Leggere “Carcajada profunda y negra” nell’era della paranoia social

C’è stata, nemmeno tanto tempo fa, un’epoca in cui in ambiti intellettuali di movimento era possibile diffondere ricostruzioni diverse da quelle ufficiali, anche quando si trattava di terrorismo e di grandi poteri capitalisti.
Poi sono arrivate le fake news, i gomblotti e gli antibufalari di professione; la derisione e l’odio bipartisan per il diverso per razza o stile di vita; il binarismo delle posizioni e l’alternanza dei due nazicapitalismi; l’ossessione per il terrapiattismo e altre notizie pompate ad arte per deviare e mistificare i dibattiti scomodi; l’invenzione in laboratorio, da parte di novelli Mengele virtuali, di una maggioranza pro tav, pro tap, pro vax, maggioranza che prima non si era mai occupata di nessuno di questi argomenti (tav, tap, vax); l’invenzione in laboratorio di una sinistra geneticamente modificata edificata sui simboli del passato; l’interiorizzazione di un tecnicismo rudimentale, acefalo e acritico innalzato a verità scientifica assoluta da parte della maggioranza schiacciante della popolazione.
È  arrivata, insomma, la nuova fase più profonda di quella rarefazione della realtà già intravista da molti intellettuali, di movimento o meno: la fase della paranoia social.
Abbiamo tuttavia reperti di quel periodo passato, reperti di inizio millennio, a volte macabri e crudi nella loro insolenza, anche nei confronti della morte.
Questi reperti potevano a volte, per ipotesi, riportare ricostruzioni verosimili e plausibili.
E potranno farlo in futuro, quando i posteri usciranno da questa paranoia e ricominceranno ad abitare la Terra reale.
Gianluca Ricciato

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Carcajada profunda y negra 

DI WU MING 1

Non rido della morte.

Ma qualche volta ho sete

e chiedo un po’ di vita,

a volte ho sete e ogni

giorno faccio domande e, come sempre

accade, non ottengo risposte

ma una sghignazzata profonda

e nera.

da Elegia di Javier Heraud (1942-1963)

 

 

A fatica, il cronista aggiustò la faccia di circostanza, si mise di fronte alla telecamera e disse:

– Sono le due di notte e qui a Bologna, sul luogo del brutale omicidio, c’è ancora molta gente, commossa e costernata.

Un attimo prima il cameraman aveva pregato gli astanti di smettere di sghignazzare e dire idiozie, per non rovinare l’audio-ambiente: – Per favore, noi stiamo lavorando… Ci bastano trenta secondi, per favore…

Questo fu circa tre ore dopo la scena degli sbirri che si mettevano le mani nei capelli e si davano di gomito, espressioni disgustate, sguardi oltre la transenna:

-Minchia, stanno facendo un mer-da-io!
Sbirri rigorosamente fuori servizio, in borghese, erano lì come curiosi e ci dicevano:

– Ragazzi, purtroppo non hanno chiamato noi. Completamente esautorati. Ho fatto vent’anni alla Scientifica, e vi dico che quelli là non stanno facendo dei rilievi: stanno facendo un puttanaio. E’ mezz’ora che vanno avanti e indietro, calpestano, toccano, spostano, e non hanno ancora fatto i segni coi gessetti!

“Quelli là” erano i carabineros. Da lì era partita una salva di commenti e freddure:

– Due in borghese lo freddano, gli altri in divisa insabbiano.

– Per eccesso di zelo Magoni ha dato la notizia un minuto prima dei fatti.

– Maccanti di AN è andato a parlare con la polizia.

– Mo soccmel, s’è già costituito?

– C’è già stata una rivendicazione?

– Non so, qualcuno nominava i Boys Nerazzurri…

La mia dichiarazione a un quotidiano di sinistra fu: – La cultura di questo paese è intossicata dai revival e dal loro incontrollabile susseguirsi. Si è cominciato con l’easy listening degli anni ’60, ripesca questo e ripesca quello, e riecco la strategia della tensione. Sicuramente una parte di responsabilità ce l’ha la “Notte Vidal” del Link. E’ altresì impossibile non menzionare l’eterno e invariabile DJ set di Moreno Spirogi nel privé del Millenium.

