«Le visionarie» cioè “sorelle della rivoluzione”

Fantascienza, fantasy, femminismo: le riflessioni di Bianca Menichelli a proposito di un’antologia

Nessuno rimane impassibile di fronte a quello che legge:

qualche sassolino scivola nella scarpa,

qualche macchia si disegna sul polmone.

Marta SanzBlack, black, black

(Nutrimenti 2013, traduzione di Teresa Cirillo Sirri)

 

Non mi inserisco nel dibattito pubblicato qualche tempo fa su questa bottega, ma penso sia necessario parlare di «Le visionarie – fantascienza, fantasy e femminismo: un’antologia» di Autrici Varie, a cura di Ann e Jeff Vandermeer, Nero 2018 (536 pagine per 25 euro.

Sono stata colpita dalla diversità del titolo, in originale «Sisters of the Revolution» e in italiano «Le visionarie». Non c’è equivalenza fra i due termini. Preferisco il primo.

Nell’introduzione si parla di speculative fiction che è tradotto come narrativa speculativa. Mi sembra un bel modo di definire una narrativa come quella che ci viene proposta in questa antologia. C’è da sperare che la locuzione si affermi sostituendo la comoda ma logora e spesso deviante definizione di “fantascienza”.

Accingendomi alla lettura – senza saltabeccare da un racconto ad un altro a seconda dell’autrice più o meno conosciuta, ma infilando una dietro l’altra le perle per comporre la collana per pari dignità – ho cercato il fil rouge che unisce. A mio parere non è definito da «fantascienza, fantasy, femminismo» tanto meno da «antologia». E’ la parola: in principio era il verbo ma anche il sostantivo, l’aggettivo, il verbo e a seguire il resto.

Non a caso, il primo racconto si intitola «Le parole proibite di Margaret A.» di L. Timmel Duchamp (del 1980, traduzione di Gaja Cenciarelli). Una donna – forse Margaret Atwood come è stato ipotizzato? – è reclusa in un carcere di estrema sicurezza, dove per estrema si intende che da parte dello Stato è stato varato un emendamento costituzionale, «l’Emendamento Margaret A.» perché le sue parole devono essere cancellate: “per sicurezza” ça va sans dire. Una giornalista riesce a ottenere un’intervista in carcere ma.. «avevo realizzato l’unica aspirazione della mia vita, e ora era finita. L’intervista era stata una delusione e il futuro aveva l’aspetto di una parabola discendente grigia, smorta, senza senso…. E’ mia convinzione che le parole di Margaret A. siano state proibite per via del loro potere di mostrarci il mondo com’è davvero… Grazie a Margaret A. ora vado cercando a tentoni quei paraocchi che hanno ristretto e oscurato la mia vista, per potermeli strappare di dosso e vedere un mondo più vasto e luminoso di quanto abbia mai sognato». Scritto con rigore giornalistico, non dice quali siano le parole proibite; ognuno potrà ricercarle per proprio conto, sostituendosi a “Margaret A.”.

Ah, la potenza delle parole!

Mettendomi nei panni di Pollicino, cerco nel secondo racconto «Le mie mutandine di flanella» di Leonora Carrington (1988, traduzione di Francesca Matteoni) la parola chiave e la trovo in «prigione». La voce narrante ne è uscita e il governo le ha regalato un’isola, lo spartitraffico di un viale affollato, dopo che il suo Volto è scivolato dal suo «ormeggio osseo, lasciandomi disperatamente aggrappata a una maschera grigia e molle sopra un corpo agonizzante». I corpi sui quali i volti sono “indossati” fungono solamente da zavorra. Una prigione diversa, si può dire metafisica? Questo racconto breve è folgorante ed è consigliabile rileggerlo per trovare un’ulteriore chiave di lettura. Potrebbe far venire in mente Réné Magritte, o chissà.

Mi avvicino al terzo racconto «Le madri di Shark Island» di Kit Reed (1988, trad. Clara Miranda Scherffig) e qui un’apoteosi. Il mio primo appunto a margine dice “Il conte di Montecristo” essendo stata tratta in inganno dall’accenno iniziale al Chateau d’If, ma gli altri (appunti) definiscono meglio: maternità come ergastolo, una pena da scontare.

