Lampedusa e oltre, fra rabbia e speranza

Trovate qui di seguito tre documenti, assai diversi, ma che forse vanno letti e pensati insieme. Il primo è l’editoriale, «Un mare di guerra» (su «il manifesto» di oggi) scritto da Annamaria Rivera. Il secondo è un comunicato dell‘Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione ) che ripete – e urla – quello che si dovrebbe sapere ma ci viene taciuto. Infine un documento di speranza… anche se, per provocazione, parte con le parole più dure che ci siano: arriva dal nostro Sud offeso, da 150 anni massacrato (con le armi dello Stato e con le leggi che aiutano le organizzazioni criminali) eppure mai domato. Volendo chiudere con la poesia – serve anche quella, sempre – raccolgo il suggerimento di Maria Rosaria Baldin e vi rimando al suo blog (http://liberamigrante.blogspot.com/2011/04/piedi.htm) per legger lì un brano di Erri De Luca. Poco fa ho sentito in radio di una “polemica” perchè un deputato, credo Idv, ha portato un cartello con scritto «Maroni assassino»… Chiunque abbia firmato o approvato le più recenti leggi italiane contro i migranti – che classificano altri esseri umani come inferiori (e privi dei “nostri” diritti) o bestie da mandar via – è un razzista e aiuta gli assassini. Forse per i giudici “chi aiuta gli assassini” non è  un assassino ma secondo la mia coscienza lo è (db)

 

di Anna Maria Rivera

Ancora cadaveri di uomini, donne e bambini che vanno a ingigantire l’immenso sepolcro che è divenuto il Mare Nostrum, un tempo mare che affratellava  genti, costumi, culture, oggi confine blindato che separa e stermina, uccidendo quel che resta della nostra umanità. Le ultime duecentocinquanta vittime del Canale di Sicilia, eritrei e somali -che alcuni media tuttora, pur di fronte a una tale tragedia, osano chiamare “clandestini” o “extracomunitari”- non sono morte solo di proibizionismo, ma anche della nostra colpevole ingerenza “umanitaria” in Libia. Che ha preferito i bombardamenti ai corridoi davvero umanitari, che ha ignorato cinicamente il dovere di salvare anzitutto gli esseri umani e fra i primi i rifugiati, perseguitati e  intrappolati dalla guerra civile.

Lo sappiamo già ora: neppure queste vittime per eccellenza, annegate (per ritardi o imperizia altrui?) nel corso delle operazioni di soccorso della guardia costiera italiana, varranno a sollecitare l’empatia che fa scattare la molla della solidarietà collettiva e che induce a riflettere sulla follia delle guerre “umanitarie” che uccidono umani. E’ da molto tempo che il nostro infelice Paese non prova più il sentimento che giusto vent’anni fa spinse gli abitanti di Brindisi, città di neppure 90mila abitanti, a rifocillare,  soccorrere, ospitare nelle proprie case 27mila profughi albanesi.

Sotto i ponti son  passate acque assai torbide: la propaganda razzista e sicuritaria, il veleno leghista somministrato giorno dopo giorno in dosi sempre più elevate, una politica mediocre che compete in cattiveria verso gli “estranei” a fini elettorali, un’Europa unita che sa unirsi quasi solo quando si tratta di denaro e di difesa dei propri confini dall’irruzione dei barbari. Sicché neppure quest’ultima tragedia, neanche le immagini dei volti sofferenti e terrorizzati degli scampati e i racconti di chi fra loro ha perso in mare l’intera famiglia, neppure l’idea atroce dei bambini ingoiati dalle acque che avrebbero dovuto sospingerli verso la salvezza varranno a riflettere sulla follia collettiva di cui siamo preda. Plaudiamo, più o meno tardivamente, con più o meno entusiasmo, al vento di primavera  che travolge i regimi dispotici dell’altra sponda e accettiamo il dispotismo grossolano degli idraulici di governo: quelli  che parlano di esseri umani in cerca di fortuna o di salvezza nei termini di rubinetti da fermare e vasche da svuotare. Partecipiamo all’esercito dei “volenterosi” che vanno a pacificare la Libia con i bombardamenti e non ci preoccupiamo dei nostri infelici ex colonizzati, prima discriminati o schiavizzati, poi impastoiati fra  la guerra civile e l’intervento “umanitario”: ultimi del mondo, senza pace e senza patria, che non hanno dove andare e dove tornare anche grazie agli effetti nella lunga durata delle nostre politiche coloniali e neocoloniali.

