«La vita e la morte di Perzechella»: un omicidio…

…come metafora di un Paese. Recensione di Paolo Brini al romanzo di Giovanni Iozzoli

PaoloBr-Iozzoli

Che succede se un vecchio, anonimo omicidio, commesso nella Napoli insanguinata e frenetica degli anni 80, torna a galla, ai giorni nostri? Che succede se l’assassino, 23 anni dopo, è diventato uno stimato professionista in quel di Parma, senza che nessuno abbia mai sospettato del suo passato ? Che succede se due pensionati – i più improbabili e improvvisati investigatori – si mettono in testa di riaprire quel caso un quarto di secolo dopo, lanciandosi alla caccia di un assassino ignoto e di un testimone reticente, su e giù, da Sud a Nord, avanti e dietro, attraverso le trasformazioni di un’Italia declinante?

L’ultimo romanzo di Iozzoli («LA VITA E LA MORTE DI PERZECHELLA», Edizioni Artestampa) non è un giallo o un noir e non vuole essere una delle storie di camorra un po’ di maniera che trovano fortuna oggi. E’ piuttosto una riflessione sul tempo che passa, sul fatto che il suo trascorrere sembra travolgere e trasmutare tutto – uomini e cose – mentre in realtà la vita dei personaggi del libro pare segnata da un marchio immutabile (il Destino?) che. al di là dei cambiamenti esteriori, li condanna tutti a un esito finale di incompiutezza e fallimento. Niente è come sembra e ogni umano intento, nobile o criminale, pare destinato a un naufragio patetico. Così che lo stimato psichiatra parmigiano – l’artefice di un omicidio infame e vigliacco, faticosamente occultato nelle pieghe della sua biografia – dopo il crimine si ricostruisce con enormi fatiche una vita encomiabile, illudendosi, grazie alle sue sole forze, di aver “ciclopicamente” mutato il suo destino: si accorgerà di aver solo spostato avanti negli anni l’immancabile Nemesi, il suo smascheramento pubblico, perché «l’omicidio non va in prescrizione. Niente va mai in prescrizione». L’indagine che lo scoprirà diventa quasi il pretesto per squadernare davanti al lettore le vite sfiorite o paradossali di molti diversi personaggi – una specie di coro scombinato – che accompagna la caccia all’assassino; una “coralità” di narrazione che però non si perde mai, rimanendo sempre ancorata a un filo di continuità. Si parte da un cadavere e si tornerà a quel cadavere, perché quello non è solo il corpo di una vittima innocente (la giovane Perzechella , ingiustamente accusata, dal suo ambiente criminale, di voler diventare una collaboratrice di giustizia): è piuttosto il corpo d’Italia, il corpo della nostra cattiva coscienza, il corpo offeso e violato di un Paese declinante, inconcludente e un po’ ridicolo, persino nei suoi crimini. E se la Napoli degli anni 80, nel racconto, sembra conservare una sua vitalità disperata – magari anche sporca e criminale – l’Italia di oggi è narrata con lo sguardo disincantato di chi vede solo macerie e vecchiume davanti a sé.

Se nel libro precedente di Iozzoli («I BUTTASANGUE», 2015) la crisi irrompeva, con le sue devastanti conseguenze sociali e materiali, qui l’idea della Crisi diventa orizzonte acquisito e si mostra come un sigillo, il paradigma di un’epoca stanca: i protagonisti sono in genere personaggi non più giovani, piuttosto sconfitti dalla vita, involontariamente patetici anche nel dramma di una storia cruda, che racconta di uno stupro e di un omicidio.

Il vecchio mondo dei guappi napoletani, la crisi della psicanalisi, la disgregazione di territori e comunità, le fughe mistiche, le questure inquinate, le vecchie maschere della commedia italiana vagamente riverniciate: si incontra molta varia umanità da leggere e molti temi apparentemente scollegati, tenuti insieme delicatamente dall’intrecciarsi delle vite e delle storie dei protagonisti. Un libro che racconta una vicenda intensa, una storia densa e piacevole da leggere: ma anche un’amara riflessione sul presente.

Giovanni Iozzoli è al suo terzo romanzo dopo «I TERREMOTATI» (2010) e «I BUTTASANGUE» (2015).

 

 

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