La nuova Via della seta

 di Giorgio Nebbia (*)

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Ha avuto, a mio parere, limitato rilievo l’incontro a Mosca, in occasione dei 70 anni della loro vittoria contro il nazismo e il Giappone, degli “imperatori” della Russia e della Cina. Non sono naturalmente imperatori in senso stretto, perché sono eletti dalle rispettive assemblee – Vladimir Putin, presidente della Russia, e Xi Jinping, segretario generale del Partito comunista cinese – ma il loro potere è quello di capi di due potenze, imperiali dal punto di vista economico, che si contrappongono all’Occidente, inteso come Europa, Nord America e Giappone. Con il vantaggio che i due grandi Paesi confinano e rappresentano, di fatto, una grande unità geografica, politica ed economica che si stende dall’Ucraina, a ovest, all’Oceano Pacifico a est.

Una unità euro-asiatica, che comprende circa un terzo della popolazione mondiale, in rapido aumento, persone affamate di merci: una unità intorno a cui gravitano le repubbliche asiatiche ex-sovietiche, terre ricche di materie prime, e dotata di un grandissimo potenziale scientifico e tecnico al servizio dell’economia. Nel corso dell’incontro di Mosca i due capi di Stato hanno gettato le basi per una “nuova via delle seta”, riesumando il nome di una pagina della storia che ha avvicinato la Cina, già un paio di secoli prima di Cristo, ai popoli della “terra di Roma”, che i cinesi chiamavano Da Qin.

I romani sapevano che, a oriente, esistevano ricchi Stati, da cui venivano preziose e costose merci di lusso, come seta, ambra, profumi, spezie, zucchero, ma l’accesso a tali Paesi era impedito da una invalicabile barriera costituita dai Parti e da altri popoli. Mentre “Roma” declinava come potenza, invecchiava ed era afflitta da debolezza politica e militare, nell’Asia scorrazzavano – fra steppe, pianure, fiumi e montagne – popoli giovani, aggressivi, “barbari”, secondo la valutazione del mondo greco-romano, che svolgevano un ruolo di intermediari commerciali fra Oriente e Occidente. Nello stesso tempo la Cina godeva di un periodo di sviluppo tecnico-scientifico che destò l’ammirazione dei primi europei, mercanti o missionari, che riuscirono a raggiungerla dopo l’anno Mille.

La via di comunicazione fra Oriente e Occidente era chiamata “della seta” perché la seta era la principale merce cinese desiderata dalle classi dominanti europee.

La “nuova via della seta” si propone di collegare con oleodotti e gasdotti, ferrovie e autostrade, i popoli produttori e consumatori di materie prime e di merci di cui le economie industriali dell’Occidente hanno disperato bisogno per la loro stessa sopravvivenza. Si tratta di carbone, petrolio, gas naturale, minerali di ferro e di altri metalli, fra cui quelli indispensabili per l’industria elettronica civile e militare, per le macchine solari e eoliche, per gli autoveicoli del futuro.

I governanti occidentali vanno a implorare dai governanti degli Stati euroasiatici accoglienza e trattamenti favorevoli per le industrie dei rispettivi Paesi, le quali si offrono come costruttori di oleodotti, fabbriche, strade, autostrade e ferrovie, città e grattacieli. Imprese che hanno bisogno di soldi russi e soprattutto cinesi, che sono tanti e che stanno comprando tutto quello che possono, in Asia e anche in Europa.

Nello stesso tempo i Paesi euroasiatici emergenti usano la ricchezza proveniente dalle loro materie prime per costruire università e centri di ricerca e per riscoprire e rivendicare con orgoglio la loro storia: quando, ai tempi del nostro Medioevo, possedevano industrie della tessitura, agroalimentari, della carta, motori eolici, impianti di irrigazione; quando avevano osservatori astronomici, scuole di matematici e fisici, soprattutto dopo la diffusione dell’Islam. I commerci fra l’Asia e l’Occidente hanno avuto in passato e hanno oggi profondi effetti sull’ambiente. Nel Medioevo la diffusione attraverso l’Asia della coltivazione del gelso e della produzione della seta, della coltivazione della canna da zucchero e di molte spezie, ha modificato il paesaggio e l’ecologia dell’Europa e poi delle Americhe.

Oggi le miniere asiatiche di minerali di ferro, rame, zinco, cadmio, oro, lasciano colline di detriti anche radioattivi; le fabbriche metallurgiche e chimiche immettono nell’aria fumi tossici. Effetti ambientali negativi ma anche effetti positivi perché la produzione e l’uso di alcuni “nuovi” metalli, come quelli delle “terre rare”, forniscono gli strumenti per lo sviluppo e la diffusione delle fonti energetiche rinnovabili e di tecnologie “verdi”. Lentamente l’Europa sta dipendendo da Paesi di cui non conosciamo né lingua, né storia, né geografia.

Mi sorprende che nelle nostre università ci sia poca attenzione per questa transizione e per preparare i nuovi laureati a comprenderla. Proprio nell’università di Bari, della città che si è sempre considerata porta aperta verso l’Oriente, nel 1946 i fondatori del corso di laurea in Lingue e letterature straniere presso la facoltà di Economia e Commercio inserirono nello statuto un insegnamento di «Storia del commercio con l’Oriente» che fu attivato nel 1961 e sopravvisse per una decina di anni. Fu poi abolito quando il corso di laurea diventò facoltà autonoma. Eppure proprio la conoscenza della geografia economica e merceologica ma anche della storia e della cultura dei Paesi euroasiatici è essenziale per comprendere che cosa possiamo trarre da loro e che cosa possiamo offrire come conoscenze tecnico-scientifiche; una grande sfida per giovani studiosi, per nuove occasioni di lavoro e di imprese e di affari. Le nostre università, soprattutto quelle italiane e meridionali, sapranno raccogliere tale sfida?

(*) Ripreso da «Comune Info»; pubblicato anche sul quotidiano «La gazzetta del Mezzogiorno».

 

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