Nessuno, ma proprio nes-su-no, credeva alla finta resurrezione di una brigata rossa telecomandata. Non tre giorni prima della più grande manifestazione antigovernativa della storia italiana e due settimane prima dello sciopero generale. Un copione già recitato mille volte. L’effetto comico più immediato è proprio quello dato dalla reiterazione, e nell’aria c’era molta ilarità. La gente formava capannelli, faceva gara di cinismo, si contava i peli sullo stomaco ed esplodeva in cachinni ominosi. Il giorno dopo ne avremmo sentite di tutti i colori, dai leader politici e dalle pecore Dolly dell’opinion making. Senzanome 5 aveva già uno slogan per la probabile “mobilitazione contro il terrorismo”: TUTTI UNITI CONTRO NESSUNO. Ma lì nell’ex-ghetto ebraico di Bologna,  manovrando una contraerea di scempiaggini e giochi di parole, già affermavamo la completa separazione tra paese ufficiale e paese reale.

Ad un certo punto sintetizzai il concetto:
– In questo paese una strategia della tensione può seminare zizzania, ottenere qualche risultato sul breve termine, ma sul termine medio-lungo non funziona, e per un semplice motivo: metà dei destinatari del messaggio non ci casca, sappiamo già come funziona; l’altra metà ha il cervello ingolfato di merda e non è in grado di cogliere i riferimenti. Insomma, compagni, siamo in una botte di ferro!

L’ultima parte del discorso traeva spunto dal seguente brandello di conversazione:

– Secondo me sono stati degli immigrati clandestini.

– Ma no, che cazzo dici, quelli non c’hanno mica i silenziatori!

– Ah, già, non ci avevo pensato…

Questo l’aveva captato Gaetano mentre io facevo l’asino con le fighe. Eravamo tutti molto in forma, qualche centinaio di persone all’incrocio tra via Valdonica e via dell’Inferno, dalle nove di sera fino alle tre di notte, come fosse un’ipertrofica happy hour. Era l’inizio della primavera, dai colli scendeva odore di camecèrasi, i ferormoni provocavano una certa tirella e a nessuno pareva strano cercare da chiavare in una simile circostanza.
Gaetano aveva detto: – E’ incredibile, quando vado a prendere l’aperitivo vedo solo musi lunghi e c’è un’atmosfera funebre, poi ammazzano uno e viene fuori l’appuntamento più socializzante dell’anno. Capace che tra qualche anno diremo frasi tipo: “E’ un mio carissimo amico, l’ho conosciuto all’omicidio di Biasi!”

Se ci ripenso, alcune delle mie migliori battute di sempre e degli aforismi più arguti di Senzanome 5 vennero fuori sulla scena del delitto Biasi.

Dicevo,  alla pista BR non ci credeva nessuno, ma proprio nes-su-no.

Fatta eccezione per il professor Boncaga, l’unico disposto a farsi intervistare da qualunque mezzo d’informazione. [Lo scrittore Lou Carelli, saggiamente, si era allontanato prima che i cronisti lo braccassero, dopo aver fatto brevemente capolino e smozzicato poche parole.] Ogni tanto mi capitava di passare vicino a Boncaga, illuminato dai fari delle tivù, e lo sentivo pontificare: – …e’ il pevcovso stovico delle bièvve, colpive i collettovi, i mediatovi, pev esaspevave le vevtenze e vetvoagive…

Senzanome 5 aveva detto: – Ma perché Boncaga rilascia dichiarazioni a botta calda? Sta dicendo una marea di cazzate.

Non ricordo chi gli rispose: – Perché, a botta fredda cambiava qualcosa?

In ogni caso, pensavo, queste “nuove” BR andavano identificate non in base agli intenti bensì ai risultati. Erano in ogni caso e oggettivamente un’appendice del regime, che lo volessero o meno.
Qualcuno disse: – BR o carabineros che differenza c’è? E’ probabile che un BR su due sia un carabinero infiltrato.

– Perché, l’altro no?

Qualcun altro descrisse un ambiente politico-criminale osmotico,  ai cui piani alti non c’era più bisogno di impartire ordini diretti: una polifonia di allarmi ed evocazioni da parte di menagrami autorizzati era sufficiente a “suggerire” modalità e obiettivi. Un quotidiano pubblicava la lettera aperta di un ex-presidente della repubblica, un anchorman televisivo faceva da cassa di risonanza, da più parti si cominciava a dire: – Tra un po’ tornano i terroristi. Avete capito? Tra un po’ tornano i terroristi. Avete capito? – Qualcuno capiva, ed eseguiva.