Anche per i superstiti eritrei e somali e per gli altri di loro che riusciranno ad arrivare da noi, gli idraulici di governo faranno le vittime dell’Europa cinica e bara che non riesce a difenderli dallo “tsunami umano”? Oseranno, i “volenterosi” nostrani, subordinare il dovere di accogliere degnamente i rifugiati a qualche accordicchio, strappato in tal caso al prossimo (forse) governo di transizione libico?

Infine una considerazione basilare. Le rivolte che hanno rovesciato o sconvolto i regimi dittatoriali dell’altra sponda sono animate in molti casi dal desiderio di libertà e dalla pretesa di dignità: libertà e dignità significano per i giovani rivoltosi anche libertà di movimento e diritto di cercare altrove un destino più dignitoso,  senza mettere a rischio la propria vita.  Perciò i governi di transizione non potrebbero pretendere di rappresentare la rottura radicale con i vecchi regimi senza spezzarne i cardini portanti: fra questi, gli accordi bilaterali che fecero di essi i gendarmi feroci e prezzolati della Fortezza Europa. Insomma, una delle condizioni perché quelle in corso siano davvero rivoluzioni, capaci di conquistare a sé strati popolari, risiede nella volontà e possibilità di resistere ai ricatti europei e più in generale atlantici. Non è facile né scontato. Ma sarebbe meno arduo se chi, rifiutando di ricoprire il vecchio ruolo da cane da guardia dei confini altrui, avesse come alleati su questa sponda chi decide davvero che non ne può più di neocolonialismo, di guerre “umanitarie” e di frontiere blindate e per questo e altro è disposto a rivoltarsi contro idraulici e “volenterosi” di tutte le specie.

COMUNICATO STAMPA (7 aprile 2011) del direttivo ASGI

LE TRAGEDIE DEL MARE POSSONO E DEBBONO ESSERE EVITATE

La nuova tragedia del mare che ha visto la morte di oltre 300 persone non è una tragica casualità ma è diretta conseguenza della nefasta scelta di non prevedere l’apertura di un canale umanitario che permetta l’evacuazione delle migliaia di rifugiati da tempo bloccati in Libia e che oggi sono totalmente esposti ad ogni forma di violenza ed arbitrio.

Si tratta degli stessi rifugiati che, con flagrante violazione del diritto internazionale, l’Italia ha respinto nel 2009 e nel 2010, ovvero ne ha impedito la partenza dalla Libia, tramite accordi diretti e finanziati con gran dispendio di fondi pubblici con il dittatore Gheddafi, lo stesso nei cui confronti la comunità internazionale chiede oggi l’apertura di un procedimento di fronte alla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità.

E’ del tutto evidente, e ben noto a tutti i governi dell’Unione, che altre partenze disperate ci sono in queste ore e ci saranno prossimamente dalla Libia visto che i rifugiati non hanno al momento altro canale di salvezza che tentare di raggiungere con ogni mezzo, a costo della vita, le coste meridionali della UE.

Fingere di non vedere questo stato dei fatti, fingere che non ci siano migliaia di persone abbandonate sulle sponde della Libia, non è solo indifferenza ma complicità con chi lucra sulla vita di queste e complicità nella morte di chi viene inghiottito dal mare.

L’ASGI rinnova con forza la richiesta, già avanzata dall’inizio della crisi, di un immediato programma europeo per l’evacuazione e l’accoglienza dei rifugiati bloccati in Libia.

Non è più tempo di aspettare.

Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione

(0432.507115 -3470091756 -e-mail, info@asgi.it)

 

Il documento che segue è il prodotto della due giorni di iniziative che si è tenuta nella Piana di Gioia Tauro il 12 e 13 di marzo per parlare di immigrazione e agricoltura contadina.

È ora di dire basta. È ora che gli stranieri sappiano che non sono i benvenuti e se ne tornino a casa propria. È ora che ci riprendiamo la nostra terra.

Vengono qui e ci rubano tutto. Come se non bastassero i problemi che abbiamo già, dobbiamo sopportare gente che viene da fuori e mangia sulle nostre spalle. E lo stato che li aiuta pure, spendendo soldi per loro, mentre a noi chiudono ospedali e scuole.

Vengono accolti dai nostri governi, che prendono i loro soldi dandogli in cambio cose che appartengono a tutti noi: le nostre coste, i nostri terreni e persino l’acqua che scorre dai nostri rubinetti. Così loro possono decidere di farcela pagare quanto vogliono e se non saldiamo le bollette sono pronti a togliercela in qualunque momento.

