bateson, parlando dell’ecosistema della mente, parlava della necessità di sviluppare questa estetica: l’estetica che porta alla sensibilità di riconoscere la bellezza di ciò che interconnette. La crisi (le crisi) è una crisi di immaginario, non di classe. O, almeno, non solo di classe. E questo è un elemento fondamentale.

    Non esiste “chi non può permettersi certe cose”. Esiste “chi, per tanti possibili motivi, non riesce a interconnettersi con altri per fare certe cose”.

    e infatti:

    “Un equivoco che potrebbe insorgere nella lettura di «La cura», l’idea che questa performance sia valida allo stesso modo per tutti, parli a tutti allo stesso modo, in un appello collettivo, globale in cui le differenze di classe (nel senso più ampio del termine) cessino di avere una particolare rilevanza.”

    tutt’altro. Fanno tutta la differenza. La differenza che è descritta dalla necessità di interconnettersi per poter agire, e dalla necessità dell’immaginario interconnettivo.

    E, ovviamente, immaginare l’interconnessione implica anche immaginare la disconnessione. Come implica ragionare sul medium dell’interconnessione, e sull’interfaccia, e sulla (bio)politica di tutte queste cose, e di come siano espressione di controllo, di violenza, di coercizione, di limite, proprio come possono essere il luogo della liberazione, della dolcezza, della sensibilità, dell’apertura. Nei domini digitali, fisici, ibridi, convergenti.

    In tutto questo: sarebbe ingenuo proporre soluzioni. Tanto è vero che non ne proponiamo. Proponiamo invece un immaginario: quello dell’interconnessione. Di cui tutti, di ogni “classe”, possono appropriarsi, a modo loro. Facendolo, già si interconnettono, entrano in relazione, fosse anche “solo” per le differenze con cui se ne appropriano.

    La “realtà alternativa” della performance, in qualche modo, diventa “ordinaria”: simulacro e simulazione creano realtà (plurale).

    E qui si potrebbe passare ad un altro punto, quello della pluralità:

    “C’è invece in questo libro come una sorta di significato/senso/scopo che sta sotto, che basta cercarlo con gli attrezzi giusti per impossessarcene una volta per tutte”

    e

    “Gli attrezzi giusti sono la libertà e l’amore”

    e

    “La libertà di usare tutto ciò che il sapere umano ci mette a disposizione, senza preclusione alcuna”

    e

    “Se fosse tutto qua e niente di più, perché il mio senso, il mio significato dovrebbe coincidere con il vostro?”

    Di nuovo: tutt’altro. L’ecosistema è il luogo del conflitto e della coesistenza, tramite l’interdipendenza, non il luogo in cui vanno tutti d’accordo. Lo “scopo”, in realtà è un “meta-scopo”, quello di liberare immaginario, così che possano emergere le differenze e, quindi, i conflitti, i desideri, le interconnessioni, le azioni, le pause, il pieno e il vuoto. Oltretutto non solo dando strumenti (anche), ma anche e soprattutto di avviare il desiderio di costruirsi strumenti e interpretazioni e coscienze proprie. Appropriazione.
    Libertà e Amore sono definiti in modi abbastanza precisi nel libro, per esempio.

    “La libertà e l’amore producono sofferenza e quindi conflitto; o impariamo da questo e facciamo un salto evolutivo – postumano direbbe Antonio Caronia con la sua bocca sdentata ma pronta a mordere – oppure ci rimane solo l’utopia consolatoria di un mondo semplice a cui serve solo un po’ di buon senso per essere ricondotto nella giusta direzione.”

