La Pazzia di Chisciotte

di Mauro Antonio Miglieruolo

Non è vero che gli dèi accecano colui che vogliono perdere. Gli uomini nascono già perduti, già ciechi. Possono essere salvati e allo scopo Dio ha predisposto altri loro simili in grado di fornire istruzioni su come destreggiarsi nei tortuosi sentieri che definiscono il mondo. Un incontro fortunato e la facoltà minima di percepire bianco e nero (e distinguerli) è acquisita. In un certo senso potremmo dire che la storia dell’uomo è storia dei Ciechi di Gerico, dei milioni e miliardi che hanno ricevuto il bene della vista da altri che avevano la facoltà di darla. Clamoroso il caso di Gesù di Nazareth. Meno noti e più frequenti quelli in cui amici nemici parenti si indicano reciprocamente la strada. Nonché degli altrettanti che dopo aver captato il mondo per il breve luminoso di un momento, dimenticano ciò che hanno appreso. Molti di più invece coloro che non hanno mai visto, mai vedranno, sono ostili all’idea medesima di vedere.

L’umanità procede lungo stretti sentieri ai lati dei quali insiste l’abisso. Fortuna sua non guarda, non ascolta, non ha sensi che per il suo illieto procedere e la storia e l’uomo e il mondo, seppure guidati dal solo caso, possono continuare.

Nasciamo ricchi di almeno due doni. La vita e la certezza della Fine. I romanzi delle donne e degli uomini così possono essere. Ignoriamo chi sia a scriverli. Se l’uomo stesso, che scrive di sé vita, morte e miracoli; oppure la mano di un ignoto altissimo estensore, l’artista celeste che ha voluto l’umanità per poterla raccontare, poter piangere con essa o riderne; può persino essere il frutto di un demone, smanioso di seminare sofferenza, beffe e derisione. Gli inciampi inauditi, i colpi di scena, crolli di grandi imperi, dopo le tante atrocità commessi per fondarli, ne sarebbero la prova.

Ma questa mezze luci che si accendono a intermittenza, appaiono e scompaiono al seguito dei destini dell’umanità, suggeriscono di ben pensare. Nonostante le tante nefandezze, all’uomo è dato sperare. Sarà salvato. C’è un giusto a Ninive.

Profeta rassegnati: non bastano il vizio, l’omicidio, il furto, la menzogna, l’egoismo, il tradimento ad aprire le porte dell’inferno. L’umanità attraverserà il deserto e, prima di scomparire, vedrà le colline ridenti della Terra Promessa. Sia lode a colui che non ha viso, non ha forma, non ha intelletto, ma possiede ogni viso, tutte le forme ed è pura luce, solo volontà e intelligenza. Satana sotto i nostri piedi, non gli basterà Lucifero per trionfare.

Fra i due doni se ne interpone un terzo che non è propriamente tale e neppure sottrazione. Ci sono le tante storie, le questioni infiniti dei crediti e debiti con i quali da qualche estranea parte vengono compilate inaudite inestricabili partite doppie che sono alla base dello spaziotempo e ne sono forse lo scopo. Un dono la cui intima natura risulta inconosciuta. È forse mera possibilità, empito stocastico? È processo in atto? O, sarebbe paradossale, misura dell’individuale saggezza? Un dono che i più considereranno con orrore, il dono della pazzia. Ovvero, il limite di cui si dice abbia sofferto (?) el Segnor Alonso Chisciano, al secolo l’Hidalgo Don Quixote de la Mancha alias di Miguel de Cervantes Saavedra. Secondo cui noi tutti saremmo afflitti da questo splendido annebbiamento dei sensi e dell’intelligenza, la vita il terreno eletto su cui esercitarlo fino alla nausea. Fino alla stanchezza e alla redenzione. La falsa redenzione del ritorno al senso comune.

Questo Cervantes (ho qualche dubbio ch’egli sposasse fino in fondo la tesi attribuita al libro).

Poiché errore più cospicuo del tirare in ballo Quixote nel proposito della pazzia e della saviezza, non potrebbe esservi. Perché gli uomini possono pure manifestare follia, Quixote no. Quixote nasce e muore savio (povero Alonso!), costretto nella condizione disagiata che sopportiamo e neanche ce ne rendiamo bene conto. Per quel poco di saviezza che gli è toccato gestire, non accetta il destino comune che consiste nell’impazzire per caso, quando capita. Quixote si guida alla pazzia. Cerca vuole, ordina, predispone la pazzia. Si impone alla pazzia. Non c’è modo di sottrarsi alla tirannica volontà sua di perdere il lume della ragione. Impazzisce per fare da specchio e mostrare agli uomini la follia insita nei loro atti, nella pazzia che appare e scompare anche quando si è nella normalità dei sentimenti. Un intento didattico che si sovrappone a quel maligno malizioso che usano gli dèi, più contro loro stessi che contro di noi; i quali ridono, come noi ridiamo, del loro stesso ridicolo, nel quale si riconoscono e nel quale ci riconosciamo. Senza volerlo ammettere, con paurosa incapacità di portarlo alla coscienza cosciente.