Vengono qui coi loro barconi, i loro macchinoni, jet privati, elicotteri… attraversano i nostri territori col passo deciso di chi si sente padrone e vengono ossequiati da tutte le autorità. Comprano a basso costo i frutti delle nostre campagne e poi ce li rivendono a venti, trenta volte tanto dentro i centri commerciali che nel frattempo ci hanno costruito vicino casa. Altre volte comprano a quattro soldi direttamente i terreni, sradicano gli alberi e al loro posto ci mettono centrali o altri mostri, avvelenando l’aria e la terra anche a quelli che non gliel’hanno venduta.

Sono questi, non gli immigrati che vengono qui a lavorare, che vanno additati come stranieri e che stanno mettendo noi nella condizione di stranieri nella nostra terra.

Dalla Calabria alla Romania, dall’Europa nel Mediterraneo
organizzare la solidarietà, praticare l’utopia

Sono già trascorse due settimane da quando un gruppo di persone di varia provenienza visitava la piana di Gioia Tauro. Venivano dalla Francia, dalla Spagna, dalla Polonia, dalla Romania… dall’Africa. Già dal nome, “Rete europea per la difesa dell’agricoltura contadina e contro lo sfruttamento dei braccianti”, li abbiamo riconosciuti come parte della stessa lotta che conduciamo qui e della stessa speranza che cerchiamo di coltivare.

Con le organizzazioni contadine di questi paesi ci siamo confrontati, nella convinzione comune che il sistema di sottomissione della piccola agricoltura governato dalla Grande Distribuzione Organizzata sia lo stesso in tutta Europa, primo responsabile dello strozzamento dei piccoli contadini e del supersfruttamento dei braccianti, locali ed immigrati. Confermando che la lotta contro questo sistema va combattuta ovunque, abbiamo conosciuto come viene condotta in Francia da Via Campesina e dal sindacato contadino Confederaciòn Paysanne, che riunisce migliaia di piccoli agricoltori. O in Spagna dal Sindacato Obrero del Campo.

Durante gli incontri e i dibattiti, i lavoratori africani della Piana di Gioia Tauro, presenti a decine, hanno ascoltato insieme a noi da Spitou Mendy l’esperienza di chi in Andalusia vive le stesse circostanze che hanno determinato l’anno scorso la rivolta di Rosarno: lo sfruttamento selvaggio e la violenza che sta dietro le confezioni di pomodori esposte sui banchi della Carrefour. Dalla sua esperienza, i braccianti della piana hanno colto come sia impossibile una conquista di pieni diritti senza imparare a parlare per sé, darsi un’organizzazione propria, unirsi al di là dell’appartenenza etnica, non delegando a nessuno la difesa dei propri interessi.

Un percorso già intrapreso da alcuni dei loro fratelli che l’anno scorso, dopo la rivolta e le deportazioni, si sono trovati in qualche centinaio a Roma e qui hanno trovato nella solidarietà di alcune realtà di movimento la rete d’appoggio necessaria a cominciare un percorso di autorganizzazione e lotta, che li ha portati alla conquista del permesso di soggiorno e che oggi continua, di assemblea in assemblea. La testimonianza dei compagni dell’Assemblea dei Lavoratori Africani di Rosarno a Roma ha significato per gli africani presenti una verifica importante di come uscire dall’invisibilità e lottare insieme sia una via davvero praticabile.

Un cammino ancora tutto da cominciare nella piana. Se l’accumulo di esasperazione esploso nella rivolta è figlio di questa condizione d’impotenza, dell’impossibilità a dar voce alle proprie esigenze, oggi possiamo partire da quel gesto disperato per organizzare la rabbia in lotta e trasformare l’urlo scomposto in rivendicazione cosciente. Un corso nuovo in cui tutti sono coinvolti, le realtà di movimento, le organizzazioni di solidarietà, gli stessi sindacati, a mettere in discussione le proprie pratiche e iniziarne di nuove.

Uno stimolo ben recepito dal sindacato che dai braccianti è nato, la FLAI-CGIL. La recente esperienza del sindacato di strada, condivisa con i partecipanti ai dibattiti in quei giorni, dimostra la disponibilità di quest’organizzazione a mettersi in discussione e riformulare il proprio essere,  negli assetti come nelle pratiche, alla ricerca del modo più giusto per svolgere la propria missione nella situazione nuova. Un’esperienza ancora tutta da sviluppare, soprattutto nella sua dimensione vertenziale, che può convergere con le altre istanze di lotta presenti sul territorio e nella varietà di culture politiche diventare forza aggiunta sullo stesso fronte di lotta.

