LA PARTE PER L’INTERO

LA PARTE PER L’INTERO
di Mauro Antonio Miglieruolo
(da Storie Malsane)

Non la finiscono più di criticarmi. Chiunque mi avvicini si sente in dovere da offrire suggerimenti o diramare perentori inviti a correggersi. Per colpa del mondo, che si è gradualmente allagato di consiglieri, non ho quasi più amici, li fuggo come la peste. Non ne posso più di buoni sentimenti e dei discorsi intorno alla mia possibilità di redenzione. Possibilità di redenzione? Ho seri dubbi in proposito. Non dubbi sulla possibilità di correggermi, considerato che lo faccio in continuazione: mi correggo almeno un paio di volte l’anno (in tutta sincerità posso affermare di essere l’uomo più instabile – mutevole? – che esista al mondo). I dubbi riguardano la diagnosi dei mali che viene avanzata e la terapia proposta. Approfondire, andare di là dalle apparenze,

valorizzare le doti interiori… ma che vuol dire? Non è più dunque la bellezza il fine principale dell’uomo? Della sua arte? Del suo anelito al Sublime? Sono fatto male, lo riconosco; ma non è la direzione di marcia che intendete farmi intraprendere quella che mi porterà alla salvezza. È ben altro. Non sono ancora riuscito a comprendere cosa, ma continuo a cercare. I miei molteplici difetti, dai quali trovo difficoltà dall’emendarmi, possono ostacolarmi, non impedirmi di arrivare alla meta.
Intanto confesso di me quel poco che può caratterizzarmi. Sono uno fra tanti, nel medio della maggioranza. Il classico uomo della strada, tale e quale. Amo le donne, ma le amo a fette, per porzioni equabili. Dal valore della porzione giudico e valuto l’insieme: per loro accetto l’intero.
Ho trascorso diverse fasi, collegate a differenti interessi, e ognuna mi ha donato il suo bagaglio di delizie e spasimi sessuali.
Il primo è stato il periodo delle tette. Non riuscivo ad interessarmi che a donne con grandi tette. Andavo a peso, ne volevo almeno una dozzina di chili per femmina, minimo. Sulla qualità non avanzavo eccessive pretese, purché la quantità fosse sovrabbondante: seni flosci, seni sodi, seni belli, seni brutti, non andavo tanto per il sottile; bastava che fossero di dimensioni tali da poterci affondare dentro il viso e avevo la mia bella, poderosa erezione; altrimenti nisba, non se ne parlava nemmeno. Se invece la giovane o vetusta donzella me le spiattellava davanti grosse e dondolanti simili a tanti cocomeri appesi bisognava legarmi per tenermi buono.
Ma si sa, tutto viene a noia, persino il più generoso e dirompente sviluppo mammario (persino l’ideale della dimensione ideale). La stanchezza gravò di disgusto i desideri. Le tristi sfatte prostitute a cui necessariamente mi accompagnavo, fecero triste anche me. Non era possibile! tutta quella miseria, tutta quella indifferenza! D’un subito mi ritrovai condannato al confino, ristretto nel prigione degli impotenti, in un Purgatorio nel quale non c’era spazio per amore di donna, né possibilità di avere parte nella loro vita. Si può bene immaginare quanto ne fossi addolorato. Non farsi drizzare l’uccello, per qualsiasi maschio equilibrato, è un vero problema. Anzi, è IL problema.
Non cincischiai nella ricerca della soluzione. La fortuna mi aiutò, diede la spinta di cui avevo bisogno. Una spinta che può essere compendiata dallo spazio rotondo di un bel culetto ostentato senza pudore in una spiaggia nudista, dove ero andato in cerca di ispirazione poetica.
La ragazza dal culetto d’oro, proterva e indisponente, si mise in posizione, di spalle, in ginocchio, tutta china sul suo ragazzo che spasimava di baciare, di carezzare e coccolare; e me lo agitò a mezzo metro di distanza, lasciando che ammirassi convenientemente quel che aveva da offrire. Un colpo d’occhio formidabile in cui la grazia si mescolava con l’abbondanza e l’oscenità della posizione al candore dell’ignara fessura.
Ammetto che, colto da immediata incontinenza, faticai a mantenere il controllo. Le ore che seguirono furono ore di tormento. Il peggio però venne dopo, in seguito all’ossessione da cui fui rapito. La passiva impotenza degli ultimi tempi mutò in ingordigia di eccessi e la penuria in abbondanza. Attratto dalla prospettiva nuova che mi era offerta (nessuno può immaginare quanto delizioso appetito seppero suscitare in me, da quel m omento in poi, i carnosi posteriori delle femmine), mi diedi alla pazza gioia. Ulteriormente assecondato dalla fortuna incontrai molte donne che, condividendo le mie preferenze, accettarono di trattarmi con indulgente condiscendenza. Per svariati mesi, anni forse, il genere femminile non ebbe altro senso che in ragione delle ineffabili rotondità sulle quali, fino a quel momento, avevo sentitamente sorvolato. La mia vita sessuale conobbe nuove albe, nuove apoteosi, nuovi slanci.
