La rivoluzione femminista

di Barbara Bonomi Romagnoli e Marina Turi (*)

L’invito che ci ha portato all’università estiva di Attac Italia indicava anche una via di riflessione: «ci interesserebbe un intervento che non ci racconti (solo) il movimento delle donne, che non faccia (solo) la storia di Non una di Meno, ma che invece ci aiuti a capire perché la società che vogliamo o è femminista o non è». Un suggerimento certamente elegante ma che tradisce un atteggiamento molto comune anche negli ambienti progressisti, ovvero gli uomini hanno sempre bisogno di spiegarci le cose, di dirci cosa è meglio fare e come farlo, con l’atteggiamento, nei nostri confronti, di chi elargisce una libertà che ci sembra spesso condizionata.

E allora partiamo da qui, per dire quale è la rivoluzione che vogliamo. Qualunque essa sia non abbiamo bisogno di essere guidate, tutelate, protette, santificate o demonizzate. Come donne non produciamo/riproduciamo solo figlie e figli. Abbiamo anche noi prodotto un pensiero autonomo e antagonista al pensiero dominante patriarcale e neoliberista, con idee, saperi, pratiche che da decenni prefigurano un mondo diverso per tuttx. Per attuarlo pensiamo sia necessario partire dal modo in cui comunichiamo, sostituendo un lessico sessuato al posto di quello sessista, utilizzato spesso nella nostra lingua che permette invece un uso non neutro e onnicomprensivo del maschile. Sul plurale dei generi e dei sessi da riprodurre quando comunichiamo, si stanno sperimentando varie possibilità, tenendo presente la differenza tra lingua parlata e scritta. Dalla @ – come scelto da Nudm – alla ‘u’, che è sicuramente una desinenza inclusiva e più agevole da pronunciare, oppure l’ * – che deriva dall’impiego dell’asterisco come carattere jolly dei sistemi informatizzati di ricerca; fino alla x che noi utilizziamo, come già avviene in molti testi, collegandoci alla scelta di quei governi che hanno deliberato la possibilità di dichiarare un sesso/genere “x” per eliminare il binarismo maschio/femmina da documenti di identità e burocratici.

Operaia, casalinga, estetista, cameriera, segretaria, ogni giorno usiamo queste  parole, ma è meno consueto sentire pronunciare parole come avvocata, architetta, ministra o assessora e segretaria generale. La declinazione al femminile di alcune professioni da sempre pensate come prevalentemente da maschi ‘suona male’, ‘non serve’, per alcune donne addirittura è più ‘prestigioso’ mantenerle orgogliosamente al maschile.  Ma per avere diritto di esistere e vedere riconosciuta la piena cittadinanza abbiamo bisogno di essere nominate correttamente, solo così modificheremo la cultura che alimenta quotidianamente atteggiamenti discriminatori, sessisti e razzisti.

E ciò vale anche per i corpi trans, che ancora faticano ad essere pienamente accolti anche in alcuni femminismi. Sì perché i femminismi non sono tutti uguali, e per questo ci piace sempre nominarli al plurale, restituendo la complessità e la ricchezza di movimenti che su alcune questioni hanno diverse posizioni, senza dubbio tutte legittime.

A noi piacciono i femminismi felici e appassionati, (auto)ironici e pungenti, includenti e visionari, capaci di produrre un progetto politico dentro la cornice del tempo che viviamo, a partire dall’assunto che il sessismo viene prima di ogni altro ‘ismo’, perché prima di avere a che fare con il capitalismo e il suo ordine sociale che ci inquina, ci sfrutta, ci aliena, ogni donna ha a che fare con il patriarcato, a ogni latitudine e status sociale, che distrugge le nostre vite, anzi ci costringe a vite che non sono le nostre. Un punto di vista che ricorda il valore oramai insostituibile dell’intersezionalità, ossia quell’insieme di fattori che intervengono – intrecciandosi – nella vita di chiunque (sesso, genere, classe, età, etnia, colore della pelle, professione, status sociale, disabilità, etc). Ma anche una pratica, oltre che una teoria, che è sorta dalla critica femminista di attiviste e teoriche nere, asiatiche e meticce che hanno evidenziato come i femminismi emancipazionisti dei primi del Novecento, ma un po’ anche degli anni Settanta, fossero caratterizzati dalla forte presenza di donne bianche, occidentali, delle classi medio alte, con bisogni ed esigenze molto diversi dalle femministe nere, operaie, sottoproletarie, migranti.

Un esempio su tutti, la redistribuzione del lavoro di cura, che in assenza di welfare o simili noi donne occidentali abbiamo appaltato a donne meno privilegiate che arrivano da altri paesi. Ma quello che le femministe sottolineano è che nel cromosoma X delle femmine non c’è implicita una propensione maggiore a caricare la lavatrice, a utilizzare l’aspirapolvere o il ferro da stiro, ad accudire mariti, amanti, figliolanza, persone anziane o disabili, animali domestici e piante in vaso, fino allo sfinimento o fino a che morte non ci separi. Esiste una cultura dominante che continua a ripetere e cerca di convincere che il mondo dell’affettività è femminile e che le attività di cura includono necessariamente una componente affettiva, prevedono una dimensione emozionale e relazionale, e le donne si ritrovano obbligate ad accettare lavori e situazioni che le portano e le mantengono nella diseguaglianza. Tuttx hanno il diritto sociale di essere accuditx trovandosi in una situazione di dipendenza, ma ricevere affetto non è un diritto. Continuare a pensare che le donne sono per definizione biologica quelle con un extra di affetto da elargire intorno a loro stesse, è un imbroglio.

Oggi che i partiti dell’estrema destra strumentalizzano la difesa dei diritti delle donne utilizzandoli sempre più spesso conto i diritti delle persone non occidentali, siamo dinanzi ad un bivio: o ci candidiamo alla ribellione o soccombiamo alla restaurazione.

Il sistema capitalistico che imperversa nella nostra società, che domina le nostre vite materiali, è un sistema sessista che sviluppa razzismo e classismo, che troppo spesso confina proprio le donne nella precarietà, sublima la famiglia come unica opportunità di sostegno, vincolando possibilità di indipendenza e di scelta.

Nella società femminista che vogliamo le politiche di sinistra per essere tali dovrebbero assumere questo punto di vista su diritti, sul lavoro produttivo, riproduttivo e di cura. Così come vorremmo nominare la parola femminista o femminismo senza avere come risultato immediato un sentimento di disagio, di inopportunità; e vorremmo che in un paese come il nostro dove oltre cento donne, ogni anno, vengono uccise da uomini, quasi sempre quelli che dicono di amarle, ci si rendesse conto che il costo sociale della violenza maschile sulle donne è equivalente al costo di una finanziaria.

Nessun ragionamento su capitalismo e dintorni, sul mondo che vogliamo e sulla società che dobbiamo costruire può permettersi di eludere questi nodi.

(*) Articolo tratto dal «Granello di Sabbia» numero 41 di settembre-ottobre 2019 intitolato “La società che vogliamo

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