Braccianti e piccoli contadini, autoctoni e immigrati: a chi giova la contrapposizione?

Insieme abbiamo ragionato sull’alleanza necessaria tra piccoli contadini e braccianti contro le multinazionali e i loro alleati locali, siano mafiosi, politici o imprenditori. Di contro al fossato etnico che l’anno scorso si è espresso dopo la rivolta in una dinamica di guerra civile, che ha visto violentemente contrapposti poveri ad altri poveri, abbiamo puntato il dito sul blocco sociale dominante che specula e s’arricchisce nel sottosviluppo e questo alimenta, in un rapporto di simbiosi con i grandi gruppi stranieri, svendendo a questi la nostra terra e le nostre vite. Sono quelli che dalle annose truffe sui contributi europei, sugli elenchi anagrafici e le finte giornate ed anche sulle strozzature all’intermediazione verso la grande distribuzione hanno speculato, trasformando l’economia agricola un tempo fiorente di questo territorio in un pantano immobile, un vivaio di assistenze clientelari, nel quale il guadagno dipendeva dal rapporto di fedeltà verso un sistema politico-imprenditorial-mafioso corrotto che invischiava i piccoli contadini nelle clientele dell’elemosina diffusa. Nel mentre pochi grossi realizzavano profitti sulla quantità di prodotto a poco prezzo, anche i piccoli si accodavano a questo modello nutrito di chimica ad impoverire i suoli e le colture e compromettere la possibilità di un’agricoltura di qualità. L’abbassamento dei prezzi arriva come colpo di grazia insieme al cambiamento della Politica Agricola Comunitaria, che prima alimentava la frode diffusa con le “arance di cartone” ed oggi premia solo la grande proprietà, commisurando i contributi non al prodotto ma all’estensione.

Oggi che la nostra agricoltura è prossima alla morte, il blocco speculativo che ha determinato questa situazione volge altrove i propri interessi, trovando nel territorio in sé la merce da svendere e su cui speculare senza bisogno che ci sia qualcuno a coltivarlo, ma rinnovando sempre quel ciclo del cemento da cui è nata la moderna impresa mafiosa.  Così pure i grossi proprietari, ancora satolli dei contributi statali ed europei e forti di una produzione a costi ridottissimi grazie alla manodopera immigrata, s’accodano al nuovo corso pensando di convertire i suoli ad altre colture industriali e destinare quelle meno redditizie ad altri scopi, come le centrali a biomasse… se le arance vanno vendute a 5 centesimi, che ci sia la diossina dentro importa poco e così il diavolo può camminare a braccetto con l’acqua santa a cospargere il nostro territorio di veleni.

Nel variegato panorama delle organizzazioni di categoria, l’istanza dei piccoli contadini può al massimo trovare un posto di subalternità, ancora, dentro strutture verticali che pensano di unire grossi proprietari e piccoli produttori, toccando a volte nelle proposte le possibilità offerte dalla filiera corta ma non mettendo mai in discussione il sistema dell’agricoltura industriale. Come fa chi ad esempio da una parte organizza mercati contadini per bypassare le intermediazioni e dall’altra si limita a chiedere una quantità maggiore di succo d’arancia per i prodotti industriali, una specie d’elemosina maggiorata all’agricoltura stracciona della piana. In questo panorama di soggetti che si accingono a gestire insieme ai governanti della regione i fondi europei per lo sviluppo rurale, non esitiamo a dire che la classe contadina non è rappresentata nei suoi interessi e meno che mai l’istanza di uno sviluppo locale sostenibile.

Da questo punto di vista, la necessità di una sindacalizzazione della manodopera immigrata fa il paio con quella di un’organizzazione autonoma dei piccoli contadini. In questo, l’esempio francese di Via Campesina e Confederaciòn Paysanne può rappresentare un modello che già in Italia sta trovando emuli e filiazioni, come l’Associazione Rurale Italiana e Via Campesina – Italia, presenti quei giorni agli incontri.

A dare corpo e voce all’alternativa per la Calabria, i piccoli produttori della Campagna SOS Rosarno hanno raccontato di come attraverso la rete dei gruppi d’acquisto solidale sia possibile emanciparsi dalle forche caudine del mercato monopolistico, realizzare un prodotto genuino, senza avvelenare la terra e senza sfruttare nessuno, vendere ad un prezzo giusto che consente di retribuire giustamente i lavoratori. A partire da esperienze come questa, oggi che gli assetti delle politiche nazionali e comunitarie cambiano a discapito di questo territorio ed abbandonano la piccola agricoltura alle crisi feroci del mercato mondializzato, noi vediamo una grande possibilità: quella di rompere la solidarietà verticale tra dominanti e dominati e trovare nella lotta per i propri diritti il collante naturale tra questi soggetti sociali al di là delle appartenenze di razza o nazione. Filiera corta, filiera solidale, sostenibilità sociale ed ambientale sono i punti cardinali di questo nuovo corso storico.