«A differenza della polmonite, la maternità è una condizione irreversibile». Un lessico familiare con punte aspre di ricordi di quotidianità che determinano una disperazione senza fondo; di ieri, oggi e domani. Può lasciare senza fiato; ma poi la scrittura insiste perché lo si riprenda, questo fiato, per vivere amando «Oh amore mio, figlia mia, mio passato e futuro. Qualsiasi cosa per te».

Dopo il dolce quarto racconto «La bandita delle palme» di Nnedi Okorafor (del 2000, traduzione di Chiara Reali) in cui la nonna parla alla nipote della bisnonna Yaya, spirito libero, ecco la seconda apoteosi in «Le cinque figlie della grammatologa» di Eleanor Arnson (1999, trad. Tiziana Mancinelli).

La dote che la grammatologa offre alle sue cinque figlie prima di mandarle ai cinque angoli del mondo è il linguaggio; alla prima offre i sostantivi, alla seconda i verbi, alla terza gli aggettivi, alla quarta gli avverbi, alla quinta le preposizioni. E così formatisi i cinque Paesi (Cositudine, Cambiamento, Raffinatezza, Varietà, Relazione) si formò un impero che si chiamò Cooperazione. «La bandiera della nuova nazione era una formica sotto un sole giallo brillante. A volte la creatura teneva uno strumento: una cesoia, una falce, un martello, una spatola o una penna… Sotto c’era sempre il motto della nazione: CON». Entusiasmante oltre che estremamente attinente (o pertinente, fate voi).

Con «E Salomé danzò» di Kelley Eskridge (del 1994, traduzione di Cristina Verrienti) il regista, che esige il sottotitolo «Identità e desiderio» confessa che «le parole del copione mi colpiscono come una visione sfuggente, scavando la pagina nella pelle, spingendo il sangue e i nervi fino al limite di scoppiare nel viaggio verso il mio cervello. Il teatro migliore è dentro di noi». E tutto alla fine si compirà. La vita come teatro-spettacolo e viceversa in un continuo cambio di prospettiva. O forse come un’interfaccia?

Consapevole di avere suscitato curiosità ma nel timore di togliervi le molteplici sorprese che questa antologia riserva, aggiungerò solo qualche annotazione per scoprire se quel fil rouge di cui si parlava all’inizio continua oppure se è solamente un trompe-l’oëil per confondere il colto pubblico.

«La sposa perfetta» di Angélica Gorodischer (1991, trad. Clara Miranda Scherffig) la dice lunga su quel perfetta del titolo. A me ha fatto venire in mente Giuditta e Oloferne. «Qualsiasi porta può condurre da qualsiasi parte». A voi scoprire perché.

Procedendo a passo spedito, senza perdere di vista le bricioline sparse sul cammino, ecco che ne «Il trucco della bottiglia» di Nalo Hopkinson (2000, trad. Claudia Durastanti) c’è una bella versione di Barbablù in salsa caraibica che ha nel suo incipit un «tempeste riluttanti a scoppiare» a mio parere incantato. E a proposito di Barbablù ecco tornare alla memoria «La camera di sangue» di Angela Carter (The Bloody Chamber and Other Stories, 1979). Ritroveremo Carter anche in questa antologia ma non voglio derogare dalla regola che mi sono data, niente avanti e indietro, solo pagina dopo pagina.

Quindi James Tiptree Jr – ovvero Alice Bradley Sheldon – con «La soluzione della mosca» (del 1977, traduzione di Livia Franchini) propone un’agghiacciante visione: il femminicidio come mezzo per gli uomini per offrire a Dio un mondo pulito. L’uomo deve liberarsi dalla sua parte animale, cioè la donna. Alleluja. «Il cardinale Fazzoli, portavoce del Movimento paolino europeo, ha asserito… che le donne non sono mai descritte come esseri umani ma come espedienti temporanei o stati di transito». Vi suona qualche campanello? Da sottolineare la data in cui questo racconto è stato scritto, 1977, e sotto pseudonimo maschile. Riflettere, oggi, nel 2018.

«Le sette perdite di Na Re» di Rose Lemberg (2012, trad. Tiziana Mancinelli) ci riporta al linguaggio che per difesa deve essere «strappato via». Ma «solo ciò che non viene ricordato non può mai essere perduto». Due negazioni che si elidono.

