L’attualità di Sciascia… e la retorica dell’antimafia

Rileggendo «A futura memoria»

di Angelo Maddalena   

Primavera 2009, ero in treno da Marsiglia a Genova, all’altezza di Bordighera più o meno. Sulle pagine di alcuni quotidiani c’era una riflessione di Antonio Ingroia a proposito di Roberto Saviano. Ingroia citava Leonardo Sciascia e parlava (non ricordo bene in che termini) di “professionisti dell’antimafia”. Allora non sapevo nulla di quello che Sciascia aveva scritto a tal proposito. Adesso, dopo quasi sette anni, sempre lungo la Riviera dei fiori (a volte i luoghi ritornano) dove ormai abito da quasi un anno, ho trovato un libro a dir poco prezioso, ovviamente a metà prezzo – fortuna per me – perché fuori catalogo (credo, ed è una sfortuna per tutti): «A futura memoria» (sottotitolo: se la memoria ha un futuro) di Sciascia. E’ una raccolta di articoli pubblicati sul Corriere della sera (prevalentemente) ma anche su altri quotidiani e riviste (L’Espresso, Il Globo) da Sciascia fra il 1978 e il 1988, l’ultimo suo decennio, perché la morte lo colse nel 1989. E’ una miniera di spunti di riflessione e di osservazione della realtà, con una lucidità e un acume, talvolta profetici; e di questo lo stesso Sciascia se ne duole, come scrive in uno dei suoi articoli, dicendo che purtroppo, spesso – dall’omicidio Moro all’omicidio Dalla Chiesa – quello che succede nella realtà lui lo aveva quasi già scritto in alcuni suoi romanzi: «Il giorno della civetta» piuttosto che «Todo modo» o altri.

Ma andiamo al sodo: uno dei temi prevalenti degli articoli di Sciascia è la mafia, il maxiprocesso che a metà degli anni ’80 iniziava e al quale Sciascia ha spesso assistito in tribunale. In un passo di questo libro Sciascia dice che lui ha iniziato a parlare di mafia in tempi non sospetti («Il giorno della civetta» mi pare sia stato pubblicato all’inizio degli anni ’60 dello scorso secolo) e ha dovuto fare i conti con chi cercava di dire che “la mafia non esiste” e al contrario, dagli anni ’80, lo stesso Sciascia ha dovuto “combattere” (sicilianismo in questo caso: da cummattiri, cioè “avere a che fare”) con chi vede mafia e mafiosi a ogni angolo della strada, magari in modo non sempre disinteressato. Andiamo al dunque. L’intervento in cui Sciascia accenna ai “professionisti dell’antimafia” (titolo dato dal giornale al suo articolo) ed è stato pubblicato dal Corriere della sera il 10 gennaio 1987; nel libro «A futura memoria» lo troviamo a pagina 123.

A parte il fatto che questo articolo è un viaggio intellettuale molto interessante e solo all’ultimo accenna alla questione in modo precipuo, volevo piacevolmente riconoscere, senza azzardare paragoni, di ritrovarmi nello stile di scrittura dello “zio” Leonardo (posso ritenerlo tale, anche perché abitava a 50 Km dal mio paese, anche se io l’ho conosciuto troppo tardi, un po’ come un parente morto quando si è troppo giovani; e infatti i miei due nonni sono stati così per me: uno morto quando non ero nato e un altro quando avevo meno di dieci anni): uno stile di scrittura che a volte può sembrare prolisso o che prende alla larga un argomento, ma che io trovo molto interessante, sia perché è un vero e proprio viaggio intellettuale, sia perché attraverso le citazioni approfondisce o comunque rimanda ad altri testi e titoli, e infine perché quando arriva al sodo, lo fa in modo acuto appunto, congruente e coerente. Per esempio in questo articolo inizia con due autocitazioni, una delle quali è attuale in modo impressionante: nonostante tutti i discorsi e i seminari, gli incontri nelle scuole e la “cultura della legalità”, ancora oggi non si parla di mafia se non in modo superficiale, mediatico e senza cognizione di causa, con associazioni vergognose e ridicole tra mafie e Sicilia, tra mafia e siciliani: ogni tanto mi sento chiedere “come va la mafia in Sicilia?” da gente che magari pensi che sia ignorante e di bassa lega, ma purtroppo anche da chi ti aspetteresti avere un certo livello e spessore culturale; se scavi un po’ vedi che c’è tanto bisogno… di leggere Sciascia!

