Le incertezze dell’Iran nello specchio del suo cinema

di MARINA FORTI  (*)

Teheran, il 17 febbraio 2016. (Alessandro Rota, Getty Images)

 

Il cinema è un buon termometro della società iraniana. E una visita a Teheran durante l’importante Fajr international film festival può essere utile per capire l’aria che tira nel paese, alle prese con il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare e nuove tensioni internazionali che rischiano di rafforzare le correnti più conservatrici.

Il festival si è tenuto dal 19 al 27 aprile in un moderno multisala, affollato di artisti e cinefili, troupe televisive e fotografi. Ha presentato 180 film provenienti da una cinquantina di paesi, oltre a cortometraggi, documentari e un nutrito programma di seminari e “lezioni magistrali”: affollate quelle di Oliver Stone e di Roberto Perpignani, il montatore di quasi tutti i film dei fratelli Taviani, come anche l’incontro con l’attore Franco Nero e quello con il regista cambogiano Rithy Panh.

Con il Fajr international, l’Iran vuole proiettare di sé un’immagine aperta al mondo, crocevia di un cinema alternativo a quello hollywoodiano. Uno degli obiettivi è sostenere il cinema indipendente: “È un antidoto alle visioni stereotipate e alla commercializzazione”, dice il regista e direttore del festival Reza Mirkarimi.

Tre anni fa in questo stesso festival si respirava ottimismo: l’Iran stava negoziando l’accordo sul nucleare sotto la presidenza del moderato Hassan Rohani, il paese usciva dall’isolamento e gli iraniani si aspettavano tempi migliori, più benessere e nuove aperture sociali. Il sindacato indipendente Casa del cinema aveva ripreso le attività dopo anni di chiusura imposta dal presidente Mahmoud Ahmadinejad. Registi, scrittori e intellettuali messi al bando si rimettevano al lavoro. Uscivano film bloccati da anni.

La vendetta di Ahmadinejad
L’atmosfera oggi è diversa. “Il cinema subisce meno interferenze, questo è certo”, mi dice Fatemeh Mohtamed-Aria, attrice molto amata in Iran e pluripremiata all’estero, codirettrice delle attività del festival. Fino a qualche tempo fa sarebbe stato impensabile trovarla qui: benché molto popolare, o forse proprio per questo, per anni è stata bandita dal cinema e dalla tv.

Durante le elezioni del 2009, molti registi avevano sostenuto i candidati riformisti. Lei aveva girato un video per uno di loro, Mir Hossein Musavi, poi sconfitto e messo agli arresti domiciliari. Una volta rieletto, Ahmadinejad si era “vendicato” mettendo al bando molti artisti.

“Quel periodo nero pesa ancora sulla nostra società”, dice Mohtamed-Aria, “ricostruire spazi per il cinema indipendente resta difficile”. Anche se poi comincia a citare nuovi film, opere teatrali, imprese culturali: “C’è una nuova generazione che preme e cerca la propria strada”.

Entusiasmo svanito
Dalle vetrate del palazzo dove si svolge il festival, agli ultimi piani di un centro commerciale, si vedono le montagne a nord della capitale iraniana, imbiancate da una nevicata tardiva. In strada il traffico sembra non fermarsi mai, in questa metropoli di tredici milioni di abitanti. Teheran ostenta normalità: le strade sono affollate, i negozi pieni, nel fine settimana i cinema e i tanti giardini si riempiono. Ma il senso di incertezza diventa tangibile quando attraverso la centrale piazza Ferdowsi, nella zona dei cambiavaluta, e trovo solo uffici chiusi: in aprile il governo ha sospeso il mercato libero dei cambi per arginare il crollo della moneta nazionale, il rial, che aveva perso in poche settimane fino al 35 per cento del suo valore. Effetto combinato di manovre speculative, fuga di capitali, e anche della corsa dei piccoli risparmiatori iraniani a comprare dollari nel timore di nuove crisi.

Il pubblico del Fajr international film festival a Teheran, il 25 marzo 2018. - Arash Khamooshi, The New York Times/Contrasto

Il pubblico del Fajr international film festival a Teheran, il 25 marzo 2018. (Arash Khamooshi, The New York Times/Contrasto)