Octavia E. Butler, scrittrice amatissima, ci regala «La sera, il giorno e la notte» (del 1987, traduzione di Veronica Raimo) in cui il riferimento all’AIDS di quegli anni è evidente, ma con una speranza. Il DGD è un morbo che porta all’autodistruzione chi ne viene colpito ed è trasmissibile geneticamente; la cura è la donna? L’autrice ha scritto una postfazione per spiegare come abbia creato questa fantasia (?) partendo da basi scientifiche, offrendo una bibliografia «non convenzionale». Interessante.

«Il sonno delle piante» di Anne Ritcher (1967, trad. Claudia Durastanti) parte da una prospettiva “aliena” e arriva a una conclusione altamente umana. E non è poco alla luce della tematica affrontata, cioè la vita di coppia. Happy end assicurato.

Probabilmente agganciando per assonanza quest’ultimo racconto a «Gli uomini che vivono sulle piante» di Kelly Barnhill (del 2008, traduzione di Emmanuela Carbé) i curatori compiono un’azione audace che si dispiegherà nel successivo racconto. Ma tutto a suo tempo, per chi sa seguire le tracce.

Ci si chiede: perché gli uomini che vivono negli alberi non hanno una lingua ufficiale? Qual è il loro linguaggio? perché solo gli uomini? e le donne? Ci sono, oh se ci sono!

Ed ecco «Racconti dal seno» di Hiromi Goto (1995, trad. Claudia Durastanti) che a stare alla mia personale classifica ha meritato alla fine un punto esclamativo. Sì, perché oltre a descrivere quello che tutte le madri hanno passato nei primi giorni dopo il parto, la conclusione è quella che tutte (e sfido chiunque a dire il contrario) hanno/abbiamo anche inconsciamente sognato/sperato. Una risata vi seppellirà.

Ed ecco la meravigliosa, splendida Angela Carter – quanto ci manchi! – che con «L’ascia omicida di Fall River» (del 1981, traduzione di Gaja Cenciarelli) fornisce una descrizione della vicenda di Lizzie Borden ben diversa dall’iconografia ufficiale, partendo da un’etica protestante che distorce sentimenti, umanità, sensibilità imprigionandoli per dare all’apparenza la sostanza della vita.

Parole domestiche all’apparenza semplici per una costruzione letteraria di altissimo livello che fa bene ai neuroni e anche alle sinapsi. Oltre che alla prospettiva. Una prospettiva che si sta allargando per non perdere le bricioline, le parole chiave, il fil-rouge. Grazie, Angela.

A seguire «L’amore e il sesso tra gli invertebrati» di Pat Murphy (1990, trad. Nicoletta Vallorani) o dell’evoluzione ai tempi del disastro: dagli scorpioni ai robot, senza passare dall’homo sapiens. «Ieri, quando le bombe sono cadute e il mondo è finito, ho smesso di riflettere scientificamente… I dinosauri e gli umani… il nostro tempo è terminato. Arrivano nuovi tempi, nuovi tipi di amore». Senza parole.

Parole, tante e sovversive le ha Joanna Russ in «Quando cambiò» (del 1972, traduzione di Oriana Palusci). Joanna, nessuna sorpresa da te. Su Whileaway, pianeta abitato da sole donne (ma non donne sole!) arriva un uomo che annuncia il ripristino della parità sessuale sulla Terra e chiede di commerciare con le donne con scambio di idee, geni, istruzione. E gli uomini arrivano, ma «fra cent’anni le mie pro-pronipotine sarebbero riuscite a sconfiggerli». Joanna, se non ci fossi dovremmo inventarti!

Una prospettiva alquanto affascinante la offre Vandana Singh con «La donna che si credeva un pianeta» (2003, trad. Sara Marzullo): Kamala annuncia al marito che finalmente sa cos’è, un pianeta. «Essere un pianeta fa bene. Ho smesso di prendere le medicine per il fegato». E inizia l’odissea del marito «Tu non sei un pianeta, sei un essere vivente, una donna. La padrona di una casa rispettabile, che nelle sue mani custodisce l’onore della propria famiglia». Attento, Ramnath Mishra, non sai cosa ti aspetta! Deliziosa prosa per un poetico rovesciamento di ruoli: l’uomo da stella diventerà satellite.