    Nel libro, per esempio, si allude a questo bivio. Ne emergono, secondo me (ma altri potrebbero trovarci altro), considerazioni particolari, che indicano la possibilità di un “buon senso” molto peculiare, che afferisca alla complessità piuttosto che alla semplicità.
    E questo è importante.
    È per esempio il discorso che facciamo quando ci riferiamo al concetto del giardino, e del Terzo Paesaggio di Gilles Clément: come è fatto il giardiniere di un “giardino senza forma”? Un giardiniere che non utilizzi vanga e rastrello, ma vento e conoscenza? In cui sia il territorio stesso, incluse tutte le persone e le cose che vi sono sopra, a diventare conoscenza usabile e accessibile?
    Quando penso a questa cosa mi viene sempre in mente il quartiere in cui viviamo quando siamo a Roma: Monteverde, vicino al mercato di Piazza S. Giovanni di Dio. È un quartiere in cui abitano poveri, straricchi, studenti, migranti, rom, professionisti, destri, sinistri e scomparsi. C’è una sensazione del quartiere molto accentuata: sembra di essere in un paese, attraverso tutte le “classi”. E come nel paese ci sono dinamiche molto precise: gli occhi sulla strada che vedono, il gossip, gli intrallazzi. Ma anche la solidarietà diffusa. Ad esempio, noi, che stiamo molto fuori per lavoro, ogni qual volta che partiamo dobbiamo avvertire: il bar, i vicini, il gelataio, il fruttivendolo…. perché se non ci vedono per 3 giorni senza che abbiamo avvertito ci vengono a buttare giù la porta per vedere se stiamo bene.

    Questo è un fenomeno solo apparentemente semplice. Al contrario è ipercomplesso, tanto da unire attraverso le classi. Di interconnettere, più precisamente, perché “unire” potrebbe sembrare proprio quel “buon senso” che non è. È più una percezione “altra” del “normale” della città, in tutte le sue declinazioni positive, negative (ad esempio la continua possibilità dell’invasione della privacy), dissonanti, armoniche, complesse.

    Il “buon senso” è un affare complesso! E per niente scontato, nel senso che corrisponde a culture, immaginari, percezione del possibile. Intervenire sul “buon senso”, su ciò che è che ciò che implica, è un atto politico non solo potente, ma anche inclusivo. Ad includere anche il “postumano”. Immaginario, di nuovo.

    E, quindi:

    “E poi costruendo, come auspicava Caronia, quella famosa cassetta degli attrezzi che ci deve permettere di entrare senza soccombere in questa nuova fase dell’umanità.
    “…la costruzione di una nuova estetica,…”

    e non solo: cassettE, plurale. L’immaginario della possibilità di una estetica di ciò che interconnette.

    Grazie di nuovo e continuiamo la conversazione se vuoi!