Trascorsi di trionfo in trionfo, belante e fortunato, inseguendo con gli occhi ogni gluteo degno d’ammirazione mi passasse davanti agli occhi; e inseguendo col desiderio ogni corpo se ne mostrasse ben dotato.
Ma si sa che al sereno, per quanto bravo possa mostrarsi nel mantenere i cieli puliti, segue inevitabilmente la tempesta. I generosi quarti posteriori femminili, sempre gli stessi, sempre nella monotonia di quelle forme inguaribilmente rotonde e di incerta consistenza, anch’essi stancarono; e ricaddi di nuovo in un lungo, riprovevole periodo di depressione. Niente sesso, niente donne, il completo totale disgusto di me stesso e dell’esistenza.
Ma, alle corte, meglio non allungare il brodo. Patii i contraccolpi di tutti gli ossessi per elezione. Al silenzio dell’accidia seguì il fragore di una nuova mania. Me la inculcò una Signora in Rosso, la quale, ignoro se per malizia o ingenuità, lasciò, senza accennare a un intervento riparatore, che il vento le scoprisse un po’ troppo in alto gli arti inferiori. Conclusa l’opera del vento, provvide lei a prolungarne gli effetti. Interruppe i piacevoli conversari con cui ci intrattenevamo a vicenda per lamentarsi delle rovine che gli anni disseminavano sulla pelle un tempo immacolata delle sue cosce. E, senza esitare, profittando ch’eravamo al riparo d’un cespuglio d’oleandro, sollevò la gonna per esibirmi i danni patiti, in verità esponendo virtù cospicue e notevolmente seducenti. Almeno io, forse a causa della grazia e disinvoltura con cui furono esibite, le trovai pregevoli, degne dell’intera mia attenzione. Si trattava di appendici vertiginose, belle, grandi, sode, bianche, ben tornite: in una parola, di cosce MONUMENTALI. Me ne innamorai all’istante, e per esse tutte le altre cosce che vennero in seguito. Che vennero nella realtà effettuale, e in quella più ricca e opulenta delle elucubrazioni erotiche.
Tornai a gradire le femmine e a lasciare che mi gradissero. E tornai, non molto tempo dopo, com’era inevitabile, alla noia pregressa e alla sazietà.
Altri miracoli in gonnella si succedettero e con loro nuove fissazioni, nuove lussi, nuove indigenze. Ormai avevo imparato e da me stesso, ogni volta che la ripetizione finiva con il neutralizzare gli slanci dell’ubbia di turno, mi sollecitavo verso nuove infatuazioni. Percorsi l’intero circuito delle bellezze proprie al genere femminile; e trascorsi rapidamente dal feticismo delle mani, le belle mani di donna, e quello dei piedi, all’ammirazione per i colli bianchi e morbidi, per le braccia, per i lineamenti graziosi o lascivi delle tante che incontravo; per cadere persino nella sgraziata passione per i peli delle ascelle, e quella altrettanto conturbante, ma più selvaggia, che attiene alle parti che raramente si scoprono. Mi smarrii nei laghi verdi gemelli di due occhi ridenti, appassionato poi da un bel naso etrusco (e dei tanti che incontrai), giunsi ad apprezzare le pallide gote di un’adolescente nordica e delle tante sue consorelle che scendono a svernare nei nostri lidi. Di tutto m’entusiasmai e, alternativamente, mi stancai. Ogni opzione fu valutata positivamente, conosciuta e successivamente negletta; finché, esplorando e riesplorando le possibilità d’eccitazione che mi erano offerte, le esaurii tutte, e non rimase nulla con cui provocare e sostenere il desiderio.
Cessai ogni rapporto con le donne. Smisi di rimpiangerle. A tutt’oggi, dopo tanto errare sulle plaghe desolate delle speranze, non le cerco più, non le desidero. Mi mancano le occasioni di eccitazione e perciò stesso le erezioni, vale a dire l’essenza della vita sessuale. Omai nessuna riesce a suscitare in me interesse, perché nessuna può sfoggiare qualcosa di inaspettato, sottilmente o grevemente insidioso, misteriosamente affascinante, con cui sedurmi. Neppure all’estremo d’una consolazione onanista mi è dato ricorrere. Gli stessi stimoli assenti nei confronti delle donne, la fantasia e l’estro, operano negativamente ogni volta che tento di placare da me stesso le tempeste che di tanto in tanto sconvolgono i miei sensi.
Il mio analista, ultimo arrivato, sostiene che dovrei rassegnarmi ad avvicinare le donne in quanto tali, tutte intere, per come sono, per quello che sono, che ne trarrei beneficio; ma è dura da ingoiare, dura davvero, persino inconcepibile. Forse innaturale.
Che cosa è una donna infatti se non la somma delle varie attrattive che la compongono?

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