«Jestella» di Susan Palwick (del 2001, traduzione di Chiara Reali) pone un interrogativo emblematico: cosa vuol dire una doppia natura? Essere umana (Stella) e lupa mannara (Jessie) richiede la capacità di imparare a stare nella società degli uomini (e donne) con l’istruzione, la curiosità, la voglia di far felice chi conosci e ami, difendersi dalle trappole; lo stesso essere lupa, ancorché mannara. Non ci sono confini, al termine della parabola vitale di Jestella, la lupa si ricongiungerà con l’altro da sé, l’umana, per mezzo di una parola, il nome: “Stella”.

«I ragazzi» di Carol Emshwiller (2003, trad. di Marta Maria Casetti) sottolinea senza fraintendimenti l’allucinata pazzia della guerra. «Abbiamo dimenticato il motivo per cui facciamo la guerra». Con il racconto di un comandante di un’imprecisata armata di ragazzini si delinea un mondo nel quale il tempo è scandito solo da battaglie per rapire alle madri sempre nuovi bambini da addestrare per la guerra contro imprecisati nemici che si comportano allo stesso modo. Ma poiché c’è sempre bisogno di rimpiazzare i bambini che muoiono negli scontri è necessario ingravidare continuamente le donne che comunque non rinunciano a combattere per difendere i loro figli. E così via, in una eterna battaglia che produce morti, feriti e sempre nuovi nati. Come in un gioco di specchi nessuno saprà se ha ucciso anche suo figlio, forse rapito dall’esercito avversario. Senza nessun obiettivo finale se non la consapevolezza che «piacciono le bandiere, i tamburi e le urla di guerra».

Ma per fortuna ecco «Strategie stabili per manager di fascia media» di Eileen Gunn (del 1988, traduzione di Livia Franchini): un po’ Kafka (un Gregor Samsa consapevole) e un po’ lupo di Wall Street. «..l’opzione n.2 Insetto dovrebbe trasformarmi in un competitor di successo per la fascia media di management…».

Zoologia e marketing, parole passepartout. Trent’anni fa. Figuriamoci oggi.

Tanith Lee in «La regina mangia la torre» (1979, trad. Silvia Costantino) non tradisce la sua vocazione letteraria: fantasy pennellato di leggera fantascienza e qui siamo, unico esempio di quest’antologia, nel settore un po’ deprecabile dei generi. La parola chiave è, opportunamente, donna o meglio «alcun uomo potrà conquistare questo luogo». E così è.

Il racconto successivo «Zie» di Karin Tidbeck (del 2011, traduzione di Veronica Raimo) introduce un tema poco presente in questa antologia, il tempo. Zie e Nipoti in versione Hansel e Gretel intente a operazioni teneramente splatter, ossimoro ineludibile per questo (morbido) racconto, aspettano Nipoti e Zie ogni volta rigenerantesi. «In certi luoghi, il tempo è un fenomeno debole e occasionale. Se non c’è nessuno a dichiarare il suo scorrere, potrebbe non scorrere affatto o solo in parte; gli eventi si arrovellano su se stessi creando cerchi e spirali».

Rullo di tamburi, arriva Ursula K. LeGuin con «Sur» (1982, trad di Roberta Rambelli alla quale rivolgiamo un pensiero riconoscente) ovvero «Rapporto della Spedizione Yelcho al circolo polare antartico, 1909-1910». Donne che sperano di «vedere un po’ di più; se no, andare e vedere, semplicemente». Eccolo, cara amica Ursula, l’avverbio illuminante: «semplicemente». E ripeti, se ce ne fosse bisogno «Donne con un’ambizione molto semplice, credo, e sostanzialmente modesta». No, né semplice né modesta. E’ l’essenza stessa della vita. Vedere, conoscere, comprendere, senza alcuna pretesa e gerarchia. «Non lasciammo neppure le nostre orme, tanto». Grazie ancora una volta, Ursula.