  • Giuliano Spagnul

    Sono vecchio e ho pensieri vecchi e sono molto, molto meno capace di Antonio Caronia a districarmi tra mondi diversi, affatto differenti tra loro; quindi mi scuso in anticipo della possibile ruggine del mio argomentare. Ho scritto che la vita di Antonio in qualche modo è stata una performance in quanto è stata messa lì in toto per esserlo. Antonio ha fatto della sua vita, in modo più esplicito e cosciente di altri, un’opera d’arte. Cioè qualcosa che si presta ad essere guardata e criticata. La morte di Antonio ha creato un vuoto tra chi lo conosceva che è andato oltre la normale perdita di un amico perché è venuta a mancare a tutti questa cosa qui, questa performance di vita. Non è tanto la “performance” particolare, il fake, la provocazione, il salire su un palco di scrittori intellettuali dell’intellighenzia di sinistra e mettersi a parlare in vegano ad esempio, quanto il porsi anima e corpo in qualcosa che è… difficile dire… ma saccheggiando Agamben potremmo insinuare una “inoperosità”, qualcosa che non ci porta da nessuna parte, che forma una resistenza, che blocca anche solo per un momento quell’ingranaggio che ci sta masticando per poi sputarci via. Antonio alla fine della sua esistenza è tornato a capo, a parlare di normalità e follia, di salute e malattia, riprendendo fili che erano ancora quelli degli anni ’70. Lo so che tutti abbiamo bisogno di speranza e ottimismo, ma di tutto abbiamo bisogno meno che di una nuova utopia. Faccio fatica a considerare una performance come qualcosa che si costruisce, si sviluppa e si organizza. Considero la vita di Antonio, ed è per questo che insisto a parlare di lui, una performance perché è finita, e solo perché è finita può essere vista come tale. Forse Bachtin ha detto qualcosa di importante su questo. Il libro “La cura” è indubbiamente una performance, affascina, provoca, fa paura; cosa farei, cosa faremmo io/noi al suo/loro posto? Condividere la malattia, cercare insieme la cura; si può ripetere? Su che basi, in che modi? E sono queste domande giuste? Posso mettere insieme lo stregone con lo scienziato quando il mondo magico del primo è stato sconfitto definitivamente dalla santa alleanza tra chiesa e scienza cinque secoli orsono? E se la magia oggi ritorna è oscurantismo o crescita di una nuova comunità magica come preconizzato da McLuhan? In questo momento sto leggendo un altro libro che potrebbe a buon diritto definirsi anche lui “cura”, L’esegesi di Philip K. Dick. La sua cura è stata chiedersi per l’intero arco della sua vita come sia possibile cercare la verità sapendo che se mai la si trovasse verremmo immediatamente distrutti e accecati da essa. In questa ricerca, coscientemente fallimentare, grazie ad essa Dick è riuscito a non impazzire. Ad aver cura di sé. Il postumano, che non nasce oggi, ma è già in formazione da più di un secolo, deve fare i conti con questa nuova coscienza, che sta ormai dentro tutti noi, di un mondo senza più senso. Come si fa a vivere il senza senso e al contempo difendere la nostra libertà di esseri umani e di essere umani? Ma al termine di questo sproloquio la mia domanda è: se la cura è una performance essa deve finire, altrimenti è un’altra cosa e se è un’altra cosa necessita di essere definita, con tutti i rischi che il definire qualcosa comporta.

