L’industria della Morte: abiti, scarpe e s/consigli

per la puntata 133 di «Ci manca(va) un Venerdì» ecco a voi Fabrizio “Astrofilosofo” Melodia

«Da quel fatale giorno in cui fetidi pezzi di melma fuoriuscirono dalle acque ed urlarono alle fredde stelle: “io sono l’uomo” il nostro grande terrore è stato sempre la conoscenza della nostra mortalità, da stanotte lanceremo il guanto della scienza contro lo spaventoso volto della morte stessa, stanotte noi ascenderemo nell’alto dei cieli, sfideremo il terremoto, comanderemo il tuono, e penetreremo fino nel grembo dell’impervia natura che ci circonda». Così afferma con epicità – e un velo di leggera pazzia – il dottor Fredraik Fon Frankenstin, ops, volevo dire Fredrerick Von Frankenstein al suo bieco e gobbo («quale gobba?») assistente Aigor, volevo dire Igor.

Mai come in questi tempi, l’industria della Morte è in forte espansione. Con un gran pregio: niente assistenza post vendita e nessun cliente che torna per lamentarsi.

Eppure il dottor Frankenstein Junior – almeno secondo il film di Mel Brooks e Gene Wilder – si dice certo che potremo ridare vitalità alla materia morta, grazie alle nuove conoscenze tecniche e all’energia dei fulmini.

Non fate caso se, per puro errore grammaticale, nel cadavere viene inserito al posto del cervello di uno scienziato “santo” un cervello A.B. Alla fine l’importante – per dirla con il poeta Torquato Tasso, sì quello della “Gerusalemme liberata” – , è comprendere una scomoda verità: «Muoiono le città, muoiono i regni, | copre i fasti e le pompe arena ed erba, | e l’uom d’esser mortal par che si sdegni: | oh nostra mente cupida e superba!».

In sostanza, le promesse della moderna tecnologia sembrano solo fuffa e fiato di voce, al pari delle numerose pubblicità per la crema antirughe, le numerose palestre e i personal trainers, nuovi guru della salute.

La Morte non ci avrà mai, sembra tuonare l’Industria. Jack Kerouak invece è di altro avviso: «Noi tutti tremanti nelle nostre scarpe di mortalità, nati per morire, NATI PER MORIRE potrei scrivere sul muro e su tutti i muri d’America».

Tutti camminiamo tremando nelle nostre calzature di mortalità/immortalità, eppure i nostri percorsi finiscono sempre dal calzolaio, dove i tacchi rotti, le suole bucate, la pelle ormai consunta, impediscono una rigenerazione della stessa scarpa. Ecco dunque la necessità di nuove calzature.

Per la mia amata poetessa inglese Emily Dickinson, la mortalità è come l’abito d’alta moda a una sfilata a Parigi, senza bisogno di essere top model: «Non sapevamo che saremmo stati vivi – | né quando – saremo morti – | l’ignoranza è la nostra Corazza – | indossiamo la Mortalità | con leggerezza come una Veste Scelta | finché siamo chiamati a deporla – | dall’intrusione, Dio è svelato – è lo stesso con la Vita».

Svestirsi di mortalità/immortalità: in seta rossa con tacco alto? Smoking sopra e sotto bermuda? Il diavolo si sa veste Prada e Venere ha sostituito la conchiglia con una pelliccia.

Eppure gli abiti di Dio vengono meno dinanzi a una profonda riflessione dello scrittore Elias Canetti: «per quanti varrà ancora la pena vivere, quando non moriremo più?». Come afferma il capitano Jean Luc Picard («Star Trek» ovviamente) rispondendo a un certo dottor Soran voglioso di tornare in un limbo cosmico che gli avrebbe donato la pseudo immortalità: «È la mortalità che ci definisce, Soran, fa parte della verità della nostra esistenza». Per poche persone la vita avrebbe senso, senza avere un fine?. La Morte spaventa in quanto ricorda sempre di essere appesi a un filo e di come le promesse del Mercato non siano altro che perdite di tempo dietro illusorie libertà, mentre la vita va da un’altra parte senza di noi.

Quale dovrebbe essere il senso vero della vita? Stephen King suggerisce una strada: «Ma è bello crederlo per un po’ nel silenzio pulito del mattino, pensare che l’infanzia ha i propri dolci segreti e conferma la mortalità e che la mortalità definisce coraggio e amore. Pensare che chi ha guardato in avanti deve anche guardare indietro e che ciascuna vita crea la propria imitazione dell’immortalità: una ruota».

Ruota che macina tutto e tutti, ma in realtà siamo noi: un fiume che ci travolge, ma indubbiamente siamo nel/il fiume. La Mortalità è parte di noi, della nostra natura, ci determina e ci dona la vita, la libertà e la strada per cercare la felicità pungolandoci di continuo.

La paura della morte fa sempre parte della nostra esistenza. Lascio l’ultima parola al bravo scrittore russo Dmitry Glukhovsky, autore del fantascientifico “Metro 2033”, con questa bella esortazione: «Non si può vivere continuando a meditare sulla propria mortalità. Bisogna dimenticarsela. Sebbene prima o poi il pensiero ritornerà, si deve sempre cercare di scacciarlo via, soffocarlo, altrimenti potrebbe radicarsi nella coscienza e rendere la vita una miseria. Non si può pensare al fatto che si deve morire, altrimenti si impazzisce. C’è solo una cosa che può salvare l’uomo dalla pazzia, ed è l’incertezza. La vita del condannato a morte è diversa da quella di una persona normale solo perché il primo sa con esattezza quando morirà, mentre il secondo ne è totalmente all’oscuro e perciò ha la percezione di poter vivere per sempre, anche se esiste sempre una piccola possibilità che potrebbe finire ucciso il giorno successivo, per una disgrazia. La morte non fa paura di per sé, ciò che si teme è l’attesa».

L’IMMAGINE: «Giovane uomo con teschio» di Paul Cezanne

 

L'astrofilosofo
Fabrizio Melodia,
Laureato in filosofia a Cà Foscari con una tesi di laurea su Star Trek, si dice che abbia perso qualche rotella nel teletrasporto ma non si ricorda in quale. Scrive poesie, racconti, articoli e chi più ne ha più ne metta. Ha il cervello bacato del Dottor Who e la saggezza filosofica di Spock. E' il solo, unico, brevettato, Astrofilosofo di quartiere periferico extragalattico, per gli amici... Fabry.

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