Libertà clandestine

di Maria G. Di Rienzo (*)
In due mesi, la campagna ha guadagnato 320.000 sostenitrici: si chiama «Libertà clandestine delle donne iraniane» e sfida l’articolo 638 del Codice penale che

le punisce, qualora non indossino velo in pubblico, con la prigione o con una multa. Le donne mettono online fotografie di se stesse a testa scoperta, mostrando o meno i loro volti, e vi aggiungono le loro riflessioni.

«Era la prima volta in cui vedevo il deserto. (Ndt.: l’autrice parla del deserto e del sole al femminile)
Mentre il sole sorgeva rispettando la sua bellezza, io ho tolto il fazzoletto da testa così che potesse vedere bella anche me. La sensazione è stata stupenda. Ero senza timore, nel deserto, con la mia testa scoperta».

«La libertà è diritto di ogni persona! Libertà, felicità, tutti i colori… sono diritti di ogni donna iraniana».

«La libertà è un diritto e per i diritti bisogna lottare, per ottenerli, perché nessuno te li offre. Perciò li guadagneremo noi stesse».
Nasrin Sotoudeh, l’avvocata che ha passato 3 anni in galera con l’unica colpa di aver difeso i diritti umani dei suoi clienti, in maggioranza donne e bambini/e, ha dato il suo sostegno alla campagna e ne riporto un estratto:

«“Libertà clandestine” è un termine prettamente ironico perché, come tutti sappiamo, se qualcosa viene fatto clandestinamente non può essere chiamato libertà. “Libertà clandestine” è una terminologia indicativa delle pressioni interne all’Iran. La questione di come le donne siano nascoste è qualcosa che di solito non si prende seriamente in considerazione, per molteplici ragioni.
Lasciate che vi racconti di un episodio accaduto quando ero prigioniera. Le detenute sono costrette ad indossare il velo nero lungo che copre completamente il corpo (chador) anche se non esiste prescrizione simile nella legge. In prigione, le guardie sentono di avere completo potere sulle detenute e di poterle costringere a fare qualsiasi cosa esse vogliano. Ciò crea tensione e amarezza.
Io ebbi una discussione con le guardie notificando loro che secondo la legge non avevano il diritto di forzarci a indossare il chador. Il direttore della prigione ribadì che dovevamo farlo. Alla fine, un giorno io dissi ai miei carcerieri che non lo avrei messo più e che, se preferivano, potevano tagliarmi via la testa giusto di fronte al loro ufficio: non avrei indossato il chador. E non lo feci.
Sapete, il forzare le detenute a indossare il velo e la resistenza a tale pressione non sono cose nuove. In effetti, sono 30 anni e più che le donne obiettano a questa costrizione – è solo che le proteste non hanno mai avuto la visibilità che meritavano. Come sempre, vorrei che il governo permettesse alle persone di vivere liberamente le loro vite, perché questa sarebbe la via per un maggior rispetto reciproco».
(*) Riprendo questo post – senza le foto però (la mia solita insipienza) – dal bellissimo blog lunanuvola di Maria G. Di Rienzo (db)

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