La posta in gioco

di Alexik

You don’t need a weatherman to know which way the wind blows”. (Bob Dylan, Subterranean Homesick Blues.)

Sabato prossimo migliaia di persone marceranno contro le Grandi Opere Inutili e Imposte e per il diritto al clima.
Scenderanno in strada a Parigi come a TorinoPadovaMelendugnoVenosa e Niscemi.
L’appuntamento dell’otto dicembre, nato in Valsusa come anniversario della liberazione di Venaus e poi assunto come data simbolo dei movimenti contro la devastazione dei territori, quest’anno si interseca con le mobilitazioni internazionali per la giustizia climatica, in contemporanea alla conferenza mondiale sul clima di Katowice.

La posta in gioco è alta: la difesa degli ecosistemi e degli equilibri idrogeologici della terra,  la difesa delle condizioni di vita di chi la abita, la difesa delle risorse pubbliche aggredite dalla speculazione privata.
Interessi  generali della società che i movimenti da sempre rappresentano, a dispetto di chi li accusa di nimbyismo.
Ma non si tratta solo di questo.
La drammaticità dell’emergenza climatica ha imposto prepotentemente un cambio di passo, un innalzamento degli obiettivi e delle parole d’ordine, perché è l’intero modello di sviluppo – di cui la logica delle Grandi Opere è un’ espressione – che sta portando il Pianeta al collasso.
O meglio: ciò che sta collassando sono le condizioni necessarie per la sopravvivenza di decine di migliaia di specie viventi, compresa quella umana.
Il Pianeta in realtà può continuare tranquillamente senza di noi, mentre la vita sulla Terra muterà le sue forme e abitudini, come già ha cominciato a fare1.

Che il tempo a nostra disposizione stia finendo ce lo ripetono, ormai da anni, centinaia di scienziati da tutto il mondo, e non hanno certo l’aspetto di millenaristi medievali.
Ce lo ripetono con frequenza crescente i venti che sfondano le nostre finestre, i fiumi di fango che invadono strade e case travolgendo cose e persone.
Altrove, lontano dai nostri occhi e dai nostri teleschermi, succede anche di peggio.
In Africa, nel 2017, il disastro climatico ha trascinato 39 milioni di persone di 23 paesi nell’insicurezza alimentare disseccando fonti d’acqua, pascoli e colture2.
In questo modo, affogando o crepando di fame, parte dell’umanità celebra l’innalzamento di 1°C della temperatura della Terra rispetto all’epoca preindustriale.

Meno di due mesi fa 224 scienziati, coautori dell’ultimo Rapporto dell’Intergovernmental Panel On Climate  Change3, ci hanno intimato di non superare la soglia di 1,5°C.
Non per porre fine, ma solo per limitare l’innalzamento del livello dei mari, l’acidificazione e l’ipossia degli oceani, la crescita dei rischi per la salute, sicurezza alimentare, accesso all’acqua e ai mezzi di sussistenza per milioni di persone.

Alcuni loro colleghi ci avvertono che, anche restando al di sotto dei limiti fissati dall’Accordo di Parigi, è probabile l’avvio meccanismi irreversibili, un effetto domino impossibile da contenere4, in grado di riscaldare il Pianeta fino a 4- 5°C in più rispetto al periodo preindustriale.
Ci parlano della morte delle foreste, trasformate in steppe e savane.
Ci parlano del disgelo del permafrost, il ghiaccio perenne nei suoli delle regioni artiche, sotto al quale risiede un terzo del carbonio della Terra, immensi strati di sostanza organica accumulati da millenni.
Il disgelo l’offre in pasto ai batteri dei suoli, che la decompongono restituendola all’atmosfera sotto forma di Coe metano.
Sotto il Mar Glaciale Artico il permafrost racchiude centinaia di milioni di tonnellate di metano che, liberate dal calore, stanno tornando in superficie in quantità impressionanti5.
E  il metano genera un effetto serra 25 volte maggiore dell’anidride carbonica.

Devastanti le prospettive per gli esseri viventi.
Su 80.000 specie vegetali e animali all’interno di 35 “Zone Prioritarie” per la biodiversità, si prevede per il 2080 la scomparsa del 19% delle specie qualora l’innalzamento della temperatura si mantenga entro i 2°C rispetto al periodo preindustriale (cioè i limiti dell’Accordo di Parigi).
Nel caso di un innalzamento di 4,5°C l’estinzione riguarderebbe quasi il 50% in media delle specie, con picchi del 89% , soprattutto per chi, come gli anfibi, non sarà in grado di emigrare verso le aree ancora vivibili.6.