Da questi assunti, gli obiettivi volti a generalizzare quest’esperienza pilota:

1- Creare le strutture di una filiera corta calabrese: disertare i centri commerciali, organizzare gruppi d’acquisto e mercatini in cui possiamo acquistare i prodotti della nostra terra, lasciando sul territorio in cui viviamo il valore economico dei nostri consumi.

2- Lo sviluppo locale così inteso è il contrario della chiusura, dell’egoismo particolaristico e rappresenta al contrario un modo per centrarsi, ritrovare la propria identità, anche dal punto di vista economico-produttivo, e a partire da questa realizzare relazioni di scambio, incontri con altri territori e popolazioni, nel segno del mutualismo senza competizione. La filiera solidale è dunque il modo in cui i territori si comunicano e scambiano il rispettivo specifico produttivo e si aiutano a superare le difficoltà, ad affrontare le necessarie lotte.

3- Produrre senza inquinare, lavorare senza essere sfruttati o sfruttare, questa è l’alternativa definita dal concetto di sostenibilità, rifiutando la logica della competizione tra servi che i padroni vorrebbero imporci.

Ancora, questi percorsi s’incontrano nell’esigenza di un’accoglienza degna per i lavoratori immigrati, che non è affatto contrapposta alla qualità della vita degli abitanti pianigiani né foriera di degrado ambientale, come vorrebbe farci pensare chi promuove la segregazione nei ghetti di cemento come unica soluzione di “civile convivenza”. Non stupisce affatto che questi siano i progetti dello stesso Ministero degli interni che vuole aumentare i CIE e concepisce la gestione dei flussi migratori in termini di contenimento e ordine pubblico.

Lo stesso governo che ha creato ad arte la crisi di Lampedusa e fatto esplodere la psicosi dell’invasione per i flussi provenienti dal nord Africa, incapace a gestire l’arrivo di 20.000 esseri umani quando la sola Tunisia non ha esitato un attimo ad accoglierne 150.000, a far ben sperare sul nuovo corso di civiltà inaugurato in quel paese dalla recente rivoluzione. L’offerta di accoglienza partita dalla Locride si sposa con le prese di posizione del sindaco di Riace, di Domenico Lucano a rifiutare con nettezza modelli basati sulla concentrazione e il contenimento, siano realizzati in tendopoli o basi militari. Di contro alle speculazioni politiche ed economiche che prospettano la costruzione di nuovi lager, rilanciata in questi giorni dal governo a violare ancora una volta i diritti umani fondamentali, il coinvolgimento attivo delle istanze locali in formule d’accoglienza diffusa resta l’unica soluzione sensata. L’incontro tra le persone l’unico antidoto alla paura di massa alimentata da politici e mass-media.

Lo stesso Lucano, a partire dalla virtuosa esperienza realizzata nel suo comune ormai da anni, ci ha restituito una chiara visione di come l’ipertrofia cementizia dei nostri territori cozzi contro l’abbandono del patrimonio edilizio, urbano e rurale. Questo scellerato e continuo consumo di suolo è insensato tanto in relazione all’edilizia residenziale quanto alle strutture d’accoglienza. I sigilli posti qualche settimana fa ad abitazioni del centro cittadino di Rosarno, fatiscenti e malsane, occupate, a pagamento, da lavoratori e lavoratrici immigrati, dimostrano come già ci sia una pratica abitativa della popolazione immigrata che usa il patrimonio edilizio in abbandono dei nostri comuni.

Una politica coerente con gli interessi del territorio e non con quelli della speculazione dovrebbe orientarsi al recupero di queste strutture e destinare i fondi pubblici all’accoglienza diffusa anziché costruire nuove strutture invasive dal costo esorbitante. Ancor di più, nel segno di una nuova pianificazione del territorio volta alla promozione dello sviluppo rurale sostenibile, il recupero dei casolari abbandonati, e ad oggi occupati con gravi disagi dai lavoratori immigrati, rappresenterebbe una virtuosa attivazione dell’impresa edile locale, finalizzata al recupero anziché alla speculazione ed alla ripresa dei vecchi mestieri e saperi connessi all‘architettura rurale, oltre che un ripopolamento delle campagne che in prospettiva può coniugare esperienze di turismo solidale con un nuovo impulso per l’impresa contadina e di tutte le connesse attività dell‘artigianato locale oggi purtroppo in decadenza. Anche questo è un fronte di convergenza tra piccoli contadini e braccianti immigrati, che a Rosarno e nella piana di Gioia Tauro non mancheremo di sviluppare nei prossimi mesi chiamando alle proprie responsabilità tutti gli enti locali e chiedendo loro di schierarsi in tal senso con fatti concreti.

