Le scarpe di Totò Riina

Senza dimenticare Dc, Cia e … Dubai

di Saverio Pipitone

Venerdì 17 novembre 2017 alle ore 3,37 nel reparto detenuti dell’Ospedale Maggiore di Parma è morto di vecchiaia e in cattiva salute all’età di 87 anni Salvatore Riina, «u curtu» (1.58), il capo dei capi della mafia siciliana. Da 24 anni era al carcere duro in 41 bis con 26 condanne all’ergastolo per omicidi e stragi.

Al funerale è previsto l’obbligo categorico che zu Totò indossi calzature eleganti, lussuose e lucide. Era ossessionato dalle scarpe da quando nella natia Corleone cominciò l’ascesa criminale con un gruppo di spietati picciotti e i pezzi da novanta palermitani li chiamavano sprezzantemente viddani e peri incritati, per le origini contadine e le scarpe sporche di fango.

«Non capivano con chi avevano a che fare – disse una volta, intercettato in carcere – mattanza di tonni è stata» riferendosi all’eliminazione fisica degli esponenti di spicco della vecchia mafia.

Raffaele Cutolo, fondatore della nuova camorra organizzata, racconta che alla fine degli anni Settanta a un summit mafioso per diffondere l’eroina a Napoli, Riina gli puntò la pistola perché in disaccordo e il camorrista impassibile lo fissò negli occhi dicendo «O spari o ci piscio sopra»; lui ripose l’arma ma Cutolo gli si piantò di fronte, aprì la patta e gli pisciò sulle scarpe: probabilmente le vide sporche (*).

Nel 1982 diviene unico e indiscusso capo della “Commissione” di Cosa Nostra, con il beneplacito della mafia americana. Da quell’anno per Totò solo scarpe costose e lustrate. È considerato un bravu picciuttunazzu imparato alla Mafia e uno come lui, feroce e dispotico, serviva ai poteri forti in Sicilia: Dc e Cia, impegnati nella guerra “fredda” contro il pericolo sovietico. Dicevano che sull’isola c’erano troppi comunisti che scassavano la minchia: dalle manifestazioni per occupare le terre dei feudatari e sedate con la strage di Portella della Ginestra del 1 Maggio 1947 a Peppino Impastato che forse aveva scoperto un traffico di armi della Gladio e fu ucciso il 9 maggio 1978; e a Pio La Torre che voleva colpire i rapporti tra cosche, imprenditoria, banche e politica e venne ammazzato il 30 aprile 1982. Negli anni seguenti i gregari corleonesi proseguirono una lunga serie di esecuzioni di politici, sindacalisti, giornalisti e magistrati, fino ai grandi botti con Falcone e Borsellino.

Totò fece “un ottimo lavoro” e venne premiato. Ne parlò il pentito Leonardo Messina alla Commissione parlamentare antimafia presieduta da Luciano Violante rivelando l’esistenza di una cupola mondiale (a cui Cosa Nostra siciliana apparteneva dal 1980) e di quando una sera nel novembre 1991 era a Pietraperzia, in provincia di Enna, e c’erano tantissimi pacchi di scarpe. Lui chiese: «Cosa c’è, una festa? Mi hanno risposto no, devi essere contento perché Salvatore Riina è stato eletto sottocapo della commissione mondiale». «E le scatole di scarpe?» chiese Violante e Messina rispose: «hanno fatto regali a tutti, meravigliandomi per tutte quelle scarpe di valore».

All’inizio degli anni ’90 cambia lo scenario internazionale con il crollo dell’Unione Sovietica e la vittoria totale degli Usa. Nella roccaforte siciliana non serve più il violento soldato Totò e, dopo 24 anni di latitanza, viene arrestato il 15 gennaio 1993; quel giorno era vestito con calzoni di velluto marroni, giacca a quadri color ruggine, polo verde, sciarpa di cashmere e costose scarpe inglesi.

