Lavorare senza padroni: fra Italia e Argentina

   recensione di db al libro «Le fabbriche della cooperazione» di Marco Semenzin

 

Lavoratori che recuperano le aziende fallite o in crisi. Se volete dirlo in sigla (inglese) è Wbo: Workers Buy Out. Il 12 aprile a Milano – anzi a Trezzano sul Naviglio (*) – se n’è parlato presso la «fabbrica recuperata» Rimaflow (**). I posti di lavoro salvati, con differenti forme di autogestione, in Italia sono 7500, circa 15mila se si calcola l’indotto. In Argentina dove il fenomeno è nato (o storicamente rinato, se preferite) per la crisi economica del 2001 e poi dal 2009 i dati, aggiornati al 2016, contavano 15.948 lavoratori e lavoratrici nelle 367 “imprese recuperate” che evidentemente salgono contando l’indotto.

Per capire cosa sta accadendo è indispensabile la lettura di «Le fabbriche della cooperazione» (Ombre Corte editore: 224 pagine per 18 euri) di Marco Semenzin, uscito in gennaio, con il sottotitolo «Imprese recuperate e autogestite fra Argentina e Italia». Un lavoro sul campo, studiando (e in un caso partecipando alla produzione, spostandosi nei vari reparti) per tre mesi una fabbrica metalmeccanica in Argentina e per due mesi e mezzo una ceramica in Italia.

«Le imprese recuperate possono essere definite come organizzazioni economiche che, a seguito di un processo fallimemtare, sono state rilevate e gestite direttamente dai lavoratori e hanno assunto la forma cooperativa».

Il lavoro di Semenzin indaga tre questioni: «I rapporti produttivi» e dunque mansioni, ritmi, tecnologie, gerarchia; «i rapporti sociali» dunque consenso, conflitti, partecipazione, leadership, organizzazione, soggettività; «l’organizzazione e il suo ambiente» dunque i rapporti con il mercato, con il territorio e con le più varie istituzioni. Oltre all’osservazione diretta, lo strumento principale della ricerca è l’analisi delle «interviste realizzate in fabbrica ai lavoratori e alle lavoratrici»: 29 alla argentina Impa e 30 all’italiana Ceramik (ma in questo secondo caso Semenzin non ha usato il vero nome, per le ragioni che spiega nel libro).

La ricerca è strutturata in 4 capitoli. «Il primo fornisce il quadro di contesto in cui sorgono le esperienze di recupero in Argentina e in Italia». Nel secondo si ragiona sulle idee e sulle pratiche storiche di autogestione e cooperazione. Il terzo e il quarto capitolo sono «le etnografie dei due casi di studio». A chiudere il libro le riflessioni dell’autore.

Moltissimi i passaggi del libro da segnalare, decisamente troppi per una recensione. Qui accenno solo a due questioni: le grandi diversità politiche fra i lavoratori e lavoratrici dei due Paesi, da un lato; e dall’altro la partecipazione emotiva (“lo strippo” diremmo noi romanacci) dell’autore, in particolare «una forte delusione sul piano politico». Quando, verso la fine del libro, Semenzin abbandona la simbolica giacca del ricercatore e indossa la felpa del militante scrive, parlando dell’esperienza argentina: «Non è posssibile negare che il mio interesse per il fenomeno studiato abbia radici politiche […] Il disinganno e lo sconforto che ne è seguito sono stati molto forti […] Rabbia e risentimento, in parte indirizzati verso me stesso, per non aver saputo scegliere un caso adeguato». A me questa confessione emotiva appare un ulteriore pregio: non credo nella neutralità e come lo stesso Semenzin ricorda l’osservatore «non è una mosca appoggiata al muro». Chi osserva partecipa – lo voglia o no – e interagisce. Decidendo poi cosa raccontare e cosa tacere. Bugiardo chi dice il contrario.

Ricordo che in rete è possibile vedere «La fabbrica senza padroni: FaSinPat, una storia di riappropriazione»: www.distribuzionidalbasso.com/la-fabbrica-senza-padroni

(*) ne ha scritto qui Salvatore Cannavò: https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/04/12/quando-i-lavoratori-in-fabbrica-fanno-da-se/5104812/

(**) in “bottega” se n’è parlato più volte: per esempio qui RiMaflow deve vivere e qui Ri-Maflow: il reato di lavorare senza padrone

danieleB
Un piede nel mondo cosiddetto reale (dove ha fatto il giornalista, vive a Imola con Tiziana, ha un figlio di nome Jan) e un altro piede in quella che di solito si chiama fantascienza (ne ha scritto con Riccardo Mancini e Raffaele Mantegazza). Con il terzo e il quarto piede salta dal reale al fantastico: laboratori, giochi, letture sceniche. Potete trovarlo su pkdick@fastmail.it oppure a casa, allo 0542 29945; non usa il cellulare perché il suo guru, il suo psicologo, il suo estetista (e l’ornitorinco che sonnecchia in lui) hanno deciso che poteva nuocergli. Ha un simpatico omonimo che vive a Bologna. Spesso i due vengono confusi, è divertente per entrambi. Per entrambi funziona l’anagramma “ride bene a librai” (ma anche “erba, nidi e alberi” non è malaccio).

2 commenti

  • Gian Marco Martignoni

    Hai fatto bene Daniele a valorizzare queste esperienze per due ragioni : la prima riguarda il rilancio della forma-cooperativa, che come è noto ha subito un vero e proprio calo nell’immaginario collettivo ,per via dell’uso distorto e degenerato che ne è stato fatto dalla imperante logica neo-liberista ; la seconda attiene ad un nuovo protagonismo di spezzoni del mondo del lavoro, in antitesi alla rassegnazione soprattutto psicologica prodotta inevitabilmente dalla perdita del posto di lavoro.

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