Ricordo di aver parlato molto, e detto cose più o meno intelligenti sulle tensioni tra polizia e carabineros, sull’informativa dei servizi segreti pubblicata da un noto rotocalco, sul perché colpire proprio Bologna (usai la parola “laboratorio”, ma non ricordo a che proposito), sul perché in Italia la guerra civile non fosse “strisciante” bensì “rampicante” etc.
Finché non mi venne in mente una cosa, ma è meglio che la dico dopo.

Quel martedì sera era in programma l’attacchinaggio per la prima presentazione pubblica di 666, il nostro nuovo romanzo. Eravamo appena entrati nella classifica (peraltro poco attendibile) di un noto quotidiano, e scherzando avevamo detto:

– Ora scatta la strategia della tensione. Faranno di tutto per non lasciarci detronizzare  Sboriana Fallacci.

[Più o meno nello stesso momento, il nostro amico Dando prendeva un caffè al bar, apriva “Il Sole 24 ore”, leggeva l’editoriale di Biasi sull’art. 18 e sbottava: – Stu chì l’è propria un pez ad merda, dio maial, i’n l’à da cupàr un ad sti dì! Son cose che si dicono tanto per dire, poi sei lì davanti alla tv e…]

Le edizioni straordinarie dei tigì interruppero i film di prima serata (“Camicia nera” e “Suss l’ebreo”) quando stavamo per uscire e raggiungere il TPO. Dovevamo arrotolare i manifesti, fare la colla, dividerci in due squadre e uscire. Il mio coinquilino De Joint ricevette una telefonata: – Hanno fatto fuori il braccio destro di Magoni, vicino a Piazza S. Martino! Due in moto! Accendi la tele!

Lo speaker del TG disse testualmente:

– Il centro di Bologna è completamente chiuso dai posti di blocco delle forze dell’ordine, gli attentatori potrebbero ancora trovarsi nel perimetro dei viali di circonvallazione.

Come se i viali fossero una specie di recinto. Mi parve una cazzata ciclotronica, così uscii, presi la macchina e girai per la città. Non c’era l’ombra di uno sbirro. Nessun cazzo di posto di blocco. Nessuno mi fermò. Sembrava una cosa detta apposta per non far uscire la gente di casa. Ma la gente era già fuori di casa, perché era una splendida serata. Davanti ai pub di via Zamponi, nugoli di maragli berciavano in totale abbrutimento, ingurgitavano cervogia, blateravano di telefonini, pregavano il dio dei falliti perché trovasse loro un poco di patonza.

Mi trovai con gli altri e discutemmo sul da farsi: attacchinare era troppo rischioso, pensavamo (del tutto a torto) che le forze dell’ordine fossero sotto pressione e che nel profondo della notte avrebbero avuto il prurito al grilletto. Nessuno di noi voleva finire nelle statistiche dei morti da legge Reale. Meglio rimandare. Fu così che ci dirigemmo verso via Valdonica, luogo dell’assassinio. Mario Biasi, giurista del lavoro e teorico dei licenziamenti indiscriminati, era stato ucciso mentre rientrava a casa in bicicletta. Mi venne in mente che in inglese “to fire” significa entrambe le cose: licenziare e sparare.

C’era tutta la Bologna Social Enclave, pazienti e psichiatri. Al momento dell’uccisione, in città si svolgevano svariate assemblee e iniziative culturali. Tutti erano accorsi, forse  nelle intenzioni c’era una sorta di “veglia laica”, o di “presidio democratico”. Di sicuro non una happy hour. Ebbero un ruolo importante gli alcolici: il Fuetazo Café era lì a due passi e le staffette non mancavano. C’erano romanzieri (Carelli, Micosi, Cazzivari, Barbastelli), DJ, biassanott dai nasi purpurei, madamigelle di varie volumetrie, cronisti svogliati, istrioni e mattatori da aperitivo. Continuava ad aggiungersi gente. Un ubriaco latinoamericano urlava: – Muchedumbre, muchedumbre! ¿A cuántos estamos hoy?

Era la notte tra il 19 e il 20 marzo 2002. Nessuno, ma proprio nes-su-no dei presenti s’indignava per le risate e i calembours. Segno dei tempi, tutti capivano la sfida dal basso alla retorica ufficiale. Davvero non ci cascavamo più, da un pezzo eravamo evasi da musei delle cere e annate di piombo. Dovevano inventarsi qualcosa di peggio, se volevano frenare la spallata delle moltitudini al regime del meso-impero.