Il successore Bernardo Provenzano non è da meno in eleganza; lo riferisce il pentito Salvatore Barbagallo che nel 1995 vide il boss e rimase impressionato per le belle scarpe che portava in pelle marrone con un ovale e un’anatra in volo dipinta. Detto «u’ tratturi» o «il ragioniere», per l’indole crudele e nello stesso tempo riflessiva, Provenzano è l’uomo giusto per transitare nella nuova epoca post-guerra fredda e avvia la strategia della “sommersione” per rendere Cosa Nostra invisibile e fare business senza scrusciu cioè rumore. L’11 aprile 2006 è arrestato, dopo 43 anni di latitanza, morendo il 13 luglio 2016 a 83 anni.

Il comando va a Matteo Messina Denaro, detto «u siccu». Latitante da 24 anni, tiene la piovra sommersa con tentacoli che arrivano alla politica, antimafia, finanza e affari, molti dei quali all’estero, con l’ultimo Corleonese che indossa scarpe mafiuse (**) per calpestare le strade di Dubai, Panama, Las Vegas, Montecarlo, Malta e di altri luoghi dove ci sono picciuli.

(*) L’episodio è riportato nel libro «Camorra nostra» di Giorgio Mottola, edito da Sperling e Kupfer, anche se il pentito Franco Di Carlo dice che sono scemenze inventate da Cutolo.

(**) L’etnologo siciliano Giuseppe Pitrè (1841-1916) sosteneva che in Sicilia il termine Mafia esprimeva originariamente l’idea di qualità, bellezza, eccellenza, superiorità e perfezione.

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

4 commenti

  • Sinceramente, che l’unica considerazione sulla morte di Riina siano le scarpe lucide, mi lascia abbastanza basita.
    Nonostante fosse in coma da una settimana non lo hanno fatto vedere ai familiari.
    Il permesso (sbandierato come atto di grande umanità) è arrivato il giorno stesso della sua morte.
    Era un feroce bastardo, un nemico.
    Ma sarebbe stato molto più umano fucilarlo, che farlo vivere 23 anni al 41 bis.

  • ma perché come si dice dalle parte di Palermo
    che non è Corleone …
    certe persone non si comprano ” u parlapicca” che significa- PARLA POCO ?

  • Daniele Barbieri

    Io sono d’accordo con Alexik sulla questione della “non grande umanità” delle istituzioni italiane che (spietate con gli sconfitti e, come sempre, deboli invece con i delinquenti ancora potenti, meglio se in guanti bianchi) hanno aspettato che Riina fosse in coma per concedere un permesso ai familiari. Ma ancora più inumani a me sono parsi quei giornalisti che hanno circondato persone in lutto … per fare cosa? E’ dovere di cronaca filmare l’attesa di una morte o di un’autopsia oppure un funerale? No, il dolore di chi piange merita rispetto e silenzio: chiunque sia il morto (un boia, una star, un emblema di coraggio civile, la persona x) i parenti non dovrebbero essere circondati da avvoltoi che si credono giornalisti. Sono poi gli stessi “operatori dell’informazione” che quasi mai – le eccezioni sono note e spesso isolate dai colleghi – osano parlare di mafia, soprattutto in relazione al livello più alto (dunque le banche e i vertici della politica).
    Capisco meno invece la critica di Alexik sulle “scarpe”: a me sembrava una piccola storia antropologicamente interessante. E capisco zero la mia amica Lella. Oh Lella, con chi ce l’hai? Chi dovrebbe parlare poco? Saverio? Alexik? I media che tanto ormai dicono nulla pur se chiacchierano sempre? O dovremmo ogni tanto tacere tutte/i noi… e FARE invece che dire?

  • domenico stimolo

    Tutti legittimi i pensieri in linea con i valori anti mafiosi. Per restare nel paese di Riina soffermiamoci in particolare a ricordare, tra le tante persone ammazzate dalla mafia a Corleone, Placido Rizzotto – segretario della Camera del Lavoro del paese, partigiano nella Lotta di Liberazione – ucciso il 10 marzo 1948, e Bernardino Verro – sindaco socialista di Corleone, sindacalista per il riscatto dei lavoratori della terra contro i latifondisti, tra i fondatori del Movimento dei Fasci siciliani – ucciso dalla mafia il 3 novembre 1915.

Rispondi a lella di marco Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *