“La sicurezza sul lavoro è un costo. Parte la nuova crociata di Sacconi”. Intervento di Clash City Workers

 

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Le morti e gli infortuni sul lavoro sono di nuovo in crescita, così come le malattie professionali. È scritto sul rapporto 2015 dell’Inail: più di 600.000 denunce di infortuni, più di 1200 quelle di morte (694 quelle accertate). Si tratta però di stime al ribasso, visto che non tengono conto né di lavoratori indipendenti (partite Iva, liberi professionisti…) né di lavoratori in nero che, va da sé, non sono assicurati Inail (e quindi non risultano nei loro conti) e sono particolarmente presenti nei due settori a più alto rischio di incidente e con la quota più alta di vittime mortali: agricoltura ed edilizia.

Un conteggio più veritiero lo fornisce l’Osservatorio Indipendente di Bologna, che si basa sulle notizie di incidenti mortali pubblicate sui giornali: l’anno scorso sono stati almeno 678 quelli sul luogo di lavoro (quest’anno sono già 405). Tenendo conto anche dei morti in itinere (vittime di incidenti mentre vanno o tornano dal lavoro), che per l’Inail sono il 55% del totale, si arriva ben oltre i 1200.
Cifre che hanno ricominciato a salire negli ultimi anni, nonostante l’effetto “positivo” della crisi e dell’aumento della disoccupazione. Calerebbero certamente se fosse pienamente applicato il Testo unico sulla sicurezza sul lavoro entrato in vigore nel 2008 (la legge 81/2008), un testo che ora il governo vuole riformare, o piuttosto, abbattere.

Le intenzioni sono chiarite subito nell’introduzione al testo, presentato dai suoi relatori Sacconi e Fuksia (ex M5S, ora anch’ella parte della maggioranza) alla commissione del Senato: la legge 81/2008 è caratterizzata da “un’eccessiva complessità, legislativa e di attuazione” ben “esemplificata dal numero degli articoli”. Non solo, la legislazione sulla sicurezza sarebbe stata disegnata sul modello di funzionamento della grande fabbrica, mentre oggi “la diffusione delle nuove tecnologie digitali” trasforma il modo di produrre “nel senso di una maggiore autonomia e responsabilità del prestatore d’opera”.

È la solita vecchia retorica che ha accompagnato le riforme del lavoro degli ultimi trent’anni: il mondo del lavoro non è più quello rigido della catena di montaggio, ai lavoratori è richiesta autonomia di decisione, intraprendenza, disponibilità al cambiamento. Un’affresco smentito dai fatti, come abbiamo cercato di riportare due anni fa nel nostro primo libro, e come testimoniato quotidianamente dalle storie riportate su questo sito che parlano di addetti alla pulizie, facchini, braccianti agricoli, operatori di cooperative sociali, operai metalmeccanici, insomma milioni di lavoratori per i quali la tecnologia (quando c’è) non ha certo rappresentato maggiore indipendenza dal datore di lavoro, semmai un’intensificazione dei ritmi, della pressione psicologica, delle prestazioni richieste, e quindi: un aumento dei rischi e delle malattie professionali (quasi 60.000 quelle denunciate nel 2015, la maggioranza per malattie osteoarticolari e muscolo scheletriche).

Il discorso dei relatori è fin troppo semplice: se un imprenditore ha dato ordine di predisporre tutti i sistemi di sicurezza e di prevenzione necessari, ed avviene un incidente, non ha nessuna responsabilità. La colpa è di eventuali preposti alla sicurezza o dell’operaio stesso. Ma un operaio pressato dai propri superiori, al quale vengono fatte svolgere mansioni che non gli competono (e quindi, per cui non ha avuto la formazione necessaria), a cui viene detto di non tener conto di normative considerate esagerate perché il tempo è denaro, è veramente responsabile delle sue azioni? Un operaio a cui viene detto “questa è la minestra, se non la vuoi dietro di te c’è la fila” è veramente responsabile di quanto gli accade? Finora no, la responsabilità era comunque del datore di lavoro, dev’essere sua cura – o di suoi agenti – approntare i sistemi di prevenzione, fornire i dispositivi di protezione, vigilare che vengano utilizzati, garantire la formazione in corsi certificati. Norme in tanti casi eluse, anche per la carenza dell’attività ispettiva: nel 2015 sono state solo 21.000 le aziende controllate dall’Inail, di queste l’87% registrava irregolarità, 61.000 i lavoratori non in regola, più di 6.500 i lavoratori totalmente in nero. Ma per i relatori il problema non è questo, ma ridurre le sanzioni per i padroni, e lo dicono chiaramente: oggi la sicurezza è “un accessorio burocratico detestato perché subito dal timore di sanzioni sproporzionate”.

Detestato anche perché negli allegati al testo le misure di sicurezza da prendere sono prescritte nei particolari, caso per caso. Una volta abrogati questi allegati, la prescrizione spetterà allo stesso “professionista” incaricato della certificazione: la valutazione di come eliminare i rischi non spetterà più al legislatore ma ad un privato pagato dall’impresa. Nel processo di “disboscamento” del testo unico (si passa da 306 articoli e 51 allegati a 22 articoli e 5 allegati), i cambiamenti principali sono:

– eliminazione della valutazione dei rischi e della definizione delle misure di prevenzione e protezione e sostituzione con una “certificazione” redatta da un professionista (tecnico della prevenzione e/o medico del lavoro) pagato dal datore di lavoro.

– deresponsabilizzazione del datore di lavoro in relazione a infortuni e a malattie professionali, se avrà dimostrato, tramite la “certificazione”, di avere adempiuto agli obblighi di legge.

– sostanziale eliminazione dell’obbligo di vigilanza a capo del datore di lavoro e trasferimento della responsabilità a dirigenti, preposti e lavoratori stessi.

– sgravi fiscali per le aziende “virtuose”, sempre sulla base della semplice “certificazione” del professionista.

– riduzione delle sanzioni, con l’introduzione, in caso di violazioni, di “disposizioni esecutive”. Le sanzioni ci saranno solo in caso di mancato rispetto di queste ultime.

Inoltre, come si legge dal commento alla proposta di legge scritto da Medicina Democratica, il nuovo testo è occasione per abbassare ulteriormente le tutele di lavoratori “formalmente” autonomi e saltuari: si arriva infatti a tutelare la “persona impiegata in modo non episodico per attività di lavoro”, un concetto totalmente differente da quello esistente in cui la tutela è “universale” qualunque sia la forma e la durata della prestazione lavorativa ed è legata principalmente ad un qualunque rapporto di subordinazione con un “datore di lavoro”.

Purtroppo le motivazioni di quest’ennesimo attacco alla condizione di chi lavora sono evidenti: la tutela della salute dei lavoratori è un costo da abbattere per le aziende, specialmente se le conseguenze si vedono a distanza di anni. Come spiega un tecnico della sicurezza in questo approfondimento su salute e sicurezza sul lavoro di Corrispondenze Operaie: “tutti gli obblighi a tutela dei lavoratori sono visti dall’azienda come un costo. Perché fare formazione ai lavoratori ha un costo, aggiornare le macchine secondo le nuove normative ha un costo” e sono spese che le aziende vogliono tagliare, perché non comportano un profitto. Questa riforma è appena stata presentata, parliamone con i colleghi sul posto di lavoro, organizziamoci per non farla passare e per esigere che le norme sulla sicurezza vigenti vengano rispettate, facciamo pressione sui sindacati perché non accettino compromessi al ribasso. Non accettiamo sconti sulla nostra salute!

da qui

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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