  • Definire. Sì bisogna definire. Solo: definire in che modo.
    Esempio: Wikipedia.
    Wikipedia nella sua “politica dell’interfaccia” perde un’opportunità. Wikipedia, infatti, per mostrare le sue definizioni mostra quella che fondamentalmente è una “pagina”. Il che è un gran peccato, perché in una “pagina” non risulta nulla di tutta la complessa geografia dei conflitti, delle relazioni, dei giochi di potere, dell’accademia, delle ripicche, del gioco, della collaborazione, dell’ostruzionismo che c’è dietro quella definizione. Sì, ma “c’è la pagina delle discussioni, e quella della storia delle revisioni della definizione”. Sì, ma stiamo parlando di “politica dell’interfaccia”, anche alludendo alla “bio-politica dell’interfaccia” e quindi di come l’interfaccia eserciti controllo e potere. Quindi il fatto che la “pagina” sia messa in primo piano è significativo: ecco, questa è la definizione; sì, ci sono anche le revisioni e la discussione, ma questa è la definizione.
    E puf! la geografia complessa del pensiero scompare.
    Perché in realtà la definizione singola non esiste. È una illusione. La definizione cambia attraversando persone, tempi, contesti, culture, emozioni, giochi, liti. Se qualcuno vuole dire che “esiste una definizione” ha uno scopo, un potere da esercitare, un controllo da mettere in opera, una qualche verità da forzare, che gli interessa per qualche motivo.
    Nessuno andrà mai a guardare la discussione. E, se pure la guardassero, rimane la “pagina”: sì, c’è la discussione, ma la definizione è questa. E anche la storia delle revisioni: non è fatta per le persone, è fatta per i burocrati, per i tecnici, per le macchine. Non serve a nulla.
    Ora. Quella stessa entità, la conoscenza polifonica della geografia complessa delle relazioni dei saperi che si crea attorno ad un certo termine di Wikipedia, potrebbe essere rappresentata in infiniti altri modi. C’è un motivo (ce ne sono molti) per cui si è scelto la forma della pagina.
    Ad esempio, aprendo l’interfaccia di Wikipedia su un certo termine, potrebbe essere visualizzato un grafo: un grafo di persone, interconnesse (o disconnesse) a seconda delle relazioni tra le loro definizioni del termine: io sono d’accordo su questo pezzo e su quest’altro no; quel gruppo ha definito questo pezzo, e ha contribuito a questo e quest’altro, modificando quello che aveva scritto il signor X e la signora Y; questi forniscono una definizione completamente differente, che sta qui e qui, e che si interconnette così e cosà.
    Un grafo, una rete di relazioni (e srelazioni).
    Questo sarebbe un oggetto vivo. Addirittura sarebbe evidente come cambia nel tempo: facendo play vedremmo il grafo animarsi, vedendo battaglie, collaborazioni, azioni, decisioni, ritrattazioni, conflitti, accordi, davanti ai nostri occhi. Potremmo vedere la vita di quella entità, per come cambia e si evolve nel tempo, nello spazio, nelle relazioni delle persone. E in ogni istante non esisterebbe (come non esiste) “la definizione”, ma tornerebbe ad esistere la geografia complessa della definizione, che sarebbe polifonica, dissonante, persino rumorosa.
    Un oggetto più difficile con cui avere a che fare?
    Dipende quale è il nostro immaginario.
    Cosa immaginiamo che sia una definizione.
    Perché se immaginiamo (come è) che una definizione sia una geografia complessa, ogni altro tipo di interfaccia su quel sapere sarebbe insufficiente: sarebbe amputato.
    Ora: uno degli elementi fondamentali della performance è proprio la difficoltà di capire dove inizi e dove finisca, e chi siano i performer e chi gli spettatori, e se abbia senso fare questa distinzione, o se serva un altro concetto.
    Viene il dubbio (o, almeno, a me viene) che il ragionare in termini di “o” sia estremamente limitante, e anche fuorviante. Perché allo stesso modo potremmo ragionare in termini di “e”, inclusivo.
    Potremmo partire dall’assunto che ogni definizione e valida, purché se ne possano vedere le geografie complesse. La definizione è una performance partecipativa polifonica e dissonante, che inizia con l’immaginario e che dura fintanto che è agita socialmente, fin quando è performata (sulla linea di Latour, di quando parlava delle reti delle sue ANT, e di come vivessero finché fossero agite).
    Potremmo addirittura pensare di ripiegare questo concetto su sé stesso, e di definire la “performance partecipativa polifonica e dissonante della definizione”.
    Ne emergerebbe il mondo, l’ecosistema, con tutti i suoi conflitti e dissonanze, e le sue geografie complesse.
    Torniamo all’inizio: sulla necessità di definire.
    Cosa sia una definizione è sostanzialmente un problema dell’immaginario: definire vuol dire qualcosa in base a cosa ci immaginiamo che voglia dire “definire”.
    Di nuovo: agire sull’immaginario è atto interessante, proprio perché agisce sulla performance partecipatoria polifonica e dissonante della “definizione”.
    O, per dirlo con termini che vanno di gran moda oggi, non puntando alla “governance”, ma alla “gioia di esistere” e alla sua complessità, al poterne avere esperienza e opportunità di interazione.
    Non sono gli strumenti che mancano. Di quelli ne abbiamo fin troppi, tra tecnologie, tecniche, scienze umanistiche, approcci, informalità, trasgressioni, arti, design, architetture.
    Manca un’estetica.

