L’esercito italiano a Mosul fa da scorta a un’azienda privata?

di Marina Forti (*)

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   La diga di Mosul, nel nord dell’Iraq, il 3 febbraio 2016. (Azad Lashkari, Reuters/Contrasto)

 

A nord della città di Mosul, nell’Iraq settentrionale, nel corso dell’estate è stato schierato un contingente di militari italiani. Ma l’offensiva per riconquistare la città irachena non c’entra.

Mosul, sul fiume Tigri, 1,7 milioni di abitanti, è occupata dalle milizie del gruppo Stato islamico (Is) dal giugno del 2014 ed è la più importante città irachena ancora in mano ai ribelli. L’offensiva delle forze governative e dei soldati peshmerga (le forze armate del Kurdistan iracheno), con l’appoggio di una coalizione internazionale di cui fa parte anche l’Italia, è cominciata la seconda metà di ottobre.

In questo caso però parliamo della diga di Mosul, che si trova circa quaranta chilometri a nord della città omonima. Il primo gruppo di soldati italiani è arrivato a maggio per cominciare a costruire l’accampamento; a settembre erano circa trecento soldati ed entro il mese di ottobre saranno 500, si legge in una nota del ministero della Difesa, che elenca la task force a protezione della diga nell’ambito del contributo italiano alla missione internazionale contro l’Is.

La scorta del cantiere
L’ufficio stampa dello Stato maggiore della difesa però precisa che i soldati italiani presso la diga non partecipano ad azioni offensive; hanno la sola missione di garantire la sicurezza della ditta italiana che ha ottenuto la commessa per mettere in sicurezza la diga omonima, sul fiume Tigri. In altre parole, l’esercito italiano farà la scorta armata a un cantiere civile.

Sull’importanza strategica della diga di Mosul non ci sono dubbi. Alta 113 metri e lunga 3,4 chilometri, è la più grande diga dell’Iraq. Il suo invaso può contenere fino a 11,1 chilometri cubi d’acqua che scende dalla Turchia, distante 110 chilometri. Ha un impianto idroelettrico da 1.052 megawatt, fornisce acqua ed elettricità alla città e a gran parte della regione. Del resto la quasi totalità (il 98 per cento) dell’acqua dolce superficiale di cui dispone l’Iraq viene proprio dal Tigri, insieme all’Eufrate, che scorre poco più a ovest.

Per questo i miliziani dello Stato Islamico hanno puntato a prendere quante più dighe possibili e a controllare i due fiumi, durante la loro avanzata nella primavera del 2014. Avevano preso anche la diga di Mosul, il 7 agosto di quell’anno: ma l’hanno tenuta appena una decina di giorni. Da allora, nonostante l’Is occupi la città di Mosul, la diga è rimasta sotto il saldo controllo delle forze governative.

A minacciare la diga di Mosul invece è un problema strutturale. Costruita tra il 1981 e il 1986 da un consorzio italotedesco guidato dalla società Hochtief Aktiengesellschaft, poggia su fondamenta carsiche. Così, appena entrata in funzione, è risultato che nella roccia alla base dell’impianto si aprivano grandi “buchi” che andavano riempiti con cemento liquido: tra il 1986 e il 2014 oltre 350mila tonnellate di cemento sono state iniettate nelle crepe che si erano via via aperte.

La diga più pericolosa del mondo
In passato sono state ipotizzate soluzioni più durature, come un muro di contenimento alle fondamenta, o addirittura una seconda diga: ma poi non se n’è fatto nulla. Nel settembre 2006 un rapporto del genio militare degli Stati Uniti avvertiva che “in termini di erosione interna delle fondamenta, la diga di Mosul è la più pericolosa al mondo” e nel 2007 lo Us Corps of engineers ha avviato un piano di manutenzione, finanziato con 27 milioni di dollari.

