“Le donne yazidi sono forti”: le squadre femminili di sminamento

di Kate Denereaz

Dietro Hana Khider c’è una grande mappa di muro grigio, con i campi minati che la sua squadra ha ripulito segnati in verde. «Questo è il luogo in cui gli Yazidi vivevano insieme», afferma. «È dove ho vissuto la mia infanzia; ho così tanti ricordi qui, è molto importante per me.» Il posto è Sinjar, o Shingal come lo conoscono gli Yazidi, al confine nord-occidentale dell’Iraq con la Siria. Khider, 28 anni, sta parlando in videochiamata dal suo ufficio nella regione. «Questo lavoro è così importante per me perché mi sento come se stessi facendo qualcosa di buono per la mia famiglia, la mia comunità e le persone che sono state sfollate da Sinjar. Rimuovendo le mine, le sto aiutando a tornare un giorno, forse».

Nell’agosto 2014, l’Isis ha invaso e occupato questa regione. Il gruppo ha ucciso circa 5.000 Yazidi, ha rapito e ridotto in schiavitù 6.000 donne e bambini e ha sfollato una comunità che viveva in città e villaggi incastonati attorno al monte Sinjar, da secoli sacro agli Yazidi. «Prima avevamo una vita normale. Tutto andava bene, la gente viveva la propria vita felicemente. Ma dopo il genocidio del 2014, tutto è cambiato. Non siamo più sicuri», afferma Khider.

Quando nel 2017 l’Isis fu respinta da Sinjar, aveva piazzato centinaia di migliaia di mine antiuomo e altri ordigni esplosivi in case, edifici e campi. Il gruppo li ha fabbricati su scala industriale, ma ha anche usato oggetti domestici come pentole, padelle e persino controller per videogiochi – qualunque cosa su cui potesse mettere le mani – per costruire dispositivi improvvisati. «Le persone vengono uccise o ferite quotidianamente a sud della montagna», spiega Khider. Una parte importante del suo lavoro è educare la comunità e in particolare i bambini, che sono soggetti molto a rischio. In una zona minata, un uomo le ha detto che un’esplosione ha ucciso suo nipote di 15 anni mentre era fuori nei campi a occuparsi del gregge. L’altro nipote ha riportato ferite che gli hanno cambiato la vita.

Un nuovo film, Into the Fire, segue Khider e la sua squadra di donne Yazidi al Mines Advisory Group (MAG), un’organizzazione benefica internazionale che rimuove bombe inesplose nelle ex zone di guerra di tutto il mondo, mentre sminano Sinjar.

L’alto livello di presenza di mine è uno dei motivi per cui, a tre anni dalla liberazione di Sinjar dall’Isis, solo un quarto della popolazione è tornato. Quasi 300.000 Yazidi vivono ancora in campi di tende e rifugi di fortuna nella vicina Regione del Kurdistan, in Iraq. Le condizioni sono pessime e la comunità ha un accesso inadeguato ai servizi, inclusi i trattamenti per gli alti tassi di malattia mentale. Ancora mancano all’appello oltre 2.000 tra donne e bambini.

Secondo Portia Stratton, direttrice nazionale di MAG per l’Iraq, chi è tornato vive principalmente a nord della montagna che divide Sinjar. «Il nord della montagna, sebbene gravemente colpito, presentava una minor quantità di mine rispetto al sud, perché l’Isis l’ha occupata per un periodo molto più breve. Inoltre, dato che molta più gente è tornata al Nord, storicamente abbiamo avuto maggiori informazioni sulla presenza di mine in quelle aree. Nel sud, in particolare, resta ancora molto da fare», afferma Stratton.

L’ente benefico MAG ha sminato il villaggio di Khider nel 2016, permettendo a lei e alla sua famiglia di tornare, anche se non nella loro vecchia casa, che aveva subito troppi danni. Un’alta percentuale di case in tutto il distretto è stata colpita in modo simile, e molte sono state completamente distrutte. Santuari, scuole e edifici pubblici sono in rovina. «C’è anche una mancanza di servizi, come l’assistenza medica e l’istruzione, specialmente nei villaggi», afferma Khider. Due dei suoi figli vanno a scuola, ma per seguire le lezioni devono percorrere svariate miglia ogni giorno, attraversando zone devastate della guerra. «Quello che voglio più di ogni altra cosa è che siano sicuri e liberi.»