Dall’organizzazione alla lotta comune

Ma questa pratica dell’utopia deve incanalarsi in una lotta politica che sappia imporsi alle varie istanze di governo nazionali e sovranazionali, imporre un diverso orientamento delle politiche agricole, così come coordinarsi ai movimenti antirazzisti per combattere le politiche migratorie come la Bossi-Fini, che creano ad arte il contesto giuridico in cui maturano le situazioni che conosciamo nelle campagne del meridione italiano, come di varie altre zone d’Europa. Non è più possibile affrontare separatamente questi problemi. I dati del lavoro nero nelle aziende agricole fanno il paio con quelli della riduzione in clandestinità, come fatto o come minaccia, ad opera delle leggi dello stato italiano che così impediscono a queste masse il diritto ad avere diritti. Se queste sono le basi del made in Italy, un sistema diverso non può che partire dalla lotta per il riconoscimento degli immigrati, tutti, come esseri umani con diritti civili e come lavoratori con diritti sindacali, una lotta unica che va condotta contetestualmente sul fronte economico e politico.

La piattaforma elaborata dalle realtà romane d’appoggio all’Assemblea dei Lavoratori Africani di Rosarno a Roma, come pure quella stilata dal “gruppo di lavoro per la difesa dell’agricoltura contadina e contro lo sfruttamento bracciantile” ci sembrano due fondamentali punti di partenza per un percorso vertenziale che sappia articolarsi in varie dimensioni territoriali, dai tavoli regionali alle sedi del governo UE.

In tal senso accogliamo e rilanciamo la proposta fatta durante le assemblee di quei giorni dall’Osservatorio Antirazzista Pigneto-Torpignattara di Roma di una manifestazione unitaria davanti al Ministero dell’Agricoltura a Roma in cui far convergere tutte le lotte esistenti nel Mezzogiorno agricolo italiano.

Ma non dobbiamo scordarci che dietro la controparte politica c’è sempre una controparte economica. Ad oggi, l’agricoltura in tutte le sue determinazioni, sia essa contadina od industriale, trova nei colossi della Grande Distribuzione Organizzata gli attori del comando capitalistico sulla produzione che determinano prezzi, condizioni e modi di produzione. Il proliferare dei centri commerciali nelle città è un attentato alla salute pubblica dei consumatori così come l’invasione di questi nei territori rurali, soprattutto nel Mezzogiorno, rappresenta uno schiaffo d’impronta coloniale sferrato alle popolazioni locali, con la complicità del capitalismo mafioso che in questi circuiti ed in generale nel ciclo del cemento trova solidi canali di riciclaggio e valenti alleati al proprio strapotere.

Oltre le manfrine retoriche imbastite dai professionisti dell’antimafia, la vera lotta contro le organizzazioni criminali si può e si deve condurre sul fronte economico, attaccando i presidi territoriali degli interessi masso-mafiosi che s’intrecciano con i circuiti della Grande Distribuzione Organizzata fino a diventare una cosa sola. Una campagna nazionale di boicottaggio dei centri commerciali ed in generale delle grandi catene rappresenta allora il momento principe del fronte comune tra gruppi di consumatori consapevoli, piccoli contadini e lavoratori agricoli, ed in generale la società civile meridionale asfissiata dal viluppo masso-politico-imprenditorial-mafioso.

La piana di Gioia Tauro, punto più estremo del Mezzogiorno:
alla periferia della crisi, il laboratorio sociale dell’utopia?

La piana di Gioia Tauro rappresenta storicamente il laboratorio forse più eloquente del sottosviluppo capitalistico innestato in questo territorio dai tempi della conquista regia sabauda per tutta la storia nazionale, anche repubblicana, in cui questo territorio più di molti altri del Mezzogiorno ha visto confermato il suo ruolo di colonia interna. Oggi, proprio negli ultimi mesi, dentro la crisi generale italiana, si moltiplicano gli indicatori di una crisi locale accelerata dai fattori esterni, gli stessi fattori del sistema economico-politico nazionale che hanno determinato e mantenuto per decenni lo status quo.