Da allora gli allarmi si sono ripetuti. L’ultimo è quello lanciato dal Centro comune di ricerca (Jrc) dell’Unione europea, in uno studio pubblicato nell’aprile 2016: afferma che se anche solo un quarto del fronte della diga cedesse, la città di Mosul sarebbe investita nel giro di un’ora e mezza da un muro d’acqua alto fino a 25 metri e in media 12 metri; l’ondata travolgerebbe poi Tikrit e Samarra e dopo tre giorni e mezzo giungerebbe a Baghdad, con una piena alta tra due e otto metri. Una catastrofe.

 

Il problema strutturale è innegabile (sarebbe interessante sapere chi e perché scelse il luogo dove costruire quell’impianto). Nel corso del tempo però sono stati messi accenti più o meno drammatici sul rischio.

L’ex ingegnere capo della diga, Nasrat Adamo, in aprile spiegava al quotidiano britannico The Guardian che la diga può sopravvivere solo con un continuo lavoro per riempire quei “buchi” nelle fondamenta; quando l’Is ha occupato l’impianto, però, la manutenzione si è interrotta, e quando le forze governative hanno ripreso il controllo non tutto il personale è tornato: su trecento addetti ne restano una trentina, i macchinari sono stati rubati o danneggiati e oltretutto manca il cemento.

Nell’ottobre 2015 il governo iracheno ha lanciato una gara d’appalto internazionale per la manutenzione e il consolidamento della diga di Mosul. E qui è entrata in scena l’Italia. Il 15 dicembre il primo ministro italiano Matteo Renzi ha annunciato che la ditta italiana Trevi aveva vinto la commessa per i lavori, e che l’Italia era pronta a garantire la sicurezza del cantiere inviando 450 soldati.

Pochi giorni dopo un portavoce del governo iracheno l’ha smentito, dicendo che non c’era nessun accordo tra Roma e Baghdad sulla difesa; il ministro per le risorse idriche, Muhsin al Shammary, ha anche dichiarato che “l’Iraq non ha bisogno di stranieri per difendersi”.

Il rischio del collasso
Il 22 dicembre, durante un’audizione presso il comitato parlamentare per la sicurezza della repubblica (Copasir), la ministra della Difesa Roberta Pinotti ha ripetuto che il lavoro sarebbe stato affidato a un’azienda italiana, parlandone come di cosa fatta, ma ha precisato che “prima ci dovrà essere l’assegnazione formale della commessa”, e poi “ci sarà la pianificazione per l’invio di 450-500 militari italiani a presidiare il cantiere”.

Due mesi dopo però il contratto non c’era ancora: con ogni evidenza la commessa era ancora da definire, e non tutte le componenti del governo iracheno erano così favorevoli all’arrivo di nuove truppe italiane.

Il 28 febbraio del 2016 l’ambasciata degli Stati uniti a Baghdad ha diffuso una nota dai toni drastici: diceva che la diga di Mosul rischiava un collasso “improvviso” e che in caso di crollo tra 500mila e un milione e mezzo di iracheni avrebbero perso la vita, a meno di evacuare le immediate vicinanze del fiume lungo 480 chilometri.

Un operaio lavora alla diga di Mosul, nel nord dell’Iraq, il 3 febbraio 2016. (Azad Lashkari, Reuters/Contrasto)

 

Quella nota è stata ampiamente ripresa dai mezzi d’informazione internazionali: il messaggio era “la diga sta per crollare”. Si potrebbe pensare che questo abbia creato il senso di urgenza necessario a “convincere” il governo iracheno ad accelerare l’appalto ma naturalmente è solo un’illazione.

Il 2 marzo 2016 il governo iracheno ha firmato il contratto con l’italiana Trevi, parte del gruppo Trevi, azienda specializzata nell’ingegneria del sottosuolo per fondamenta speciali. Un comunicato dell’azienda precisa che il contratto, per 273 milioni di euro, non è stato assegnato per gara ma per “procedura d’urgenza, per via della situazione critica della diga”. In effetti non è chiaro se la gara sia mai avvenuta, o se Trevi fosse l’unico concorrente.