Chisciotte/Sancho Panza ride di sé, dunque? Unico uomo, cioè unico vero eroe, ad affrontare la temibile emergenza del ridicolo. Non se ne fa però beffe. È un grido di dolore il suo, non il ghigno di un demone. Sa che gli uomini sono esseri incompleti, che a loro è dato di sbagliare. Di cadere e rompersi il collo. Per poi ancora cadere e rompersi di nuovo il collo. Ha la piena facoltà di violare le leggi con le quali il creatore ha cercato di instradarlo sulle vie della felicità ed egli invece ha solo vicoli ciechi; dando in questo modo luogo al paradosso che la volontà della creatura ha agio su quella del Creatore. Con il libero arbitrio la volontà dell’uomo è posta prima di quella di Dio. Ché se anche dico Sia Fatta La Tua Volontà non ho detto nulla. Non almeno finché le parole esprimono la consapevolezza (nella quale potrebbero infine precipitate) che quel che conta è che sia io a Fare La Sua Volontà. Possiamo affermare che la faranno, un giorno, collettivamente tutti i lavoratori? Lo faranno. Come Gesù. Per suicidio voluto, programmato. Faranno la volontà di Dio costruendone la Città e scompariranno. Scomparire in quanto lavoratori, per lasciare spazio alle persone.

Per conseguire il suo scopo Chisciotte riempie il proprio intelletto di astrazioni, infinite fantasie, tipo Tirant lo Blanch, Garci Rodríguez de Montalvo, Pedro López de Ayala, Joanot Martorell e Pedro Ferrus. Allì Allì Eureka navigando nell’esotico, nel bello e nel facile, tipo fantascienza. Lo stregone Arcalaus, Amadís de Gaula, la protezione dalla maga Urganda e Rolando e Artù e – mio Dio – la Tavola Rotonda; mentre sullo sfondo veglia il valorosissimo cavalliere Palmerino d’Oliva.

E, maledetto lui, Chisciotte mio, continua a rimpinzarsi di eroismi e grandi imprese, Dulcinee e Morgane finché ne trova; finché lo spazio tra realtà e realtà oggettiva scompare, come è in procinto di scomparire oggi, bastando quelle illustri valorose e valorosi a sostituire tutto il bene e la bellezza contenuto nei giorni. Un bene più grande s’intravede. Le grandi imprese, l’esplorazione delle terre, la ricerca della fratellanza. Tutto ciò che non è e potrebbe essere; che Chisciotte – uomo che racchiude tutti gli uomini – vuole, fortissimamente vuole. Di conseguenza si trova ad agire, senza apprezzabile facoltà di discernimento, nell’incoerenza coerente dello spazio psichico definito propriamente e con giustezza follia; ad agire nel ciò che non esiste presupponendolo esistente. La speciale follia di Quixote: la pretesa di imporre la propria visione del mondo (ahilui!) al posto di comando.

Non rimprovero nessuno. Impossibile maneggiare Chisciotte senza vederselo sfuggire dalle mani. Noi qui che scriviamo e leggiamo, dichiarando la nostra parzialità senza mezzi termini, noi stessi (marco la differenza tra noi e lui) in un certo qual modo, per quanto comprensivi, non arriviamo a comprenderlo. Lo diminuiamo. Lo diminuiamo nel momento in cui lasciamo le sue grandi imprese preda di un nome (la follia) che ha il demerito di non cogliere, anzi nasconde, le possibilità insite in essa: la libertà, la consolazione, l’alternativa, l’oltre l’orizzonte. Il progresso umano. Paradosso dei paradossi, siamo qui a sorridere alle spalle del grande castigliano tutti noi sprofondati nella demenza dell’Euro Dollaro Yuan; il quale, si sa, imprigiona ogni ragione e sragione ed origine e fine del favoleggiare umano.