Le tante incertezze del paese si rispecchiano in molti dei film presentati al Fajr international film festival. Tra le opere prime c’è Dressage, diretto da Pooya Badkoobeh, in cui si raccontano le vicende di alcuni adolescenti che rapinano un negozio di alimentari in una periferia metropolitana giusto per passare la serata. Una ragazza del gruppo è però poi colta dagli scrupoli e rifiuta di distruggere il video di una telecamera di sorveglianza che li incrimina. A poco a poco si rende conto delle differenze di classe tra sé e gli altri, e si scontra con meccanismo di potere più grandi di lei. Per esempio con il padre ricco di uno degli altri ragazzi, che farà di tutto per evitare la denuncia contro il figlio. Un altro padre ha investito tutti i suoi risparmi nell’acquisto di una casa, ma scopre di essere stato truffato. Un lavoratore afgano è costretto a tacere per non perdere il posto. Badkoobeh è nato nel 1983, viene dal teatro ma ha lavorato a lungo nella pubblicità, e mi dice che con il personaggio della figlia in rivolta ha voluto rappresentare “una resistenza alla modernità consumista”.

In altri film, i protagonisti sono giovani che vorrebbero emigrare negli Stati Uniti, ma l’unico paese in cui possono andare senza il visto è la Turchia. La scelta se partire o no è un tema ricorrente nel cinema iraniano.

In Banafsheh Afrighi (African violet), la regista Mona Zandi Haghighi racconta invece la storia di una donna sposata che fa di tutto per aiutare l’anziano ex marito. L’uomo è abbandonato in un ospizio e la donna decide di accoglierlo a casa sua, sfidando il malumore del nuovo marito e i mormorii di un piccolo paese dove tutti si impicciano dei fatti altrui. “Mi sono ispirata a una storia realmente accaduta nella mia famiglia. Volevo rappresentare una donna forte, capace di andare contro le convenzioni sociali”, spiega la regista, quando la incontro ai tavolini del caffè del festival.

Sulla quarantina, Mona Zandi appartiene alla generazione cresciuta subito dopo la rivoluzione del 1979. Ha cominciato a lavorare come fotografa e si è avvicinata alla regia collaborando tra l’altro con Rakhshān Bani-E’temād, una delle più coraggiose registe del cinema iraniano. Il primo film di Zandi era uscito nel 2006 e aveva avuto un discreto successo. Anche quella era una storia di ribellione femminile: una donna cacciata dal padre dopo aver avuto un figlio fuori del matrimonio. Poi non aveva potuto più girare. Cos’era successo? Sorride: “Niente, era cominciata l’epoca di Ahmadinejad”. I suoi progetti sono stati bocciati uno dopo l’altro (un regista deve superare due volte la censura: prima per poter girare, poi affinché il film sia distribuito).

Respinta la storia di uno stupro in famiglia, “l’argomento è stato giudicato troppo delicato”; bocciata anche una vicenda di stupro tra giovani uomini. “Ho capito che non mi avrebbero lasciato lavorare”, continua Zandi. “Quando è stato eletto Rohani, tutti abbiamo sperato nella svolta, e in effetti molto è cambiato. Ma le mie sceneggiature sono state respinte di nuovo: lo stupro resta un tabù”. Ora lavora a una storia ambientata in una grande vecchia casa che sta per essere abbattuta per fare spazio a un nuovo grattacielo. Un progetto realistico: la vecchia architettura di Teheran è stata quasi cancellata dalla speculazione edilizia.

“Ma l’entusiasmo dei primi anni di Rohani è svanito”, dice. Non accusa il governo: tutti sanno che sono altri i poteri che contano – la magistratura è da sempre roccaforte delle correnti più ortodosse del sistema, come pure la tv di stato e certe fondazioni religiose. Esemplare la vicenda di Telegram, il social network più diffuso in Iran: la magistratura ha deciso di proibirlo, ma il governo si è opposto, e il braccio di ferro è ancora in corso.

“Le pressioni sul presidente sono forti, l’atmosfera è pesante”, dice Zandi. Del resto la censura non è mai scomparsa: i film del regista Jafar Panahi sono proiettati all’estero ma non in Iran, e anche quest’anno non è potuto andare a Cannes per presentare il suo nuovo film 3 faces, selezionato in concorso. Mohammad Rasoulov, a cui di recente è stato tolto il passaporto, premiato due volte al festival francese, resta censurato in patria. Succede anche che un film passi il vaglio della censura e poi non sia distribuito, senza nessun motivo ufficiale. A volte, per incanto si sblocca: nei primi giorni di maggio è arrivato nelle sale iraniane Asabani nistam! (I’m not angry, diretto da Reza Dormishian, 2014), in cui uno studente espulso dall’università per le sue attività politiche si scontra con discriminazioni e differenze di classe. L’autore l’aveva definito “un libero adattamento dall’Iran di oggi”. Presentato al festival Fajr nel 2014, aveva vinto diversi premi internazionali, ma gli iraniani hanno dovuto aspettare quattro anni per vederlo.