Fondato nel 1957 a Cesena da Davide Trevisani, tuttora controllato dalla famiglia fondatrice attraverso Trevi holding, il gruppo Trevi è quotato in borsa ed è un nome importante nel settore. Nel 2015 ha fatturato 1,3 miliardi di euro, con un trend in crescita già da anni.

Il gruppo ha una filiale negli Stati uniti, Treviicos, che ha lavorato per il genio militare degli Stati Uniti fin dal 2001 (Trevi ha assorbito qualche tempo fa la Rodio, l’impresa milanese che faceva parte del consorzio costruttore della diga di Mosul negli anni ottanta). A dicembre, quando era circolata notizia del contratto (allora si disse che era da due miliardi di dollari), le azioni dell’azienda sono salite del 25 per cento.

 

Trevi, un’azienda privata con azionista pubblico
Nonostante la struttura di gruppo privato, addirittura familiare, il gruppo Trevi ha un azionista pubblico. Infatti nel luglio 2014 il Fondo strategico italiano e la sua controllata, Fsi Investimenti, compagnie di investimento di capitale di rischio appartenenti alla Cassa depositi e prestiti (Cdp), sono entrate nel capitale sociale di Trevi finanziaria con circa 101 milioni di euro, pari a circa il 16 per cento del capitale. Insomma, il secondo azionista del gruppo Trevi è lo Stato italiano.

Questo mette in tutt’altra luce il contratto per la diga di Mosul: lo Stato ha promosso una commessa internazionale per un’azienda di cui è azionista, allo stesso tempo impegnando truppe italiane e quindi denaro del contribuente per la sua protezione.

La cosa è decisamente inusuale: molte imprese private lavorano in scenari di rischio, ma non tutte hanno il privilegio di una scorta armata a spese pubbliche (tra analisti vicini alla difesa sono emersi diversi interrogativi e dubbi sulla missione a presidio di un’impresa privata).

Quanto costerà al contribuente la difesa del cantiere di Trevi? L’ufficio stampa dello Stato maggiore spiega che si vedrà a consuntivo; per ora rientra nei costi complessivi della missione in Iraq. Infatti nella legge che rifinanzia le missioni militari italiane, approvata dal senato lo scorso luglio, la forza di protezione nell’area della diga è inclusa nella “proroga della partecipazione di personale militare alle attività della coalizione internazionale di contrasto alla minaccia terroristica del Daesh”, finanziata per un totale di 236,4 milioni di euro.

La task force a presidio della diga non partecipa all’offensiva per la città di Mosul: l’ufficio stampa dello Stato maggiore della difesa è stato categorico. Però rientra nella stessa missione e nello stesso bilancio, secondo i documenti del ministero della Difesa. Del resto, in quell’audizione di quasi un anno fa la ministra Pinotti diceva che l’Italia si candidava a diventare il secondo contingente militare straniero in Iraq dietro gli Stati Uniti. Da allora in effetti il numero dei militari italiani in Iraq è cresciuto.

Oggi 950 soldati italiani partecipano alla coalizione contro l’Is (la missione chiamata Prima Parthica); secondo la nota del ministero della Difesa già citata, hanno compiti che vanno dai voli di ricognizione all’addestramento dei peshmerga. Sommando i 500 uomini a presidio della diga, faranno 1.450 soldati.

Il lavoro presso la diga di Mosul è cominciato ai primi di ottobre (i responsabili dell’azienda non rilasciano dichiarazioni ufficiali, ma da comunicazioni informali risulta che tutto procede come previsto). Si tratta della fase preliminare. Presto entrerà nel vivo e secondo le previsioni durerà in tutto 18 mesi. Ci lavoreranno tra le 400 e le 450 persone, tra cui una quarantina di tecnici italiani (dirigenti e capi progetto). Con 500 militari di scorta, fanno più di uno per ogni persona addetta ai lavori.

  (*) Ripreso da «Internazionale»; Marina Forti ha un suo blog: www.terraterraonline.org/blog/ ovvero «Terra Terra – cronache da un pianeta in bilico». (db)

 

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