I barbari sono arrivati in questa terra molti anni fa, ne hanno succhiato il nettare risputandoci indietro lo scarto ed ora s’accingono ad esaurirne l’ultima essenza prima d’abbandonare a se stessa questa gigantesca discarica sociale a cielo aperto.

A cominciare dall’acqua, elemento primo di vita, stanno procedendo a sottrarci le risorse fondamentali alla sopravvivenza, come testimonia l’ultimo episodio avvenuto a Cinquefrondi solo alcune settimane fa, dove un intero paese è rimasto bloccato per 5 giorni perché privato del prezioso liquido e i cittadini, sindaco compreso, impediti da guardie private ad accedere all‘acquedotto. Non è casuale che il nome francese, Veolia, ricorra tra i controllori di questa e delle altre nostre risorse idriche come pure tra i gestori del ciclo dei rifiuti, attraverso discariche e soprattutto l’inceneritore di Gioia in via di raddoppio, a compromettere nell’aria l’altro elemento essenziale alla sopravvivenza. Ecco le loro ricette per il nostro territorio: rovinare la terra per produrre energia attraverso l’incenerimento dei rifiuti in un territorio che già l’energia l’esporta e non dovrebbe sopportare neppure mostri come la centrale Turbogas di Rizziconi, che sputa rumori assordanti e fumo sopra gli ulivi e gli agrumeti a rendere insopportabile agli abitanti locali la vita quotidiana in casa propria. Senza andare poi al futuro prossimo del Rigassificatore, per cui già altre terre sono state svendute nella zona di San Ferdinando ed altre colture verranno distrutte, o del vicino Ponte sullo Stretto, già l’eterno ammodernamento dell’autostrada ha visto gli stessi colossi della megaopera, come Impregilo e Condotte d’Acqua, prendere miliardi dallo stato e lucrare sul bisogno di lavoro di quanti, come i dipendenti del Consorzio Scilla, si vedono sbattuti in mezzo alla strada da un giorno all’altro. Cose che succedono in modo molto simile al Porto di Gioia Tauro, dove la stessa multinazionale che dichiara di non aver problemi a relazionarsi con le cosche per i propri interessi, schiaccia i lavoratori che ne hanno fatto la fortuna nel ricatto di dover rinunciare ad ogni diritto per continuare a poter lavorare, pena l’abbandono dello scalo ed il ritorno della struttura nel lungo novero delle cattedrali nel deserto. Fino ad altri francesi, quelli della Valtur, che quest’anno chiuderanno a Nicotera Marina il megavillaggio dove ogni anno rinserravano i turisti, dopo decenni di profitti realizzati appropriandosi dei nostri luoghi e del nostro mare, lasciando a casa decine di lavoratori e la costa comunque occupata dalla megastruttura.

In questo quadro di dismissione della Calabria e dei calabresi, non stupiscono allora provvedimenti come il sistema delle autonomie e il federalismo fiscale, ovvero la privazione a questo territorio delle risorse erariali per cui paghiamo le tasse, ricchezza nazionale che a buon diritto qui dovrebbe tornare a memoria del lavoro di generazioni dei nostri emigranti che l’hanno costruita. Nel quadro di povertà diffusa e crescente che ne seguirà, l’emigrazione, che si conferma alle quote degli anni ‘50, non potrà allora che aggravarsi assumendo il senso del definitivo abbandono.

Veramente allora ci appare come la ritrosia del paziente di fronte alla medicina urticante la paura sociale che qui si è diffusa ed è stata indotta, ugualmente e diversamente che nel resto del paese, verso la popolazione immigrata. Piuttosto che minaccia al quieto vivere, secondo la visione di un senso comune da sonnambuli ubriachi, questa presenza ci sembra piuttosto un benefico novum, umano, culturale, sociale, in potenza anche economico, in grado di dare a questo organismo compromesso una possibilità di guarigione. A patto, s’intende, che l’osso sano di questa società sappia levarsi di dosso la polpa marcia stratificata in decenni di degrado e lasciar respiro alla pelle nuova, che può essere fecondamente ibridata dai vari elementi di quest’altra umanità.

A vederla in quest‘ottica, l’apocalisse alle porte può essere vista anche come possibile nuovo inizio, a patto però che si sappia collocare ogni questione in questo scenario generale e inserire ogni percorso di resistenza e lotta nella prospettiva generale di una nuova pianificazione del territorio che passa, prima di tutto, per la riappropriazione dei beni comuni.