«Paure» di Pamela Sargent (del 1984, traduzione di Gaja Cenciarelli) descrive un incubo con il quale l’universo femminile sembra dovere ancora saldare i conti: un mondo esclusivamente maschile – speculare a quelli di Joanna Russ – dove le donne devono travestirsi da maschi per uscire dai loro nascondigli e pagarsi un accompagnatore per andare in città. Materie di discussione: il travestitismo, la transessualità, l’omosessualità maschile, l’utero artificiale, la necessità di non far estinguere la specie perché «abbiamo bisogno di più militari .. e di polizia, per l’alto tasso di criminalità attuale». Una contraddizione in termini che continua a riguardarci.

Con «Deviazioni nel cammino verso il nulla» di Rachel Swirsky (2008, trad. Veronica Raimo) è bene iniziare dalla fine: «Che cos’è una fantasia? Un frammento di te stessa trasformato in carne». Da qui risalire, come un salmone, la corrente per non essere «così vicina al nulla totale».

I fuochi d’artificio si scatenano nel penultimo racconto «Tredici modi di concepire lo spazio-tempo» di Catherynne M. Valente (del 2010, traduzione di Chiara Reali). Ed eccolo, il numinoso «In principio era il Verbo. E il Verbo era con Dio e il Verbo era una singolarità pre-bariogenesi ad alta densità». Che avevo detto? Soggetto, predicato verbale, complemento oggetto. Tutto si tiene. Ma sentite questo: «Una figura d’interferenza si parò dinanzi a Eva sotto forma di Serpente e, avvolgendola nelle sue spire di materia e antimateria, disse:”mangia dall’albero della Meiosi e i tuoi occhi si apriranno”. Eva ribatté che non voleva rompere il patto con Dio ma il Serpente le rispose: “non temere, poiché galleggi su una schiuma stocastica di gravità quantistica e da un unico morso scaturirà un inesorabile evento d’inflazione e diverrai uguale a Dio e ti espanderai in eterno”». Questo è solo il primo dei tredici modi di concepire (rigorosamente nelle due accezioni) lo spazio-tempo. A scoprire gli altri dodici, sembrerà di vivere su una ruota panoramica che gira all’infinito.

L’ultimo racconto, il numero 29, «Casa sul mare» di Elisabeth Vonarburg (1985, trad. Clara Miranda Scherffig) ci riporta a terra, verso casa, agli affetti consueti con qualche effetto altamente distorsivo: la terra (Terra?) è stata contaminata da una guerra con i misteriosi Eschatoï, la protagonista è un artefatto, anche se ha un ombelico, che sta andando a trovare sua madre: Madre, creatore, produttore? I ricordi, la memoria artificiale? La casa come valanga di ricordi, veri? La Madre, che non ha avuto il coraggio di rivelarle la verità? I capelli imbiancati, le rughe, è vecchia e stanca. «Tu sei nata, il fatto che sia successo in laboratorio non cambia nulla. Sei cresciuta, hai fatto i tuoi errori e ne farai ancora. Pensi, senti, scegli. Cosa vuoi di più? Sei un normale essere umano..».

«Sono stanca, figlia mia… Vado a riposare un po’».

«… Figlia mia mi si è conficcato da qualche parte in mezzo al petto…. Sventolo un braccio, grido: tornerò, Madre! Rido e le mie lacrime si confondono col mare».

Non lineare, come non lineari i sentimenti umani ma proprio per questo umani.

Qui termina l’avventura de «Le visionarie», antologia non di fantascienza, di fantasy e femminismo, ma delle donne e delle loro parole, della forza delle loro parole, della rivoluzionaria forza che contraddistingue questi racconti e molti altri che qui non sono presenti ma che ci si augura seguano presto.

Da leggere con interesse è la postfazione «Gli universi possibili» di Claudia Durastanti e Veronica Raimo, dove si sottolinea ad esempio l’interesse sempre crescente verso una letteratura che ormai ci rifiutiamo di chiamare “di genere”, lasciando alle spalle classificazioni e classifiche obsolete.

Una riprova è venuta alle curatrici italiane dell’antologia dall’entusiasmo con il quale autrici, traduttrici e accademiche hanno risposto alla richiesta di tradurre i racconti. A loro vanno il riconoscimento e il ringraziamento per avere reso accessibili mondi diversi, ma, come dicono le curatrici, possibili. Onore al merito.

 

Redazione
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