Nonostante i pericoli del suo lavoro, Khider non ha paura. «Ho fiducia in me stessa e so che sto facendo la cosa giusta». Uno dei problemi è che Sinjar rientra nei “territori contesi” dell’Iraq, le aree rivendicate sia dal governo centrale iracheno che dal governo regionale del Kurdistan. Il conflitto politico ha alimentato la guerra, ha frammentato l’autorità, rendendo particolarmente vulnerabili gli Yazidi e altre minoranze, tra cui Assiri, Turkmeni e Shabak, a Sinjar e nelle vicine pianure di Ninive. «Manca un governo che funzioni», dice Abid Shamdeen, direttore esecutivo di Nadia’s Initiative, un’organizzazione benefica che lavora a Sinjar, creata dalla vincitrice del premio Nobel per la pace Nadia Murad. La mancanza di forze dell’ordine ufficiali nella regione «genera anche caos e paura», afferma. Una moltitudine di milizie rivali opera nell’area, impedendo agli ex residenti di tornare e ostacolando la ricostruzione. A metà giugno questo stato di insicurezza è stato messo in luce da un attacco aereo turco (ultimo di una serie) sulla montagna di Sinjar, contro i militanti curdi, che ha invece colpito le aree in prossimità dei civili. «Quand’è che @IraqiGovt e la comunità internazionale avranno un po’ di coraggio e volontà politica per risolvere i conflitti nello Sinjar?» ha twittato Murad in risposta.

Nonostante questa precarietà, Khider è impegnata nella sua casa, che ama. Ora ha iniziato a coltivare un orto. «Ho piantato cose semplici, alcuni fiori, verdure come cetrioli, pomodori, melanzane», dice. «Sento che hanno un’anima e uno spirito. Sono felice solo a guardarli». È questo atteggiamento che ha attirato l’attenzione di Orlando von Einsiedel, il regista premio Oscar di The White Helmets, sulla storia di Khider.

«Into the Fire non si concentra sull’oscurità dell’Isis e sulle sue azioni. Volevo invece che si concentrasse sull’incredibile capacità di ripresa e forza di coloro che sono sopravvissuti alle loro atrocità e che stanno ricostruendo le loro vite e le loro comunità.» Spera anche che il film porti una maggiore consapevolezza del ruolo delle donne nella ricostruzione delle loro comunità dopo il conflitto. «In tutto il mondo, MAG ha squadre straordinarie di sminatrici – molte delle quali madri – che lanciano una sfida totale alle percezioni stereotipate di cos’è “il lavoro della donna”.» Khider pensa che questo lavoro sia un’occasione per riprendersi per le donne della sua squadra, alcune delle quali sono ex prigioniere dell’Isis e tutte hanno perso la famiglia e gli amici nel 2014. «Stanno facendo questo lavoro che in precedenza forse facevano solo gli uomini, e questo dà loro fiducia in loro stesse. Stanno facendo qualcosa di buono per la loro comunità e la loro famiglia e possono anche dipendere da loro stesse, finanziariamente e non solo». Khider lavora ancora con le donne, ma è stata promossa a guidare una squadra più ampia, che include uomini. Dal 2016 lei e i suoi colleghi hanno sgomberato più di 27.000 mine dalle aree liberate dall’Isis.

Quando ha visto Into the Fire per la prima volta ha detto: «Mi sono sentita triste nel vedere la realtà in cui viviamo ora e tutte le cose che sono successe alla mia comunità e al popolo Yazidi. Ma sono anche stata felice di vedere le cose buone che io e la mia squadra stiamo facendo. Spero che il film mostri alle persone di tutto il mondo che noi donne Yazidi siamo forti, non ci arrendiamo e che siamo in grado di rialzarci e vivere la nostra vita, anche dopo tutto quello che abbiamo passato».

Into the Fire è disponibile in streaming sul canale YouTube del National Geographic

(The Guardian, 7 luglio 2020, traduzione di Laura Colombo)

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