La povertà di quelli che lavorano

Per chi compila le statistiche, il lavoro povero non è automaticamente sinonimo di vita in povertà,  ma in Italia più di un occupato ogni dieci vive senza un reddito dignitoso. Ora i working poors abitano anche fra noi. I loro tratti distintivi sono paghe basse, discontinuità, scarse ore di lavoro e, a seconda che si prenda in considerazione un solo criterio o la combinazione di più elementi, si ottengono risultati diversi sul numero dei working poors di casa nostra.

di Francesco Gesualdi (*)

La nostra Costituzione l’ha posto a fondamento della Repubblica. Papa Francesco l’ha inserito fra i tre diritti cardinali assieme alla terra e alla casa. Stiamo parlando del lavoro, il bene che tutti invocano come spartiacque fra assistenza e autonomia, fra carità e autosufficienza. In una parola fra umiliazione e dignità. Eppure un numero crescente di persone sta sperimentando che lavoro non fa sempre rima con decenza. E’ notizia di questi giorni che in Cina sta tornando il lavoro forzato nei campi di detenzione in cui sono rinchiusi gli oppositori al regime, in particolare gli appartenenti a minoranze etniche.

Il 17 dicembre scorso il Financial Times ha raccontato di lavoro forzato in fabbriche di scarpe allestite nei campi di rieducazione, i famosi laojiao, situati nella regione dello Xinjiang. E seppur formalmente impiegati in lavoro liberamente scelto, non se la passano certo meglio i lavoratori indiani che sguazzano a piedi nudi fra i liquami tossici delle  concerie o le operaie bengalesi che a malapena guadagnano due dollari al giorno dopo aver passato dieci ore alla macchina da cucire. Secondo i calcoli dell’Organizzazione Mondiale del Lavoro i lavoratori vulnerabili, ossia precari, malpagati e in situazioni a rischio, nel mondo sono quasi un miliardo e mezzo, il 42% di tutti gli occupati. La metà di loro sono definiti working poors, lavoratori poveri, perché con compensi al di sotto dei tre dollari al giorno, la soglia  limite della povertà.

La novità è che ora i working poors abitano anche fra noi. I loro tratti distintivi sono paghe basse, discontinuità, scarse ore di lavoro e a seconda che si prenda in considerazione un solo criterio o la combinazione di più elementi, si ottengono risultati diversi sul numero dei working poors di casa nostra. Prendendo a riferimento la sola  paga oraria, l’Istat preferisce parlare di sperequazione retributiva piuttosto che di povertà. Posta la mediana nazionale a 11,21 euro l’ora, definisce a bassa paga chiunque riceva meno di 7,47 euro l’ora, che corrispondono a due terzi della mediana nazionale. Il CNEL stima che i lavoratori a bassa paga siano oltre tre milioni, il 17,9% di tutti i lavoratori dipendenti, principalmente lavoratori domestici, dell’agricoltura, delle costruzioni.

Ma anche della piccola industria considerato che in settori come l’abbigliamento si applicano contratti collettivi di comodo che per le categorie più basse prevedono salari orari al di sotto dei 7 euro. Un caso è rappresentato dal contratto 2015-2018 firmato fra Fedimprese e Snapel per le aziende façonUn settore a prevalente presenza femminile che conferma come l’ingiustizia retributiva colpisca soprattutto le donne. L’Istat certifica che benché più istruite, le donne ricevono paghe mediamente più basse del 23%  rispetto agli uomini. Il risultato è che nel 2016  il 59% di tutte le donne impiegate nel settore privato ha percepito una retribuzione oraria inferiore alla mediana nazionale.

Se moltiplichiamo la paga oraria per le ore lavorate, otteniamo i compensi mensili e annuali che ci danno un’idea più compiuta delle disponibilità monetarie dei lavoratori e quindi della loro condizione economica. Ed è proprio il reddito annuale il parametro utilizzato per stabilire chi sono i lavoratori poveri, ricorrendo ancora una volta al confronto, piuttosto che ai concetti assoluti. Il valore preso a riferimento è il reddito familiare mediano che in Italia corrisponde a 25.000 euro. Per convenzione, si definisce lavoratore povero chiunque guadagni meno del 60% di tale importo, ossia meno di 15.000 euro l’anno. Quanti siano con esattezza è difficile dirlo. Secondo il CNEL sono 5 milioni e 247mila, il 31% di tutti gli occupati. Ma dai dati Istat relativi alle dichiarazioni dei redditi se ne ricava che sono quasi 11 milioni, il 40% di tutti i percettori di reddito da lavoro.