Per questo facciamo nostra l’istanza del referendum contro privatizzazione del servizio idrico e nucleare, accogliendo l’appello della Rete per la Difesa del Territorio Franco Nisticò a costruire insieme un grande percorso di mobilitazione che metta fine al Commissariamento per l’emergenza rifiuti. Consegnando la gestione dei beni comuni alle popolazioni calabresi. Delle nostre vite decidiamo noi..

PERCHÉ NOSTRA E’ L’ACQUA, NOSTRA L’ARIA, NOSTRO IL MARE E LE COSTE.
NOSTRA LA TERRA E GLI STRANIERI CHE DOBBIAMO CACCIARE SONO QUANTI LE DEVASTANO E SE NE VOGLIONO APPROPRIARE E NON QUELLI E QUELLE CHE VENGONO QUI PER FECONDARLA INSIEME A NOI COL LORO LAVORO.

INVITIAMO TUTTE LE REALTÁ DI SOLIDARIETÁ E LOTTA DEL MEZZOGIORNO ITALIANO AD ORGANIZZARE UN’ASSEMBLEA PREPARATORIA PER UNA GRANDE MANIFESTAZIONE DA TENERSI A ROMA DAVANTI AL MINISTERO DELL’AGRICOLTURA PRIMA DELLA PROSSIMA STAGIONE DELLE ARANCE, A PARTIRE DAL CONFRONTO SU UNA PIATTAFORMA COMUNE.

PER

  • l’istituzione di un aiuto speciale per le piccole aziende, riconoscendo la loro funzione economica, sociale e territoriale, a partire da politiche reali che contrastino il monopolio della Grande Distribuzione Organizzata e sostengano la filiera corta;
  • una campagna nazionale di boicottaggio contro la Grande Distribuzione Organizzata;
  • politiche di sostegno alla filiera del biologico e una moratoria alla costruzione di impianti inquinanti legati al ciclo di smaltimento dei rifiuti e alla produzione d’energia, incompatibili con l’agricoltura di qualità;
  • l’introduzione nei disciplinari dei prodotti certificati (DOP, IGP, STG, DOC e IGT e BIO) di criteri che tutelino i lavoratori, dando pari importanza alla qualità organolettica ed alla qualità sociale del prodotto;
  • l’introduzione degli indici di congruità nel settore agricolo;
  • politiche più efficaci contro il fenomeno sociale ed economico del caporalato, in linea con la campagna nazionale Stopcaporalato;
  • l’attuazione della condizionalità degli aiuti legati al rispetto del diritto del lavoro;
  • il divieto per gli stati membri di sostenere e di sovvenzionare gli agricoltori che non rispettino i loro obblighi di datori di lavoro;
  • la firma, la ratifica e l’attuazione da parte di tutti i Paesi europei della Convenzione internazionale sui lavoratori migranti;
  • la firma, la ratifica e l’attuazione da parte di tutti i Paesi europei della convenzione internazionale 184 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro;
  • la regolarizzazione dei lavoratori agricoli e lavoratori senza documenti;
  • né respingimenti né segregazione: politiche d’accoglienza diffusa basate sul recupero dell’edilizia in disuso tanto nei centri urbani quanto nelle zone rurali, contro strutture di contenimento, separazione, reclusione.

CONTRO LA PRIVATIZZAZIONE DEL SERVIZIO IDRICO E IL RITORNO AL NUCLEARE

 

OSSERVATORIO MIGRANTI AFRICALABRIA – ROSARNO
EQUOSUD
C.S.O.A. ANGELINA CARTELLA – REGGIO CALABRIA
KOLLETTIVO ONDA ROSSA – CINQUEFRONDI
CHIESA BATTISTA – REGGIO CALABRIA
G.A.S. FELCE E MIRTILLO – REGGIO CALABRIA
COLLETTIVO UNIVERSITARIO UniRC
COMITATO ACQUA PUBBLICA VILLA SAN GIOVANNI

adesioni:
ASSEMBLEA DEI LAVORATORI AFRICANI DI ROSARNO A ROMA
COMPRESI GLI ULTIMI – VIBO VALENTIA
FIOM CGIL – REGGIO CALABRIA/LOCRI
FLAI CGIL – PIANA DI GIOIA TAURO
CGIL – COMPRENSORIO DI GIOIA TAURO
OSSERVATORIO ANTIRAZZISTA PIGNETO – TORPIGNATTARA
PARTITO DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA
STALKER – PRIMAVERA ROMANA
SINISTRA CRITICA – CALABRIA

per adesioni: africalabria@gmail.com

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

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