Cata-sogna? Cata-rogna? Cata-fogna?

un piccolo dossier con gli interventi – decisamente non paralleli – di Bruno Alpini (il calzolaio di Durruti) e di Lanfranco Caminiti

ESPAGNA v/s CATALUNYA o del «e adesso come facciamo ad uscirne?»

riflessioni di Bruno Alpini (*) ovvero «il calzolaio di Durruti»

Sono pensieri in libertà a volte sconnessi tra loro, a volte in contraddizione, sempre in evoluzione.

Inizio.

Partiamo dai soldi. La Catalunya ha un debito con Madrid di circa 75.00o milioni di euro, poi non so perché o percome ma certo è che in Catalunya hanno scialato e di brutto.

Dal 1980 al 2015, la Catalunya ha avuto un governo di coalizione di partiti di centro-destra ma indipendentista.

Più del 50% della popolazione non è catalana. Sono contenti di parlare due lingue, di tifare Barca e la nazionale. Ma non sono catalani.

Ma veramente pensate che i politici indipendentisti catalani  volessero l’indipendenza, con la forzatura unilaterale? Io non ci credo manco morto. L’hanno fatto sperare a chi è andato a votare e quest’ora… se ne stanno accorgendo.

Dall’altra parte, a Madrid, non sanno come stare attaccati alla poltrona e dopo due elezioni – e più di un anno senza governo – per non andare alle terze elezioni il PSOE astenendosi consente a Rajoy di fare un governo. Governa con 137 deputati su 350, quelli del PP più i 32 di Ciudadanos, un partito liberale e centrista; poi c’è chi lo appoggia, astenendosi o non facendo parte della coalizione, cioè:

Partito Socialista Operaio Spagnolo (non tutti)

Partito Nazionalista Basco (partito di destra)

Coalizione CanariaPartito Nazionalista Canario (partito di destra)

Hanno cercato di copiare l’Italia (lo dichiararono loro). Solo che noi a fare di questi pastrocchi siamo maestri loro neanche Campionato Dilettanti.

Tutto inizia nel 2008, crisi economica, la Espagna tutta sta per fallire e le classi politiche stanno perdendo consenso e potere.

Cosa si inventano i catalani? Ovvio, il nazionalismo.

Come reagisce Madrid? Ovvio, con il nazionalismo.

Fra l’altro devono rientrare nei parametri imposti dalla Comunità e restituire un pacco di euro e entro il 2017. Voglio vedere con questo casino cosa succede.

… perché noi nel 1700 siamo stati invasi dai Borboni, eravamo un regno a parte … (1700? e chi se ne frega). Noi in Romagna, galli e non capponi, siamo stati invasi dai romani però non è che ora chiediamo di diventare uno Stato. Chi ricorda questo rammenti anche che fu una guerra più tra catalani che fra catalani e invasori. C’era chi stava di qua e chi di là.

Una precisazione, la Catalogna non è mai stata un regno. Cominciò come contea sotto l’egida dei re francesi (i Carolingi) poi divenne principato una volta unita, grazie a un matrimonio, con il regno di Aragona.

Ricordatevi anche che chi appoggiò in maniera viscerale il colpo di stato prima e il franchismo poi fu principalmente la borghesia BASCA e CATALANA: erano e sono le due zone più ricche della Spagna. C’è un partito di destra basco e la Catalunya è stata governata per più di 23 anni da Jordi Pujol i Soley e fino al 2015 con il suo successore Artur Mas i Gavarró, che alle elezioni del 2015 si prese pure un 40%. Sempre centro-destra colorato di indipendentismo.

Tutti a pensare ai poveri baschi e ai poveri catalani, oppressi dallo Stato centrale e via così. Sono gli immigrati che – dalla povera Andalusia e da altre regioni – sono andati a far ricca la Catalunya e infatti l’Andalusia è sempre stata roccaforte della sinistra. In Catalunya e in parte nei Paesi Baschi si affermarono gli anarchici e i loro sindacati ma per combattere un padronato becero. C’è un aneddoto. Quando gli operai presero le fabbriche e le autogestirono, vi apportarono notevoli miglioramenti. Investendo sull’innovazione, cosa che i padroni non avevano voluto fare perché costava. Poco lungimiranti. Alla fine, quando i padroni tornarono, si trovarono fabbriche che producevano più del doppio di prima. Questa è la grande borghesia della Catalunya.