  • Giuliano Spagnul

    Mi permetto un ulteriore breve commento, non voglio abusare troppo di questo spazio e temo l’intervento del Barbieri furioso che grida: “Basta voi due di dire cazzate!” Ai miei tempi fra una citazione dai Grundrisse e una da Lacan spuntava irrimediabilmente la “risata che vi seppellirà”. Rileggendo quello che ci siamo scritti penso che potremmo andare avanti all’infinito, ognuno con la pretesa di dire cose più lucide e vere dell’altro, ma ho la ferma impressione che ognuno di noi stia dialogando principalmente con se stesso. Queste trappole di macchine ci illudono di interfacciarci ma in realtà… spero capiterà l’occasione di incontrarci e di discutere con tutto il nostro corpo appresso. Intanto continuerò a consigliare a tutti, amici e conoscenti, questo incredibile e magnifico libro che è La cura.

  • Daniele Barbieri

    il barbieri non è furioso ma curioso, curiosissimo del libro – che presto leggerò – e di questa bella discussione. Grazie a entrambi, corpi inclusi.

  • ho letto – sto leggendo – tutto con piacere estremo.
    l’invito che fai, Giuliano, alla critica anche aspra della Cura e della “cassetta degli attrezzi” è l’azione più significativa che si possa immaginare di mettere in campo: anche io spero che ci incontreremo dal vivo, magari non da soli ma insieme ad altri, per continuare il dialogo, e ti ringrazio per esserti preso il tempo di leggere il libro 🙂

    queste che abbiamo a disposizione sono finestre, si aprono e si chiudono, hanno un frame che le definisce, e possiamo usarle come tali: di per sè, l’articolo e lo spazio di commento un link lo hanno creato. cosa possa generare – se una trappola, una possibilità, un’illusione – non sento di poterlo definire a priori.

    così, non sento di poter definire a priori “un mondo senza più senso”.
    sostituiamo “senso” a immaginario e decliniamo al plurale. gli immaginari ci sono eccome, tendenzialmente sempre meno e definiti da un numero ristretto di soggetti. che succede quando l’ sforzo – la performance – è proprio dotarsi di strumenti per estendere la possibilità di creare immaginari, renderli plurali e accessibili (a partire dalla prima forma di accesso: la percezione della possibilità)? un grosso – e insormontabile – problema si porrebbe se volessimo decidere “un immaginario” (o un senso), e non mantenere aperto (conflittuale e possibilistico) questo spazio.

    qui, per vie e ragioni differenti, entreremmo forse nel regno dell’utopia: uno spazio pacificato in grado di ricomporre ogni conflitto. infatti u-topia è senza luogo, non è situata, al contrario della performance che nasce, si sviluppa e vive attraverso i contesti (nei corpi, nei luoghi, nei tempi).

    “la mia domanda è: se la cura è una performance essa deve finire, altrimenti è un’altra cosa e se è un’altra cosa necessita di essere definita, con tutti i rischi che il definire qualcosa comporta.”

    in qualche modo la Cura è già “iniziata e finita” una volta fra il 2012 e il 2013, in tre anni si è trasformata nel libro, che è il nuovo elemento della performance con cui se vuoi abbiamo cercato un passo evolutivo elaborando l’esperienza che abbiamo fatto: sperimentare approcci, sensibilità, estetiche , immaginari (!) basati sull’interconnessione, la complessità e l’ “indisciplina metodologica”, prendendo in prestito il termine al caro amico Massimo Canevacci.

    il grande sforzo è qui, cerchiamo di metterlo in atto in tenti modi, per esempio attraverso i workshop, lasciando traccia del processo e della conoscenza prodotta perchè altri se ne possano appropriare in tanti modi, dal replicarli a crearne di propri, anche differenti
    (qui, per esempio, i primi due workshop realizzati)
    http://la-cura.it/2016/04/22/report-da-erbe-indisciplinate/
    http://la-cura.it/2016/04/29/la-cura-un-supereroe-interconnettivo/

    nell’introduzione ci siamo posti questo problema: una performance non si può replicare e anche “documentarla” è un grande punto interrogativo nell’arte. uno dei modi migliori che abbiamo è dare gli strumenti – gli “how to” – ad altri per essere performer.

    un abbraccio,
    o.

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