Qualcosa di peggio.

Finché non mi venne in mente una cosa, anzi, diverse cose. Quegli schiamazzi notturni erano sotto le finestre di una famiglia che aveva appena subito un atto di barbarie. Biasi aveva 52 anni e due figli, esattamente come mio padre. Al di là delle transenne, da poco dopo l’attentato, era transumata un’intera mandria di politici e mezzi cartucci istituzionali, tutti lì a testimoniare “il loro cordoglio”. Di colpo, moglie e figli erano ascesi a un calvario di lutto, incertezza per il futuro, sovraffollamento, sudaticce strette di mano, telegrammi presidenziali, qualche giorno di molestie da parte della stampa e poi l’oblio. Orecchie tappate per lo sbalzo di pressione. Singhiozzo. Pensai a un regime criminale disposto a un numero indefinito di sacrifici umani pur di sopravvivere. Mi corsero alla mente le scene di mattanza in Goodfellas e Casinò.

[Il giorno dopo il mio amico Marmellone avrebbe urlato in un microfono, di fronte a diecimila persone: – Noi eravamo in totale disaccordo con Mario Biasi, e vogliamo dire: lo hanno ucciso proprio per impedirci di essere in disaccordo con lui!]

Guardai le finestre di casa Biasi. In quel momento, strano a dirsi, i miei pensieri confluirono in una sorta di orazione.

Mario Biasi, ci dispiace.

Ci dispiace per te.

Ci dispiace per la tua famiglia.

Ci dispiace per i tuoi amici.

Ci dispiace per la bella stagione che hai fatto appena in tempo ad annusare, per le gite fuoriporta che non potrai più fare.

Ci dispiace per la tua fiducia malriposta nell’ideologia liberista e in un regime che ti ha fatto o – nella migliore delle ipotesi – ti ha lasciato uccidere.

Ci dispiace per quella moltitudine di persone che voleva combattere a viso aperto te e quello che sostenevi. 

Ci dispiace.

Ma nessuno può pretendere che ci uniamo alla tua santificazione.

Nessuno può pretendere che di te ci importi davvero, al di là del cliché sulla campana che suona: se suona per tutti, è come se non suonasse per nessuno. Contestiamo il pensiero unico del lutto imposto dall’alto e vogliamo essere liberi di dire che non tutte le morti ci diminuiscono.

Nessuno può pretendere dai lavoratori che rimpiangano davvero chi teorizzava e consigliava contro di loro.

Ragion per cui, d’accordo, ti chiediamo scusa per l’umor nero sotto le tue finestre, e ti chiediamo scusa per las carcajadas.

Ti chiediamo scusa, ma tiriamo innanzi per la nostra strada.

 

Verso l’alba, con un’amica, raggiunsi un’edicola poco distante. Comprammo i giornali per ubriacarci di una coralità simile a quella richiesta dagli animatori dei villaggi turistici: riflussi condizionati e psicologia delle folle. Guy De Bortoli, direttore del principale quotidiano italiano, stabiliva consunti collegamenti – ponti di corda mangiati dalle tarme – tra l’attentato e il movimento. Alludeva al fatto che le commemorazioni per il 25ennale del ’77 fossero andate sopra le righe, risvegliando chissà quali “dormienti” della lotta armata. A parte quello, tutti si contendevano la salma: Buselli definiva Biasi, ossimoricamente, “un socialista coerente”; il cardinale Beffa lo diceva “un figlio della Chiesa”; qualcuno si riferiva a lui come a “un compagno”. Mancavano solo i monarchici e Scientology.

Pensai a Vogliamo i colonnelli, con l’immortale Ugo Tognazzi.

Chissà perché, pensai al killer maldestro di Mulholland Drive.

Pensai a coups de théatre che non stupivano nessuno.

Infine, pensai ad altro.

No (c), Wu Ming 1, 20-21 marzo 2002

 


Ripreso e scaricabile da questo link:

Carcajada profunda y negra un racconto di Wu Ming 1

More contents:

Selezione di lettere dei /giapsters/ a proposito di Carcajada profunda y negra e relativo “scandalo”, 23-26 marzo 2002

Gianluca Ricciato

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