Ascaso era dell’Aragona, fra la Catalunya e i Paesi Baschi.

Durruti era della Castiglia y Leon.

Ora sono gatte da pelare. Ma vi pare che il governo catalano debba chiedere alla Chiesa di fare da mediatrice? Intanto Madrid si scusa per i quasi mille feriti ma fa una legge per facilitare le aziende e le banche a spostare la sede legale fuori dalla Catalunya.

Non ci si capisce molto. Se lo fai vuol dire che allora “darai” l’indipendenza? Boh.

Posso dare un giudizio, ho amici fraterni e sono più di 20 anni che bazzico in Catalunya (sul catalano autoctono) e sono sicuro che non può essere smentito. Come zucconaggine mi sembrano una mezcla fra i bresciani e i bergamaschi con un spruzzo di brianzolo. Cocciuti come pochi.

Cito Alessandro Forti Prendini che abita a Barcellona e con il quale mi sono confrontato casualmente.

«E se vogliono l’indipendenza, l’otterranno prima o poi. Forse anche prima che poi, perchè il lehendakari basco (il “presidente” del governo autonomo) ha detto che vuole una riforma della costituzione per arrivare ad uno Stato confederale, con referendum, legalmente pattati col governo centrale, per i Paesi Baschi e Catalogna per la permanenza o no in detta confederazione di regioni. Il peso politico del PNV è decisivo per approvare il bilancio dello Stato, quindi si può permettere una richiesta del genere.

Il PNV alle ultime elezioni non ha recuperato i voti persi negli ultimi anni e riversatisi nell’area abertzale (HB/Sortu/Bildu). Questi ultimi hanno perso molti voti a favore della lista “ombrello” di Podemos. Quindi adesso il PNV cerca di riconquistare voti di indipendentisti baschi di sinistra approfittando della breccia aperta dai catalani. È interessante notare che anche il PNV è borghese e cattolico, come il partito dell’attuale presidente della generalitat catalana».

Infatti mi ricordo che pochi anni fa la fine della monarchia era quasi certa e che la nascita di una Repubblica, a questo punto, Federalista era il plan sul tavolo. Poi vai a sapere cosa sia successo.

Io ho una mia teoria.

Tutto implode nel 2014 con la morte di Cayetana Fitz-James Stuart, duchessa d’Alba , cinque volte duchessa, 18 marchesa, 20 contessa e 14 volte Grande di Spagna. In seconde nozze si sposò con l’ex gesuita Jesus Aguirre. Le sue ricchezze erano enormi.

Voi penserete che non è vero? Io penso di sì.

Se fino al 2014 esisteva una donna con 40 titoli nobiliari, ricchissima e sposata con un gesuita, tutto può essere possibile.

«Ci sono più cose in Cielo e in Terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia» (William Shakespeare) ma anche «ho viste cose che voi umani non potreste immaginare: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.» (Rutger Hauer/Roy Batty)

a firma Bruno Alpini il calzolaio di Durruti

(*) se desiderate sapere qualcosa in più sull’autore data un’occhiata qui: Bruno Alpini, un hombre vertical

LA MEMORIA, LA STORIA, I SIMBOLI

di Lanfranco Caminiti (**)

In Catalogna, oggi, in gioco non è una secessione che ripari i torti del 1714, ma un’idea di repubblica dove il rapporto tra istituzioni pubbliche e istituzioni sociali, tra “l’alto” e “il basso” è invertito.

 

Lo sciopero generale ha visto una marea di persone per le strade catalane. A Barcellona, i cortei sono voluti tornare “sui luoghi del delitto”, dove cioè la Guardia civil e la Polizia nazionale erano intervenute pesantemente impedendo lo svolgimento del voto. Guardia civil e Polizia nazionale che sono state invitate a lasciare gli alberghi dove alloggiavano, il che è avvenuto qui e là, su pressione anche degli albergatori, dopo la “richiesta” espressa da Puigdemont. I poliziotti cantavano Viva España. Beh, insomma, ci vuole faccia tosta.