Ed ecco la citazione, presa da «Il giorno della civetta»: «Da questo stato d’animo sorse, improvvisa, la collera. Il capitano sentì l’angustia in cui la legge lo costringeva a muoversi; come i suoi sottoufficiali vagheggiò un eccezionale potere, una eccezionale libertà di azione: e sempre questo vagheggiamento aveva condannato nei suoi marescialli. Una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali, in Sicilia e per qualche mese: e il male sarebbe stato estirpato per sempre. Ma gli vennero alla memoria le repressioni di Mori, il fascismo: e ritrovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti…Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche: mettere mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto […] sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuoriserie, le mogli, le amanti di certi funzionari: e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso». Già da questa citazione ci sarebbe da trarre almeno una pagina di riflessioni, ma andiamo avanti di qualche riga, e troviamo la citazione del libro «La mafia durante il fascismo» (Rubbettino editore) di Cristopher Duggan, «giovane ricercatore dell’Università di Oxford e allievo di Denis Mack Smith, che ha scritto una breve presentazione del libro soprattutto mettendone in luce la novità e utilità nel fatto che l’attenzione dell’autore è rivolta non tanto alla “mafia in sé”, quanto a quel che “si pensava la mafia fosse e perché. Punto focale, ancor oggi, della questione: per chi – si capisce – sa vedere, meditare e preoccuparsi; per chi sa andare oltre le apparenze e non si lascia travolgere dalla retorica nazionale che in questo momento del problema della mafia si bea come prima si beava di ignorarlo o, al massimo, lo assomma al pittoresco, al colore locale, alla particolarità folcloristica. Ed è curioso che nella attuale consapevolezza (preferibile senz’altro – anche se alluvionata di retorica – all’effettuale indifferenza di prima) confluiscano elementi di un confuso risentimento “razziale” nei riguardi dei siciliani: e si ha a volte l’impressione che alla Sicilia non si voglia perdonare non solo la mafia, ma anche Verga, Pirandello, Guttuso» (A futura memoria, pgg. 123-125).

Anche questo aspetto che Sciascia accenna alla fine, lo ricorderà altre volte nel libro. un aspetto che meriterebbe attenzione e approfondimento. Vado avanti per non dilungarmi troppo. A pagina 128 c’è un passaggio davvero “spaventoso”, per carica profetica. E’ quello in cui si fa l’esempio, per dimostrare il pericolo della sacralizzazione dell’«antimafia», di «un sindaco che per sentimento e per calcoli cominci ad esibirsi – in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei – come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall’acqua che manca all’immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari qualcuno, molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo: e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un’azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno (…) questo è un esempio ipotetico». Ricordiamo che Sciascia scrive alla fine degli anni ’80 e non a fine anni ’90 o ai giorni nostri, quando esempi di sindaci antimafia sono già noti e qualcuno è diventato, dopo essersi ammantato di questa aura “antimafiosa” (era sindaco di Gela fino al 2010 più o meno) presidente della Regione Sicilia nel 2013. Dopo queste righe, Sciascia accenna a quello che fece esplodere la polemica che lo investì e di cui poi scrive nelle settimane successive, in articoli ripresi anche nel libro «A futura memoria». In pratica Sciascia segnalò un’anomalia, citando il «Notiziario straordinario» numero 17 (10 settembre 1986) del Consiglio superiore della magistratura. «Vi si tratta dell’assegnazione del posto di procuratore della Repubblica a Marsala al dottor Paolo Emanuele Borsellino e della motivazione con cui si fa proposta di assegnarglielo, salta agli occhi questo passo: “Rilevato, per altro, che per quanto concerne i candidati che in ordine di graduatoria precedono il dottor Borsellino, si impongono oggettive valutazioni che conducono a ritenere, sempre in considerazione della specificità del posto da ricoprire e alla conseguente esigenza che il prescelto possegga una specifica e particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare, che gli stessi non siano, seppure in misura diversa, in possesso di tali requisiti con la conseguenza che, nonostante la diversa anzianità di carriera, se ne impone il ‘superamento’ da parte del più giovane aspirante». Con questa sottolineatura Sciascia intendeva segnalare un’anomalia, e cioè che per la prima volta, per assegnare l’incarico di Procuratore della repubblica, anziché un criterio di anzianità, com’era stato fino ad allora, si usava un criterio di “antimafia”, cioè la «competenza professionale nel settore della delinquenza» ecc. In alcuni articoli delle settimane successive, sempre pubblicati dal Corriere della sera, Sciascia si difende in particolare dagli attacchi del Coordinamento Antimafia di Palermo, che lo accusa di volere screditare Paolò Borsellino, cosa che neanche Borsellino pensa, perché Sciascia ha voluto far notare cose che già prima di lui avevano fatto notare i rappresentanti di Cisl, Uil e Cgil: «io li ho incontrati in questi giorni, e mi sento straordinariamente confortato, e direi più sicuro, nell’apprendere che queste cose loro le avevano dette prima di me» scrive Sciascia (pag 142 di «A futura memoria»). E qualche riga dopo c’è un passaggio ancora attuale dopo trent’anni, o forse ancora più attuale oggi che 30 anni fa: «i cortei, le tavole rotonde, i dibattiti sulla mafia, in un Paese in cui retorica e falsificazione stanno dietro ogni angolo, servono a dare l’illusione e l’acquietamento di far qualcosa: e specialmente quando nulla di concreto si fa. I ragazzi bisogna lasciarli a scuola, che bene o male ancora serve. Se qualcosa di serio si vuol fare, perché non dar loro quella trentina di illuminanti pagine sulla mafia che si trovano nel libro I ribelli di Hobsbawm? Se ne può fare un opuscolo da distribuire largamente, e impegnando gli insegnanti a spiegarlo nel contesto della storia siciliana e nazionale. Costerebbe meno di quanto costano, in denaro pubblico, certe manifestazioni “culturali” contro la mafia. E qui tocchiamo un altro punto di un discorso che si deve pur fare sullo sperpero enorme del denaro pubblico per manifestazioni “culturali”». Come si vede, Sciascia apre sempre l’orizzonte oltre l’argomento che sta trattando, non si ferma al particolare, pur analizzandolo con acume e coraggio intellettuale. Credo sia sufficiente, per dire il bisogno che c’è, oggi più che mai, di riprendere certe “lezioni” (e di vere e proprie lezioni si tratta), certi sguardi e certi livelli di discorso purtroppo ormai quasi dimenticati, quando non – purtroppo spesso – calpestati e sviliti.