Pochi finanziatori
Dove non interviene la censura diretta, operano altre pressioni. Il cinema indipendente stenta a trovare finanziamenti: c’è chi mette mano ai propri risparmi, altri cercano un mecenate. L’Iran ha sempre investito nel cinema. Dopo la rivoluzione, fin dai primi anni ottanta, il ministero della cultura ha sovvenzionato ogni anno decine di opere e una rete di scuole di cinematografia in tutte le province del paese. Negli ultimi tempi anche potenti gruppi economici finanziano il cinema.

Davanti a un cinema di Teheran, il 19 dicembre 2015. - Eric Lafforgue, Corbis/Getty Images

Davanti a un cinema di Teheran, il 19 dicembre 2015. (Eric Lafforgue, Corbis/Getty Images)

“Tanti soldi vanno a film commerciali, commedie di bassa qualità che ammiccano al grande pubblico”, fa notare Babak Karimi, attore e regista con una lunga esperienza, prima in Italia e poi in Iran. “Il rischio però è la superficialità”. “Il cinema iraniano si è conquistato l’attenzione nei festival internazionali perché ha un suo carattere, non è stato fagogitato dalla cinematografia hollywoodiana”, mi dice Reza Kianian, attore che ha esordito nel teatro negli anni settanta ed è approdato al cinema dopo la Rivoluzione, quando una nuova generazione di artisti ha cominciato a rinnovare la scena.

Lo incontro nel piccolo ufficio della direzione del festival che condivide con Fatemeh Mohtamed-Aria. Anche lui parla degli anni bui che pesano ancora: “Nei suoi otto anni di presidenza, Ahmadinejad ha cercato di distruggere il nostro cinema. Non solo ha chiuso il sindacato degli artisti: voleva creare un altro cinema, solo con artisti allineati. Citava le grandi produzioni di Hollywood; pensava che bastasse coprire di soldi i nostri registi per fare film di successo e intrattenere il grande pubblico senza troppi contenuti”. Ma sbagliava, continua Kianian: “Hollywood ha una lunga storia, non basta il denaro per fare un buon film”.

Un film che ha avuto un grosso budget è Tangheye Abu Ghorab (The lost strait, diretto da Bahram Tavakoli, 2018), premiato dall’edizione nazionale del Fajr. Racconta un episodio della guerra Iran-Iraq degli anni ottanta, soldati iraniani al fronte: storia eroica, ben confezionata, con molti effetti speciali. Il film è stato prodotto da una ricca compagnia che mi viene indicata come vicina all’ex presidente Ahmadinejad e ha prodotto anche Be vaghte sham (Damascus time, diretto da Ebrahim Hatamkia, 2018), il primo film iraniano a mettere in scena la guerra in Siria. Il protagonista è il pilota di un cargo iraniano, diretto a Palmira per portare aiuti umanitari, che si butta in una missione quasi impossibile per salvare gli ultimi difensori della città caduta in mano alle milizie dello Stato islamico. Recitazione veloce, scene crude, eroi buoni contro i malvagi. Insomma, due film di propaganda.

Il braccio di ferro sulla censura, un cinema indipendente minacciato dalle produzioni commerciali, la propaganda: una storia che si ripete. Eppure, osserva Kianian, proprio negli anni di Ahmadinejad in Iran è cambiato qualcosa. “Artisti messi all’indice hanno ripiegato sul teatro, spesso organizzando spettacoli in spazi privati, a inviti, così da non dover chiedere permessi, e si sono autofinanziati vendendo i biglietti”. Invece di negoziare con la censura, l’hanno aggirata: “Abbiamo scoperto che si può fare a meno dei finanziamenti di stato, ignorare i limiti della censura e sopravvivere”. Qualcosa di simile è successo nell’editoria e nella musica: libri stampati in proprio e venduti in centinaia di copie attraverso il passaparola o i social network; concerti di musica rock o rap (generi guardati con sospetto dalla censura), o di voci femminili, organizzati nelle sedi di associazioni.

“Negli anni di Rohani gran parte di questa scena è emersa”, spiega Kianian. Parla di 120 nuove gallerie d’arte, di nuovi caffè che sono anche luoghi di incontro, di musica, di letture pubbliche. E di decine di teatri nati a Teheran negli ultimi quattro o cinque anni: piccole sale, a volte in semplici capannoni, che ogni sera si riempiono grazie al lavoro di piccole compagnie. A volte le produzioni indipendenti fanno capolino anche nel “palazzo del festival”, magari tra i cortometraggi. In un paese dove molti temono tempi bui, ma non si rassegnano.

(*) ripreso da “Internazionale”

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