«L’età dell’oblio»

Pierluigi Pedretti invita a recuperare il libro di Tony Judt

  Vorremmo ricordare a 10 anni dalla prima pubblicazione in Italia un testo particolare – necessario antidoto all’era di Salvini –  L’età dell’oblio. Sulle rimozioni del ’900 di Tony Judt (Laterza, 2009: pagine 486, euro 20). E’ un lavoro imprescindibile per affrontare con i giusti mezzi critici questo difficile momento. Lo è grazie a una grande capacità di sintesi, al linguaggio chiaro – nel solco della tradizione anglosassone – che rende comprensibili anche le analisi più complesse. Judt, dopo aver insegnato in Gran Bretagna (Cambridge e Oxford) e negli USA (Berkeley e New York) fu collaboratore della New York Times Review of Books, del Times Literary Supplement e del New York Times, vincendo nel 2007 con il fondamentale libro Postwar – tradotto da Mondadori nel 2017 – il premio Hannah Arendt per la ricerca storica. Lo studioso londinese, nato nel 1948 da una famiglia di origini ebraiche e morto nel 2010 a New York per una grave malattia, era divenuto famoso nel 1998 con The Burden of Responsibility (traduzione italiana: Guasto è il mondo, Laterza).

L’età dell’oblio raccoglie una serie di saggi pubblicati fra il 1992 e il 2007 su riviste e quotidiani internazionali. Non pensate però a un lavoro raccogliticcio, dispersivo, perché c’è un filo rosso che li accomuna: la rimozione del ‘900, l’oblio sulla Storia che non avrebbe nulla da insegnarci. Le prime due parti del libro riguardano il ruolo degli intellettuali, da quelli considerati “irriducibili” (come Arthur Koestler, Primo Levi, Manès Sperber e Hannah Arendt) a quelli “compromessi” con la politica (Albert Camus, Louis Althusser, Eric Hobsbawm, Giovanni Paolo II e Edward Said). La terza parte è un’analisi della situazione europea del secondo dopoguerra, vista attraverso l’ascesa e il declino dello Stato (la Francia, la Gran Bretagna di Tony Blair, il Belgio, la Romania e Israele); l’ultima parte riguarda gli USA – “Il (mezzo) secolo americano” – o meglio, il significato che per gli statunitensi assume la guerra. Esplicativo è il capitolo dedicato al libro dello storico conservatore, il “trionfalista” John L. Gaddis, il cui Storia della Guerra Fredda è per Judt un testo provinciale, parziale e ipernazionalista, che contribuisce a diffondere negli Stati Uniti malintesi e ignoranza sulla vera natura della Guerra Fredda, sul suo esito tuttora problematico. Così come appare stringente la critica dello storico al culto del privato e del mercato globale che sostituisce la fiducia nello Stato e nella pianificazione.

Ma è soprattutto l’ignoranza della storia da parte dei governi occidentali a essere messa da lui sotto accusa. I governanti, assoldando intellettuali di complemento, lanciano campagne sul “dovere della memoria”, rappresentazione in pillole selezionate di un Novecento dalle sofferenze individuali, che serve più a scopi politici interni che a capire veramente il nostro tempo.

Scrive Judt: “Il ventesimo secolo è quindi sulla buona strada per diventare un palazzo della memoria morale: una Camera degli Orrori Storici di valore pedagogico le cui stazioni sono «Monaco», «Pearl Harbor», «Auschwitz», «Gulag», «Armenia», «Bosnia», «Ruanda»; con l’«11 settembre» come una specie di coda superflua, un poscritto sanguinoso per chi avrà dimenticato le lezioni del secolo passato o per coloro che non le avranno apprese a dovere”.

Come noi italiani stiamo facendo con le Foibe.

 

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