Non c’è bisogno di particolari studi per capire che, in questo contesto, agli umani il futuro riserva migrazioni epocali – di cui quelle d’oggi sono soltanto un assaggio – e conflitti crescenti. Mutuando le parole da Guido Viale, “un mondo pieno di guerre e conflitti per spartirsi le risorse residue7

Quanto siamo lontani dal punto di non ritorno ?
Possiamo discutere se ci vorrà qualche decennio in più o in meno, ma il percorso è quello descritto.
La temperatura terreste si sta riscaldando ad un ritmo di 0,17°C ogni dieci anni8, ed il livello dei gas serra in atmosfera non è mai stato così alto.
Le concentrazioni di gas climalteranti hanno raggiunto nel 2017 il loro massimo storico dai livelli preindustriali:  405.5 parti per milione per la CO2, 1859 ppm per il metano, 329.9 ppm per l’ ossido di azoto. Valori che rappresentano rispettivamente aumenti delle concentrazioni del 146%, 257% e 122%  rispetto a quelli  stimati nel 17509.

Davanti all’incombere di un’apocalisse, ci si potrebbe aspettare che anche le classi dirigenti più retrive corrano ai ripari con azioni di contrasto.
Così non è.
Lo vediamo ogni giorno nei territori, dove trivellazioni, fracking, costruzione di oleodotti e gasdotti, vengono considerate “opere strategiche”, imposte dagli Stati e difese manu militari.
Indifferente all’Accordo di Parigi ed agli allarmi lanciati dagli scienziati dell’IPCC, l’economia mondiale va da un’altra parte.
Al contrario che per i comuni esseri umani e per gli altri esseri viventi del Pianeta, la catastrofe è colta dal Capitale come un’opportunità, come dimostra la guerra silenziosa già da tempo in atto per accaparrarsi le risorse minerarie dell’Artide in disgelo10, o l’apertura di nuove rotte commerciali rese possibili dal graduale ritiro dei ghiacci11.

Quanto all’abbandono dei combustibili fossili, è interessante in proposito l’ultimo rapporto annuale dell’OPEC12.
Si tratta ovviamente di un documento di parte, redatto da chi i combustibili fossili è interessato a venderli e quotarli, con previsioni comunque da dimostrare. Ma sulla base di previsioni come queste si basano gli investimenti, le strategie delle multinazionali e le politiche degli Stati.
Il rapporto prevede, fra il 2015 e il 2040, un aumento della intera domanda primaria di energia di 96 milioni di barili di petrolio equivalenti  per giorno (mboe/d),  trainato soprattutto da India e Cina. Prevede che la domanda si rivolga in primo luogo al gas naturale e – nonostante l’aumento del peso percentuale delle energie rinnovabili – si aspetta un’ulteriore crescita in termini assoluti dell’estrazione e del consumo di petrolio e carbone.
Non vi è dunque all’orizzonte nessuna reale intenzione di invertire la tendenza e di ridurre drasticamente le emissioni climalteranti.

Il Rapporto OPEC  riporta i dati ONU sulla crescita demografica mondiale –  da 7,3 miliardi di persone sul pianeta del 2015 a 9,2 miliardi nel 2040, che nasceranno principalmente nei paesi in via di sviluppo.
Quasi due miliardi di persone in più con i relativi bisogni da trasformare in merce: è questo il contesto previsto per l’espansione, oltre che dell’estrattivismo energetico,  anche di quello minerario, agroindustriale e delle infrastrutture, sul quale oggi si misurano in termini di concorrenza spietata non solo i paesi dell’imperialismo classico, ma anche varie potenze su scala regionale (o aspiranti tali), e soprattutto la Cina, con il suo immenso potenziale di spinta verso la costruzione della “nuova via della seta”.
Su questa strada, che sta portando l’umanità in un vicolo cieco, si sono avviati tutti, al di là dell’ordinamento politico e dell’orientamento economico: democrazie e dittature, neoliberisti incalliti e socialisti di mercato.

Grava sui movimenti l’onere di fermare tutto questo. (Continua)

alexik

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