Un certo pudore ha sempre trattenuto sinora tutti, in Catalogna e in Europa, dall’evocare “la guerra che si è perduta”, il golpe militare contro una repubblica democraticamente eletta e la guerra civile che ne seguì nel 1936-39. Colpisce però il fatto che benché quarant’anni fa alla fine del franchismo “si decise” che nessuna vendetta e nessuna resa dei conti ci sarebbe stata da parte di chi (dei figli e nipoti di chi) ebbe la vita, la carriera, la famiglia distrutta dalla repressione che durò ben oltre il vero e proprio scontro militare, con soprusi, arraffamenti di beni, cambi di casacca, spiate e tradimenti per puro vantaggio personale, e che tutti i partiti e i giornali e le televisioni accettarono questa “legge del silenzio” nel nome di una transizione democratica, ovvero di non lacerare  immediatamente una democrazia che in qualche modo era stata “donata” dalla morte del Caudillo, la letteratura spagnola più recente sia invece tornata con vigore sull’argomento.

Non si fa riferimento perciò solo alla La piazza del diamante, di Mercé Rodoreda (che ebbe un ruolo nella repubblica del ’36 e andò in esilio), o a I vinti, di Antonio Ferres, ma, citando a caso, a Javier Cercas (contrario al referendum, benché catalano: ma questo è un dettaglio) de I soldati di Salamina e de L’impostore ma anche del suo capolavoro Anatomia di un istante, che pur focalizzato sul tentativo di golpe di Tejero che irruppe nelle Cortes con un manipolo di militari il 23 febbraio 1981, raccontando dei tre uomini che rimasero immobili al loro posto, Adolfo Suarez, delfino del franchismo e suo traghettatore, Santiago Carrillo, segretario del Partito comunista, e il tenente generale Gutiérrez Mellado, parla del passato, oltre che del presente e del futuro della Spagna; a Inés e l’allegria o a Cuore di ghiaccio, di Almudena Grandes; a Luna da lupi di Julio Llamazares, tutti autori di una generazione più giovane che quella transizione, quella rimozione l’hanno vissuta. Ci si riferisce a Javier Marías che nel suo ultimo libro – Così ha inizio il male – apre attraverso un personaggio “minore” uno squarcio inquietante sugli anni immediatamente dopo la guerra civile, un medico capace di raccattare fortune e onori che gli durarono a lungo usando comportamenti biechi e orribili, sui quali nessuno intende più fare luce.

In qualche modo, perciò, la storia ritorna, adesso che la distanza temporale s’è fatta maggiore, e la democrazia sembra ben salda – o forse solo, si racconta di cose che sembrano appartenere a un passato lontano. La letteratura può, senza per questo perdere il suo senso civile, il dolore e l’indignazione per quello che è accaduto, sfumare le storie e i personaggi, lavorare sulle ambiguità di ciascuno, perché poi nelle ambiguità di ciascuno c’è un pezzo di storia collettiva, di comportamenti sociali.

Nessuno pensa – o quanto meno: nessuno si augura – che la situazione in Catalogna possa precipitare, nel braccio di ferro voluto dal governo centrale di Madrid, verso uno scontro di cui nessuno più sarebbe in grado di controllare gli esiti. Non siamo sull’orlo di una guerra civile, e in Europa nessuno coltiva una ideologia della guerra o la prepara – la guerra civile in Spagna fu “l’esercitazione” della guerra civile in Europa del ’39-45. La tragedia del passato funziona da “limite” – e in qualche modo la letteratura è servita a un processo di elaborazione tanto quanto la politica delle forze sociali catalane è servita a elaborare in nuove forme di protesta e di democrazia la storia di quella sconfitta e i lunghi decenni del “tallone di ferro” sopra la Catalogna.

Eppure, la storia ritorna. In un piccolo paese della Navarra basca – poco più di mille abitanti – il giovane sindaco appena eletto in una lista indipendentista come suo primo gesto ha voluto piantare un ceppo di un albero di Guernica, del cui bombardamento quest’anno è ricorso l’ottantesimo, vicino al monumento ai caduti della Guerra civile: furono ottantacinque durante lo scontro militare (tra cui il sindaco eletto, un socialista-repubblicano) e quarantacinque fucilati. Una storia piccola, questa, ma di gran significato.