E se in valori assoluti predominano i percettori di reddito da lavoro dipendente, in termini relativi la categoria a più elevata incidenza di lavoro povero è quella dei lavoratori autonomi. Nel 2016 i lavoratori dipendenti che hanno dichiarato redditi inferiori a 15.000 euro sono stati il 36%, 7 milioni e 437mila su 20 milioni e 660 mila,  mentre i lavoratori autonomi sono stati il 57%, 3milioni e 420mila su 6 milioni. Il che indica che l’autosfruttamento è l’ultima frontiera del capitalismo e che il lavoro povero miete vittime soprattutto fra i giovani che spesso non hanno altra possibilità di impiego se non l’apertura di una partita IVA, la formula per fare credere che si è  imprenditori di sé stessi, mentre si è lavoratori subordinati esposti a grave sfruttamento. Ne è una prova la gig economy, quell’insieme di lavoretti precari e malpagati (consegne a domicilio, correzione di testi, servizio di baby sitter) che rappresentano la sola sponda occupazionale di tantissimi giovani.

Non sorprenda, dunque, se l’Istituto di ricerca Ref stima che il 25% di tutti i lavoratori fra i 16 e i 29 anni è a rischio di lavoro povero. Peggio di loro fanno solo gli stranieri con un tasso di rischio del 35%. Una categoria particolarmente esposta è quella dei braccianti agricoli extracomunitari con  paghe  tirate giù da un basso numero di giornate lavorate, dall’inquadramento in qualifiche a bassa retribuzione o dalla combinazione di entrambi. Nel 2017 l’Inps ha accertato che i loro compensi sono stati mediamente più bassi del 35% rispetto al complesso dei lavoratori del settore:13.927 euro invece di 21.509 euro.

Per quanto possa sembrare strano, per gli statistici il lavoro povero non è automaticamente sinonimo di vita povera. A decretarne la separazione o la sovrapposizione sono vari altri fattori, primo fra tutti le caratteristiche familiari. Se guadagni poco, ma vivi assieme ad altri componenti che portano a casa uno stipendio, alla fine puoi anche sfangarla decorosamente. Ma se la tua magra busta paga è l’unica fonte di reddito di un nucleo familiare che magari conta quattro persone, allora la vita si fa davvero grama. Così è stata creata la categoria degli in work poverty,  persone che pur lavorando, sono costrette, esse stesse e i propri familiari, a condurre una vita povera. In Italia sono il 10,5% di tutti gli occupati, oltre due milioni di famiglie che non vedono applicato l’articolo 36 della Costituzione:”Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.”.

Se esaminiamo meglio la situazione notiamo che la categoria di lavoratori maggiormente a rischio di vita povera è quella con assunzioni a tempo determinato e part-time a dimostrare che la loro incapacità di guadagnare abbastanza per mantenere la propria famiglia è il risultato al tempo stesso di paghe basse e basse ore di lavoro. E se rimane difficile intervenire per obbligare le aziende a garantire a tutti un orario pieno, di sicuro si può intervenire per fissare un salario orario minimo dignitoso, ossia in linea con la mediana nazionale. In un tempo in cui, complice la globalizzazione, le guerre commerciali e le crisi economiche, la disoccupazione cresce e il potere dei lavoratori si riduce, è compito della legge intervenire per ristabilire salari che rispondano al dettato costituzionale.

E’ il grande tema del salario vivibile che un tempo sembrava riguardare solo i paesi di nuova industrializzazione e che ora invece coinvolge anche noi tradizionalmente ritenuti paesi ricchi. Un tema che inevitabilmente si accompagna con un’altra grande questione ossia la protezione sociale garantita dalla comunità nazionale, intesa non solo come intervento pubblico di integrazione al reddito, ma soprattutto come fornitura di servizi pubblici gratuiti in ambito sanitario, scolastico, sociale. In altri tempi il sindacato aveva ben chiaro che il salario si difende anche tramite la disponibilità di edilizia popolare e un’ampia rete di servizi gratuiti. Per cui non si limitava a condurre le sue lotte solo nei confronti delle imprese per  ottenere aumenti salari, ma apriva vertenze anche nei confronti delle istanze politiche per rivendicare una maggiore spesa sociale, sanitaria, scolastica. Se non il sindacato, chi altri può scendere a fianco dei lavoratori in povertà?

(*) articolo tratto da Comune-Info

VALE SEGNALARE ANCHE QUESTO ARTICOLO DI ALDO BONOMI: https://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2019-02-05/se-poverta-arriva-anche-lombardia-170509.shtml?uuid=AFIDS0F&fromSearch

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *