L’Europa abbandona il Venezuela

Ma in seno all’Osa solo 16 Stati su 35 appoggiano i golpisti. Per accelerare la caduta di Maduro, Trump conta su Elliot Abrams, vecchia volpe della destabilizzazione del Centroamerica negli anni Ottanta.

di David Lifodi

Sono trascorsi alcuni giorni da quando, dal vecchio Continente, è stato diramato uno sconcertante ultimatum-ricatto al Venezuela bolivariano e a Maduro: se entro 8 giorni Miraflores non provvederà a indire nuove elezioni, Spagna, Francia e Germania (con il beneplacito anche del nostro paese) riconosceranno Juan Guaidó. Tuttavia, i piani golpisti di Trump non sembrano andare propriamente a gonfie vele: solo 16 paesi (Argentina, Bahamas, Canada, Brasile, Cile, Costarica, Ecuador, Colombia, Stati uniti, Honduras, Guatemala, Haiti, Panama, Paraguay, Perù, Repubblica dominicana)  sui 35 aderenti all’Organizzazione degli stati americani (Osa), hanno riconosciuto il colpo di stato. Al tempo stesso, le destre continuano a pretendere a tutti i costi la salida di Maduro e, di fronte alle richieste di negoziato del presidente democraticamente eletto, hanno risposto picche, rifiutando anche la mediazione di Messico e Uruguay.

In un paese politicamente spaccato a metà, ma dove anche una parte di coloro che ritengono Maduro un pessimo presidente e lo additano come il responsabile dell’impoverimento e della grave crisi economica che sta riducendo in ginocchio il Venezuela, cominciano ad essere stanchi delle guarimbas e delle marce di protesta che terminano sistematicamente in guerriglia urbana, il negoziato sembra rimanere l’unica via d’uscita. In questo senso, non contribuiscono certo a raffreddare gli animi le dichiarazioni provocatorie del presidente de facto, che continua a lanciare proclami bellicosi e a promettere improbabili provvedimenti di amnistia senza alcuna legittimazione politica.

In un’intervista rilasciata al quotidiano il manifesto il 28 gennaio scorso, Julio Escalona, membro dell’Assemblea costituente, ha denunciato la presenza di un gran numero di mercenari alla frontiera con la Colombia, pronti ad intervenire per destabilizzare il paese. A livello politico, per evitare di rimanere con un pugno di mosche in mano, è di pochi giorni fa la notizia che il segretario di Stato Usa Mike Pompeo ha nominato come emissario in Venezuela Elliot Abrams, non proprio una persona qualunque. Il suo curriculum parla da solo: coinvolto nello scandalo Iran-Contras, da cui ne è uscito solo grazie ad un indulto presidenziale, Abrams è stato tra coloro che hanno sostenuto negli anni Ottanta i regimi militari di El Salvador e Guatemala ed ha occupato un ruolo di primo piano nella politica estera statunitense all’epoca di George W. Bush, fino ad appoggiare, nel 2002, il colpo di stato promosso contro il chavismo.

Fu in quella circostanza che, con un titolo molto azzeccato, il manifesto scrisse: “Sembra Caracas, invece è quel Cile”. Adesso la situazione non è molto diversa da allora. Da mesi, a quanto pare, Guaidó era divenuto il cavallo su cui intendeva puntare Trump: il giovanotto aveva già viaggiato in Brasile, Colombia e Usa per preparare la sollevazione contro il nuovo insediamento di Maduro dello scorso 10 gennaio. Ora la Casa Bianca ha deciso di gettare nella mischia anche Elliot, per quanto, paradossalmente, nel 2017 la sua candidatura a segretario di Stato era stata rifiutata dallo stesso Trump, che aveva dovuto incassare le sue critiche per la gestione della politica estera.

Nel frattempo, fa abbastanza sorridere la moralità dello schieramento anti Maduro rappresentato dal Gruppo di Lima, che parla di democrazia e libertà, ma vanta tra i suoi appartenenti presidenti dal profilo poco credibile. Si va da Juan Orlando Hernández, l’honduregno mandante morale dell’omicidio di Berta Cáceres, a Jimmy Morales, il presidente guatemalteco apertamente negazionista a proposito del genocidio maya degli anni Ottanta. Per Bolsonaro, Macri e Duque parla il loro percorso politico e i loro legami con paramilitari (e in certi casi con multinazionali appoggiate dal crimine organizzato), ma è interessante analizzare anche la posizione del Paraguay, che ha rotto le relazioni diplomatiche con Caracas fin dall’insediamento di Maduro. In gioco ci sarebbe un debito con Asunción, legato all’erogazione del petrolio, che andrebbe a saldarsi se il legittimo presidente venezuelano cadesse. Anche la Guyana, confinante con il Venezuela, è fortemente ostile alla rivoluzione bolivariana: in palio, se Guaidó divenisse davvero presidente, c’è il territorio conteso dell’Esequibo, oltre ai piani di investimento della Exxon. Per non parlare di Moreno, l’ecuadoregno giunto a Palacio de Carondelet sostenuto dalle sinistre e passato armi e bagagli dall’altra parte della barricata, o del peruviano Vizcarra, il quale condivide con Guaidó il mancato passaggio dalle urne.

In un contesto in cui l’economia venezuelana è in caduta libera, la percentuale di omicidi è tra le più alte di tutta l’America latina e il numero di emigranti è in crescita, i gruppi di mercenari pagati per destabilizzare il paese tramite sabotaggi, incendi ai magazzini di generi alimentari e prodotti farmaceutici non mancano, allo scopo di gettare le basi per un intervento militare mascherato sotto l’urgenza umanitaria. Finora Maduro può contare sulla fedeltà di gran parte delle forze armate (nonostante i ripetuti appelli del presidente de facto ai militari) e sulla contrarietà di buona parte dei settori popolari ad un’opposizione ritenuta colpevole di aver svenduto la bandiera della sovranità territoriale agli Stati uniti.

Le ultime notizie parlano anche del rifiuto dell’Osa (di certo mai tenera con Caracas) di concedere a Guaidó un suo ambasciatore, nell’ennesimo tentativo di creare un governo parallelo per ora andato in fumo. In ogni caso, da un momento all’altro può succedere di tutto, compresa la possibilità che il Venezuela si trasformi in una terra di nessuno come lo sono la Libia, la Siria o l’Afghanistan. Per questo, la scelta anti-Maduro dell’Unione europea, che avrebbe dovuto invece adoperarsi per i negoziati e rappresentare una eventuale ancora per Caracas, rischia di accelerare una crisi dagli esiti imprevedibili.

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

Un commento

  • È quello che da qualche anno fecero contro l’Iran con altri esperti e spie vari ministri degli esteri inglesi. Questa viltavcin la collaborazione del governo liberista ed il parlamento degli usurpatori mentre in tutti e due Stati rivoluzionari le forze armate difendono lo Stato contro i golpisti. Non so se dire il paese spaccato a metà sia corretto. Non possono attaccare militarmente né l’Iran né Venezuela. Il problema da capire è come mai Equador. Da Correa a Lenin. Questo è il pericolo. Le banche il dollaro e L’implosione.

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