Tanto di Don Chisciotte è stato detto. Non pretendo di aggiungere altro. Non mi sono sufficienti le lettere, né l’ambizione. La pietà sì, la pietà può muovermi. Non però la stessa pietà vostra, di voi dileggiatori dei sogni e degli uomini che curano instancabili l’orticello dei sogni. Una pietà che chiude fra parentesi la crudeltà inaudita della derisione, esercitata con tanta leggerezza sui dolori e lacerazioni interiori che ben pochi hanno provato. Non permetterò a me stesso di prendere in esame, per sanzionare con il marchio della futilità, le tante fatiche, le delusioni, le afflizioni, la sostanziale umana impotenza. O praticherò la finta pietà occorrente per dichiarare la sua vita un inutile, incomprensibile esercizio di stile; per compiangerlo della e nella sua pazzia, nelle disavventure dentro le quali si trascina. Pongo un solo argomento all’accettazione, dopo la superbia del rifiuto. Il confronto fra l’essere concreto e reale del quotidiano, caratterizzato da piattume e bruttezza (al quale tutti ci adattiamo e Chisciotte per un breve momento no); rispetto allo splendore dell’ideale che lo spinge innanzi, alla generosità dell’intento, all’altruismo e alla dolcezza folle dei suoi amori. Alla aspirazione alla nobiltà e all’infinito. Sì, questo lo voglio. Beato a chi sa impazzire insieme a te, Alonso, scontando il peso delle medesime disavventure. Il dolore della carne è nulla se paragonato a quello dell’anima.

A costo di apparire pazzo quanto e più di lui, dunque, non piangerò e compiangerò o criticherò, o storcerò la bocca, finché resterà preda della pazzia nella quale si è saggiamente avvoltolato. Dentro cui è salvo. Da lì, dall’alto della follia vede e intravede, cura con il silenzio i clamori dell’animo dilaniato, del corpo ferito, della dignità oltraggiata. Può continuare. La forza dell’illusione lo porta avanti. Può usare le masserizie delle illusioni per asciugare le lacrime: le poche sul volto, il fiume carsico interno che non cessa mai di scorrere.

La pietà la riservo per il dopo di quando si spengono i lumicini delle speranze. Per quando la stanchezza del corpo non gli permetterà di continuare a nutrire sogni, vane aspirazioni, smanie, immani propositi, volontà di giustizia, riparazione di torti, bontà e abnegazione; nel momento in cui la realtà – dura roccia sopra carne e sangue – lo costringerà alla resa. E vedrà quanto sia stato vano l’affannarsi e l’agire, e persino quanto questo agire sia stato in effetti inerzia, spietata persecuzione della vita, un andare insensato incontro alla morte.

Un bilancio di fallimento e stanchezza, il suo. Solo con le miserie della vecchiezza, senza neppure la consolazione degli affanni, dell’inseguimento delle chimere, l’amore irrisolto e restato come ibernato, rimandato forse a una seconda, o terza vita. Allora sì che potrò compiangerlo, sentendomi giusto nel farlo. Allora sì, anch’io d’accordo, accetterò di giudicarlo, penando con lui, dicendolo pazzo. In quella chiusa infelice e immeritata dell’esistenza.

A cavallo di Ronzinante, cioè dentro le visioni e incubi dell’intelletto, guidato dal cuore, per sé stesso era qualcuno. Quel che intendeva essere. Sceso da Ronzinante, sciolto dagli obblighi della mente, costretto nella dimensione ridotta e finitesima delle regole e del regolare, può solo essere nessuno.

Non auspico neppure al peggiore nemico una medesima fine.

LE IMMAGINI SONO DI JACEK YERKA

… ma qui in “bottega” non abbiamo saputo resistere e abbiamo aggiunto Pablo Picasso (per allettare chi passa di qui con occhio arzillo?)

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

3 commenti

  • Ardimento, audace virtuosismo dell’intelletto, sfida della ragione, spiraleggiante giro di mulino al vento. Una riflessione si fa racconto e sogno, la trama è la vita, tra il suo inizio e la sua fine, il senso è un miraggio, lo stupore un’avventura. Tra bene e male la dura roccia della crudeltà, che ferisce, non perdona, getta tra la polvere l’illusione, ma non vince del tutto. Alla fantasia resta sempre uno spiraglio, la follia dell’infinito, la follia della poesia di un racconto… Un po’ sgualcito, ma molto bello, come questo…

  • Grazie dell’inaspettato commento, graditissimo. Capita raramente riceverne di tale livello. Che non si sa se più è il gioco o l’approvazione.
    Ma,
    Diego Rossi,
    chi era costui?

    • Di nulla, mi presento, l’originale è un cittadino medio, preferito dalle statistiche, comunissimo signor Rossi. Come nom de plume utilizza un certo Mr. Onion… Ma poco importa la penna, sempre dovrebbe spiccare la storia, si spera. Grazie di questo intenso brano. Buon tutto.

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