Come è possibile che a Charlottesville un nazista si sia scagliato con la sua auto contro una manifestazione anti-razzista, uccidendo una giovane donna, 150 anni dopo la Guerra civile? Ha forse ragione Trump, che nei suoi immediati tweet condannava gli uni e gli altri, quelli che vogliono abbattere le statue sudiste che ricordano un passato orribile, e quelli che le difendono? Ha torto, è divisiva, come suol dirsi, quella sinistra liberal americana che di togliere dai piedi quelle statue – un simbolo e niente più? – ne ha fatto un “programma d’azione”?

Eppure, la letteratura americana – per tutto basta ricordare Bellissima, di Toni Morrison – e la televisione e il cinema degli ultimi anni hanno prodotto straordinarie narrazioni, conquistando visibilità e premi e una crescita della coscienza della nazione americana, del suo “peccato originario” dello schiavismo. Come è successo peraltro con i nativi americani.

Nessuno pensa che gli Stati dell’Unione dichiareranno ora guerra agli Stati confederati del Sud – ma il conflitto continua, e non solo per “onorare” la memoria. Come ha detto Angela Davis, storica militante afro-americana in Italia in questi giorni al festival di Internazionale:

«Forse le catene sono state spezzate, allora, ma andavano create delle istituzioni per una nuova democrazia, e questo non si è fatto, e quindi viviamo con il lascito di quel fallimento, ma anche con il fatto che il razzismo non è mai lo stesso, si trasforma, e oggi è parte strutturale del capitalismo globale».

La storia ritorna, e non sempre la seconda volta ha il segno della farsa. Perciò, è di questo che stiamo parlando: la memoria serve per capire il presente, non per ripresentare il passato. Negli Stati uniti, Black Lives Matter non si batte solo per la dignità dei neri, ma per un’idea di società diversa. In Catalogna, oggi, in gioco  non è una secessione che ripari i torti del 1714, ma un’idea di repubblica dove il rapporto tra istituzioni pubbliche e istituzioni sociali, tra “l’alto” e “il basso” è invertito. E, dopo anni e anni in cui si parla di crisi della partecipazione, di un’Europa che “vive” solo lontano dalla gente, di disaffezione generale alla politica e alla cosa collettiva, di individualismo ormai insito, beh, scusate se è poco.

(**) tratto da https://comune-info.net che indica questi ARTICOLI CORRELATI:

Forti venti dal basso Gustavo Duch

Cronaca di una giornata elettorale F.D.

Omaggio alla Catalogna Franco Berardi Bifo

Viaggio in Catalogna. Stato vs cittadini Enrico Euli

 

LA VIGNETTA (scelta dalla “bottega”) fra i due articoli è di Chumy Chumez: vecchia… ma sempre buona.

Redazione
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2 commenti

  • BRUNO ALPINI il calzolaio di Durruti

    Una precisazione. Alessandro Forti Prendini non abita a Barcelona ma a Valencia.

    Vorrei anche sottolineare, per chiarezza storica e perché molti stanno facendo confusione, che la Guerra Civile 1936-1939 non fu fatta dalla Repubblica de Catalunya per l’indipendenza (si, ho letto anche questo … … i catalani non hanno imparato la lezione del 1936-1939) ma dalla Repubblica de Espagna contro un golpista, tale F. Franco. La capitale era Madrid, difesa strenuamente fin quasi alla fine, poi fu trasferita a Valencia, ma mai a Barcellona. Barcellona era la base operativa maggiore. C’erano le fabbriche e c’erano 1.500.000 di iscritti ai sindacati, per la maggioranza alla CNT, il sindacato anarchico. Nell’immaginario di molti è la Guerra Civile della Catalunya, no. Non fu mai chiesta l’indipendenza, evidenziato dal fatto che entrarono nel governo della Repubblica de Espagna 4 ministri anarchici. Ma questa è un’altra storia.

  • Ottimo, come sempre, l’intervento di Franco Berardi Bifo. Da leggere e meditare. Ha centrato la situazione, ma non nella disamina della deriva autoritaria/franchista/fascista o altro, ma nel semplice concetto di CONFUSIONE. Barcelona e Madrid sono in CONFUSIONE. E intanto gli speculatori ingrassano. Se le banche e le industrie catalane hanno visto il valore azionario diminuire fino al 20%, sicuramente c’è qualcuno che ha venduto e, soprattutto, qualcuno che sta acquistando. Chi acquista a – 20% poi tra poco si troverà ad aver guadagnato il 20%. E’ in atto una speculazione finanziaria. Fossi un finanziere mi ci butterei a pesce.

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