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Un commento

  • Pierluigi Pedretti

    Interessante l’articolo. Veramente. L’idea che lo Stato non voglia affrontare il problema mafioso è ben sottolineato da Maddalena anche attraverso le parole dirette di Sciascia, quanto mai attuali: « i cortei, le tavole rotonde, i dibattiti sulla mafia, in un Paese in cui retorica e falsificazione stanno dietro ogni angolo, servono a dare l’illusione e l’acquietamento di far qualcosa: e specialmente quando nulla di concreto si fa. I ragazzi bisogna lasciarli a scuola, che bene o male ancora serve.» E da calabrese e da insegnante so quanto inutili siano (state) tutte le conferenze e gli incontri sulla cosiddetta educazione alla legalità.
    Tuttavia, per continuare la discussione, vi vorrei proporre in parte una rilettura de “ I professionisti dell’antimafia” fatta da Gian Carlo Caselli riguardo proprio all’assegnazione di Borsellino a procuratore della Repubblica a Marsala diversa da quella proposta da Maddalena.
    Ecco cosa ha scritto l’altro giorno l’ex magistrato Caselli (il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2017): « Nel suo articolo Sciascia, sostanzialmente, affrontava due temi: il rapporto della mafia con la politica e con la giustizia. Sul primo versante avrebbe potuto prendersela con Ciancimino o Lima o Andreotti.
    . Scelse invece come bersaglio Leoluca Orlando, non riconoscendogli neppure il tentativo di porre alla base della sua attività istituzionale una nuova cultura politica, avversa a legami più o meno occulti con la mafia. Quanto al secondo versante, nessun accenno ai magistrati che si “scantano” o si scansano, quelli cioè che hanno paura o preferiscono la vita tranquilla, per cui non vedono o si tirano indietro. Un attacco furibondo invece contro Paolo Borsellino, uno dei più validi componenti (insieme a Falcone) del pool di Chinnici e Caponnetto che aveva ottenuto, con il “maxi-processo”, la prima sconfitta di Cosa Nostra dopo secoli di impunità.
    . Roba da niente secondo Sciascia, in ogni caso non sufficiente per giustificare la nomina di Borsellino a Procuratore di Marsala (zona ad alta intensità mafiosa), a fronte di un concorrente “più in diritto di ottenere quel posto” perché più anziano, ancorché mai incaricato di un processo di mafia. Di qui l’accusa assurda a Borsellino di essere un “professionista dell’antimafia”, nel senso di un arrivista che sgomita per scavalcare colleghi più meritevoli (per l’anagrafe…). Un’accusa che dopo la strage di via d’Amelio sarebbe bestemmia riprendere. Come tutti, Borsellino amava i libri di Sciascia e accettò una sorta di rappacificazione nonostante la sofferenza e la rabbia provate.
    . Quando si trattò di nominare il successore di Caponnetto, invece di Falcone (il più bravo di tutti nell’antimafia) venne designato un magistrato praticamente digiuno in materia, ma più anziano. Complice l’articolo di Sciascia, sbandierato come un trofeo dai componenti del Csm inclini alla bagarre. Così, il criterio della professionalità specifica (previsto in una delibera del Csm del 15.5.86 – ignorata da Sciascia – per la nomina dei dirigenti di uffici di “frontiera” antimafia), già adottato con Borsellino, venne cancellato per Falcone. »

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